LA FELICIDAD – Serie Tropical n 4

Appena imboccata la  Carrettera Panamericana Osiel piggio’ sull’acceleratore della Chrysler. Come tutti i venezuelani anche lui andava alla velocita’ massima consentita dal mezzo ma anche cosi’ le prime tre ore furono noiose passando continuamente da un paese all’altro, all’entrata e uscita dei quali regolarmente c’era un “ policia acostado” ovvero un posto di blocco della Guardia Nacional. Generalmente si trattava di rallentatori lungo l’asfalto della strada, guardati a vista da gruppi in divisa e armati fino ai denti. Regolarmente si perdeva tempo a contrattare il prezzo della corruzione, perche’ di questo si trattava: spillarti denaro inventando complicazioni inesistenti ma Osiel non era uno che si lasciava fregare facilmente. Finalmente cominciammo a scendere dagli altipiani collinosi e aridi verso la costa. Il verde si fece intenso e fresco e gli alberi piu’ alti . Passammo sporadici villaggi fatti di poche case con i tetti di latta ondulata, piccoli orti di granturco, piante di caffè e cacao, si sentiva l’odore di fumo venire delle  cucine. 

Ci fermammo in un posto chiamato El Palito. Li’ finiva l’autostrada e cominciava il Mar Dei Caraibi. Spiagge deserte piene di palme e noci di cocco. Per un buon tratto lungo i bordi dell’autostrada c’erano  file di  donne che vendevano pesce fritto ed altre specialita’ preparate sul posto sopra fornelli a legna di varie dimensioni e fatture. Non eravamo soli e c’era un bel via vai di gente, macchine, camioncini, motociclette, radio accese a tutto volume trasmettendo salsa, musica che cominciavo ad apprezzare. Tutti si fermavano a mangiare al Palito, fermata d’obbligo alla fine dell’autostrada e le donne facevano buoni affari. Facemmo un giro di ricognizione che si rivelo’ essere una interessante lezione di cucina popolare venezuelana. C’era moltissimo pesce che friggevano immergendolo intero in un mare di olio scuro di dubbia provenienza e lo servivano su un foglio di giornale, come avevo visto fare a Barbados. C’era chi vendeva birra gelata e Coca Cola e naturalmente acqua in bottiglia. Molte donne facevano le Arepas, dei panini rotondi di farina di granturco che lavoravano nelle palme delle mani e cuocevano sopra  una latta sotto cui era acceso un fuoco poi le riempivano con formaggio, insalata, pesce fritto. L’Arepa e’ un elemento essenziale nella dieta venezuelana, come il pane e’ qualcosa che si mangia sempre, a tutte le ore. C’era chi vendeva le Hallacas, una polenta ripiena e chiusa in un pacchetto di foglie di banana e poi bollita, una specialita’. Quasi tutto era accompagnato dai Tostones, fette di Platano schiacciato e fritto. Altre donne friggevano le Empanadas. La Empanada ricorda come concetto il Calzone ma di farina di granturco e puo’ essere ripiena di cio’ che uno vuole fra le cose a disposizione. Scelsi una cosa che non conoscevo: una Empanada de Tiburón Cazón. Il Cazón  e’ il  baby squalo. Era buonissimo ed il fatto che fosse uno squalo anche se baby, e quindi potenzialmente un assassino, bilanciava la mia coscienza sul dubbio morale di star mangiando un baby, anche se di squalo. Ci saranno altre cose che mangero’ in futuro che metteranno a dura prova la mia coscienza.

