Il racconto di Arcady.Se dovessimo fare una classifica dei popoli disgraziati e maltrattati dalla Storia certamente gli Armeni avrebbero un posto d’onore.La loro regione originale erano le terre intorno al Monte Ararat che andavano dal Mar Nero al Mar Caspio. Una posizione scomoda perche’ confinante con tre imperi che si sono combattuti per secoli proprio per il controllo di quella regione, tanto che alla fine se la spartirono. Verso la meta’ del 1800 Persia e Russia finirono di farsi la guerra ed ognuna si prese un pezzo di Armenia. L’Impero Ottomano, che non aveva partecipato alla guerra, si tenne il suo terzo.Una parte della famiglia di Arkady era rimasta nella sezione ottomana, una parte in Persia, ed una parte in Russia. In quel momento la famiglia di Arkady viveva a Dogubeyazit, parte dell’Impero Ottomano. Presto cominciarono le prime persecuzioni che culminarono con il genocidio di piu’ di un milione e mezzo di armeni portato a capo alla fine della Prima Guerra Mondiale da un Impero che stava comunque perdendo l’ennesima guerra e crollando su se stesso. La scusa era che gli Armeni essendo Cristiani erano segretamente alleati dei Russi.Il padre di Arkady era commerciante e scrittore e alla fine dell’800 emigro’ ad Istanbul per tentare di migliorare le condizioni della famiglia. Arkady nacque a Istanbul nel 1909.“Mio padre – ricordava Arkady – scriveva nel giornale armeno e partecipava alle tradizioni religiose Cristiane. Gli ottomani non hanno mai sopportato che ci fossero cristiani nel loro impero, tanto meno cristiani intelligenti. Il 24 Aprile del 1915 circa 300 intellettuali armeni furono arrestati e deportati ad Ankara dove furono quasi tutti subito assassinati. Fra questi c’era anche mio padre.Negli anni seguenti ci fu un vero genocidio. Tutti gli uomini validi venivano uccisi o morivano durante lavori forzati o mandati in guerra in prima linea mal vestiti e mal armati contro il forte esercito russo. Mia madre ed io sopravvivemmo a stento, avevo solo sei anni ma ricordo tutto. Mia madre non si fidava di rimanere a Istanbul e cerco’ inutilmente di convincere le sue sorelle ad andare via con lei. La sua idea era di andare dalla famiglia in Russia. Un progetto arduo maforse unica alternativa. Mia madre era forte, coraggiosa e intraprendente. Aveva dei soldi risparmiati e riusci’ ad imbarcarci su una battello che da Istanbul ci porto’ a Trabzon.”Arkady fece una pausa per il te’. Riempi’ due bicchieri di acqua calda e poi aggiunse il concentrato di te’. Era fortissimo. Arkady si accese una sigaretta e sembro pensare e scavare nei ricordi.“Mia madre conosceva dei contadini curdi che vivevano sulle montagne intorno ad Erzurum dove restammo in attesa del momento buono per passare in Russia. La vita era molto dura l’inverno freddissimo ed io dovevo lavorare come un adulto. Rimanemmo due anni nascosti in quelle montagne finche’ arrivo’ la notizia che la guerra era finita e che i russi non combattevano piu’. Era il 1918. L’impero Russo era caduto, lo Zar era morto e la Rivoluzione Bolscevica aveva vinto. Quello che era l’Armenia Russa divenne uno stato indipendente e mia madre ed io cominciammo il viaggio verso Yerevan dove avevamo parenti.Ad Istanbul intanto le sorelle di mia madre erano rimaste vedove e con i loro figli piccoli furono obbligate con altre donne armene e bambini e anziani e gente malata a marciare nel deserto verso la Siria. Non avevano da mangiare ne da bere, erano derubate, stuprate, mal trattate, uccise durante la marcia, altre morirono di stenti e dissenteria in cammino. Stessa sorte degli Armeni la ebbero i cristiani Siriani e gli ortodossi Greci. In quegli anni gli armeni si dispersero in tutto il mondo.Tutta la regione era in caos e i trasporti difficili. Andavamo di paese in paese viaggiando sui carri dei contadini e ci impiegammo molto tempo a raggiungere la frontiera dove c’erano centinaia di rifugiati che cercavano di entrare nella nuova Repubblica Armena. Non dovemmo aspettare molto, lasciarono entrare tutti piuttosto che lasciarci nelle mani degli ottomani”.Era arrivato il momento di un altro te’ e di un’altra sigaretta. Il racconto di Arkady era coinvolgente, era il ritratto di una epoca e la saga di una famiglia. La moglie di Arkady era stata tutto il tempo accanto a lui spesso rinfrescandogli la memoria. Lei veniva da una famiglia armena persiana e non aveva subito le persecuzioni degli armeni ottomani anche se la Persia era pur sempre uno stato Islamico, e non cosi’ tollerante come lo erano stati i Russi.Arkady riprese il racconto, “ Restammo in Armenia due anni. Verso il 1920 comincio’ a correre la voce che l’Armata Rossa di Trozky stava arrivando ad occupare l’Armenia, l’Azerbaijan e la Georgia per annetterle alla Unione Sovietica. Tutta la sua famiglia decise di emigrare in Persia per raggiungere la famiglia persiana a Tabriz. Mia madre decise di portare con se questo stesso samovar con cui stiamo bevendo il te’.Restammo a vivere a Tabriz. La famiglia apri’ una bottega nel bazar e io andai a scuola, imparai il persiano e finiti gli studi andai a lavorare a Teheran dove conobbi mia moglie”.Si fermo’, mise un braccio intorno alla moglie e rimase in silenzio sorridendo.Dissi che la storia della sua vita era appassionante e che era un soggetto per farne un film.Lui sorrise, poi disse “ Oggi gli Armeni sono in tutto il mondo, in America, in Europa, in Sud America…ognuno di noi, non importa dove siamo, ha questa storia in comune. Tutti sono passati per questa tragedia. Tutte queste persone qui sulla spiaggia sono miei amici, sono commercianti, dottori, avvocati, artisti. Siamo abbastanza liberi, lo Shah anche se musulmano e tirannico ci lascia tranquilli”.La serata stava finendo. Il samovar si stava raffreddando, i bambini dormivano, la ragazza quindicenne diede la buonanotte in inglese, scoprii poi che parlava inglese meglio di suo padre, e ci salutammo dandoci appuntamento la mattina seguente dopo per un te’.
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