Si riprese il viaggio su una strada locale, che, anche se destinata a diventare una autostrada, e piu’ esattamente il tratto che avrebbe unito, chissa’ quando, Caracas con Bogota’ per immettersi alla grande Autostrada Panamericana proveniente dall’Alaska e diretta alla Tierra del Fuego, per il momento era ancora una strada stretta e piena di buche. Per un lungo tratto costeggiammo il mare. Boschi e boschetti di palme, una spiaggia dopo l’altra, una casa ogni tanto circondata da alberi di banana. Un paesaggio senza tempo. La fine dell’autostrada era la fine di un mondo. Il mondo dei motori, dei grattacieli, del darsi da fare, delle luci al neon finiva li’, a El Palito, fra le donne che friggono il pesce tutto il giorno e tutta la notte davanti al Mar dei Caraibi. Da quel punto in poi cominciava un mondo nuovo che ancora non conoscevo nel quale stavo entrando con totale leggerezza d’animo, come se la cosa non mi riguardasse. In quel momento ero affascinatp dalle palme che velocissime passavano davanti al finestrino posteriore della Chrysler e dal colore del Mar dei Caraibi. Un colore Verde Veronese chiaro, chiarissimo, ma non trasparente assolutamente opaco anche se brillante sotto il sole luminosissimo dei tropici. Una luce che spesso rende i paesaggi in bianco e nero per la forza del contrasto fra luce e ombra, oppure li rende bianchi bruciati dalla luce come una fotografia estremamente sovraesposta. Maria e Alessandra si erano addormentate e Pirata seduto davanti faceva conversazione con Osiel il quale guidava la Chrysler parlandole come fosse una cavalla, dandole brevi ordini, essenzialmente suoni, durante le curve o per accelerare o rallentare mentre Pirata continuava a parlare. Ho sempre ammirato le persone che riescono a fare conversazione, trovare soggetti interessanti. Per me gia’ il cercare un argomento di cui valga la pena conversare e’ una impresa, un tuffo nel buio. Preferisco il silenzio imbarazzante.

Finalmente la strada comincio’ ad essere decente, stavamo arrivando a Tucacas, un piccolo porto all’imboccatura di una grande laguna piena di isole e isolette deserte coperte di palme e mangrovie. La laguna era formata dall’estuario di molti fiumi e canali naturali e le terre regolarmente venivano allagate dal mare durante le alte maree.  A partire da li’ quasi tutta la costa era in quelle condizioni. Le spiagge erano lunghissime e deserte e il Mar dei Caraibi era sempre leggermente mosso, spinto da un piacevole vento che rendeva sopportabile il caldo tropicale. A Tucacas la strada faceva una curva di 45 gradi e si dirigeva nell’entro terra. Salimmo una Sierra fatta di paesaggi verdi, terre coltivate a tabacco e canna da zucchero, allevamenti di bovini, acqua, fiumi, alti alberi alcuni con fiori rosso acceso, altri giallo canarino. Passammo paesi dai nomi inusuali come Yaracal, Kilometro Doce, El Caiman, La Guacharaca. Finalmente dopo un paio d’ore un bivio, girammo a destra e in pochi chilometri arrivammo a Mirimire. A prima vista sembrava un grosso paese di frontiera, assolato e addormentato. Parcheggiati lungo le strade c’erano cavalli e macchine da fuori strada, principalmente Toyota ma anche Jeep e qualche vecchia International, molti pick up da lavoro . Il paese si sviluppava lungo la strada, la case basse, in fila, ognuna di un colore diverso. C’erano un paio di ristoranti, una Arepera, un albergo su quello che sembrava essere l’incrocio principale e molti boteguines , bar dove gli uomini vanno  a bere birra, aguardiente e rum e occasionalmente con qualche prostituta. C’erano cani sciolti in giro, magri affamati che mi ricordarono quelli turchi. Poca gente per le strade, era l’ora della siesta. Da quelle parti il lavoro comincia prima dell’alba e finisce a mezzogiorno, se non alle undici. Comprammo qualcosa da mangiare e qualche birra in una bodega ed Osiel commento’ che Mirimire era l’ultimo posto decente dove fare qualche spesa decente. Infatti la strada si fece subito sterrata piena di pozzanghere. Cominciammo a traversare una Sierra ricca di torrenti, fiumi e sorgenti tutta acqua che scorreva verso la costa formando lagune di varie dimensioni. La vegetazione ai bordi della strada era tutto un groviglio di piante diverse al di sopra del quale si alzavano alberi pieni di liane e di piante parassite coloratissime attaccate ai tronchi. E naturalmente palme, alberi di mango e di aguacate,  alberi di banane ovunque. Ogni tanto un centro abitato formato da poche case lungo la strada. Altri nomi strani: El Cristo, El Candado, La Palmita, Agua Viva. Agua Viva si chiamava cosi’ perche’ c’era una sorgente e la gente veniva a fare il pieno d’acqua. Venivano da tutto il circondario a cavallo, in carretto e con i pickup. L’acqua usciva abbondante da un tubo di plastica giallo e andava poi perdendosi in discesa giu’ attraverso la sierra fino al mare. Chi aveva le bottiglie troppo piccole per il getto della sorgente finiva irrimediabilmente per bagnarsi sotto le risate dei presenti. I venezuelani non hanno ritegni nel manifestare  i propri sentimenti e nessuno si offende. 

Ci fermammo a Cappadare dove Osiel aveva un compadre. Questa gente viveva in un rancho di mattoni rossi, dipinto a calce. All’interno pochi mobili essenziali, un tavolo delle sedie, la cucina a legna. Ci fecero accomodare mentre la donna ci preparava un guayoyo. Fra i molti modi di preparare un caffe’, il Guayoyo e’ il più popolare. Quello che sempre si offre agli ospiti, quello che si beve sempre ovunque in Venezuela. Ricorda il caffe’ americano, ma più saporito. Hanno anche il Negrito, che ricorda l’espresso, e il Guarapo, un caffe’ addolcito con cristalli di zucchero di canna. Mentre Osiel parlava con il compadre mi guardavo in intorno. Crocifissi e ritratti di santi alle pareti in compagnia di un calendario con la foto di una biondina in bikini appoggiata sensualmente sul cofano di una Ford. Fotografie di famiglia.  Un fucile appeso al muro. Arrivo’ il caffe’ bollente. Poi successe una sequenza di avvenimenti interessante. Il rancho aveva due entrate, una sulla strada principale e l’altra sul retro. Le due porte  sempre aperte permettevano una corrente d’aria fresca. Dalla porta del retro spunto’ un bambino di forse quattro anni, moccioso e sporco di terra, scalzo, vestito con una maglietta e niente altro. Ci guardo’ con due occhioni neri filtrati dai capelli a frangia forse mai pettinati. Poi si disinteresso’ di noi e ando’ dalla donna in cucina che gli diede un pezzo di arepa. Il bambino comincio’ a mangiare. Di nuovo distratto dalla nostra presenza non si accorse che gli era caduta mezza arepa . L’altra meta’ la mangio’ sbriciolandola  sul pavimento e poi spari’ uscendo dalla porta posteriore dalla quale entro’ un maiale. Non era un grandissimo maiale ma pur sempre un maiale. Si diresse verso la mezza arepa caduta e la divoro’ in un istante facendo cadere grosse briciole che lascio’ sul posto per poi uscire dalla stessa porta. Dalla porta principale entro’ un cane che subito mangio’ le briciole piu’ grandi lasciando quelle piu’ piccole prima di uscire dalla porta posteriore dalla quale subito dopo entro’ una gallina. La gallina mangio’ tutte le briciole piu’ piccole lasciando il pavimento di cemento perfettamente pulito e poi usci’. Da quelle parti tutti hanno una loro funzione, una loro ragione di esistere e nulla e’ casuale. Ogni cosa nutre l’altra. I padroni di casa lo sapevano e lasciavano correre.

Ripartimmo.  Da Cappadare la strada scendeva di nuovo verso la costa. Dal verde umido passammo ai terreni da pascolo. Passammo una serie di grandi fattorie da allevamento di bovini, principale risorsa di quelle zone. Pochi proprietari, fa cui anche la King Ranch americana, posseggono quasi tutte le terre. Osiel aveva appena comprato quattrocento ettari di terra che si estendevano dalla strada al Mar dei Caraibi. Rallento’ la Chrysler , giro’ a destra ed entro’ in uno spiazzale di terra dove c’erano due ranchos, uno piccolo in mattoni rossi ed un altro piu’ grande di adobe. L’adobe e’ un materiale da costruzione popolare e a bassissimo costo fatto di fango e paglia mischiati e seccati al sole. Osiel usci’ dalla Chrysler, si stiro’, si mise il sombrero da cow boy e annuncio’ : Hemos legado, chicos!

Eravamo su una collinetta. A sinistra in fondo c’era una grande savana verde circondata da colline, di fronte a noi c’era praticamente una foresta intricata di giovani alberi con un sottobosco tropicale tipo rain forest, a destra la collina scendeva verso un fiume largo una decina di metri dall’acqua scura che veniva chiamato non “rio” ma “caño”. Capii poi che il caño e’ un corso d’acqua molto lento, quasi immobile, che fa parte della laguna, acqua dolce che viene dalla sierra. Dall’altra parte della strada c’era un altro rancho abitato da una famiglia locale. Tutta la famiglia era fuori dalla porta e ci stava osservando. Padre, madre, almeno sei figli, un cane magrissimo e qualche gallina. I ragazzini, magri anche loro, erano quasi tutti mezzi nudi e scalzi. La Chrysler mi sembro’ una astronave e noi degli extraterrestri appena atterrati, o per lo meno cosi’ dovevano vederci i nostri vicini. Eravamo arrivati alla Felicidad.

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