LA FELICIDAD serie Tropical n 5

Osiel fece gli onori di casa. Il primo rancho era un cubo con  una finestra e il tetto di lamiera ondulata. All’interno faceva un caldo soffocante, il tetto di lamiera ondulata sotto il sole di mezzogiorno faceva da effetto  forno. Il secondo rancho era piu’ grande e spazioso, piu’ fresco all’interno. Le pareti di adobe erano spesse e facevano da buon isolante. Il  tetto era di lamiera ma c’era una intercapedine di canne per la circolazione dell’aria. Architettura tradizionale, popolare, povera ma saggia.  C’era una stanzetta ripostiglio all’entrata e poi un gran camerone rettangolare dal pavimento di cemento. Fuori, sotto un portico di lamiera, c’era la cucina, ossia un tavolo e qualche sedia ed un barile del petrolio pieno di terra su cui si poteva accendere il fuoco per cucinare. C’era anche un ripostiglio esterno per attrezzi da lavoro. Il tutto in uno stato di quasi abbandono.

“Ho comprato questa terra perche’ voglio farci un allevamento di bestiame”, comincio’ a dire Osiel, “dalla strada  alla spiaggia, tutta la savana e le colline oltre la savana fino al fiume qui sotto e’ tutto terreno mio. Devo recintarlo e ripulirlo di tutta la selva di cespugli e alberi che e’ cresciuta negli ultimi anni e seminare erba da pascolo. Vorrei anche fare due o tre laghetti artificiali che raccolgano l’acqua durante l’epoca delle piogge, perche’ qui quando piove . piove!…” 

Intanto ci era venuta fame e cominciammo a tirare fuori le poche provviste che avevamo. Diverse scatole di sardine, limoncini verdi, una lechosa, che sarebbe la papaya, del formaggio Kraft, qualche pomodoro.

 “Andiamo a dire alla donna qui davanti di farci una arepa” disse Osiel, e ci avviammo verso il rancho oltre la strada. 

Presentazione della famiglia. Lui si chiama Nativa, cosi’ anche il figlio piu’ grande, di forse 10 anni, il secondo figlio, l’unico con i capelli rossicci, si chiama Chacho, che poi capii che non era un nome ma l’abbreviazione di “muchacho”, ragazzino. Gli altri quattro non avevano nome. Tutti magrissimi ma con la pancia tipica della malnutrizione. Nativa padre faceva il guardiano del bestiame di un terratenente di citta’, che era anche il padrone della terra e del rancho. La moglie, Susana era in attesa del settimo figlio. Senza dire una parola ando’ a preparare l’arepa. Il loro rancho era piccolissimo, buio, affumicato e pieno di cose da lavoro fra cui un fucile mezzo rotto e legato con un fil di ferro, un piccolo tavolo, quattro letti, duri e disordinati, uno attaccato all’altro. Pavimento di terra e soffitto di canne. Poverta’, abbandono e rassegnazione si leggevano ovunque. Mai nella vita Nativa avrebbe avuto l’occasione ed i mezzi per portare la famiglia a vivere una miglior vita. Essi come le palme ed i bovini erano parte di quella terra che apparteneva a qualcuno lontano che li considerava esattamente come le palme ed i bovini, una sua proprieta’.

  In un angolo c’era la cucina. Susana mise qualche legno nel fuoco gia’ acceso e una pentola per bollire l’acqua. Ovviamente non c’era acqua corrente cosi’ come non c’era elettricita’ e quella era molto probabilmente acqua del fiume. Quando l’acqua bolli’ Susana mise dentro qualche manciata di chicchi di granturco bianco e li fece bollire per qualche minuto. Poi prese una pietra di calce bianca grande piu’ o meno come una pallina da ping pong e la getto’ nell’acqua bollente. Subito dopo prese un tizzone ardente e lo immerse nell’acqua. La cosa mi incuriosi’  e Osiel spiego’: “Bisogna sempre farlo, la calce e la cenere fanno staccare la buccia dal chicco che viene a galla e si da alle galline.” La risposta era convincente e di fatti  dopo poco tempo le bucce cominciarono a separarsi e galleggiare. Ma la storia e’ piu’ interessante. Piu’ di venti anni dopo, vivendo a New York, mi venne prestato un libretto scritto da un naturalista americano ( Gary Paul Nabhan “Songbirds, Truffles and Wolves) che descrive un suo viaggio a piedi per l’Italia in cerca di piante, nutrizione e  storia. Ad un certo punto Gary Paul capita in una Sagra della Polenta e ci parla del granturco e del suo arrivo ed impiego nell’Italia del 1700 ad oggi. Chi si occupo’ di portarlo in Italia non si preoccupo’ di osservare come lo cucinavano gli indios delle Americhe, appunto aggiungendo una pietra di calce e spegnendo un tizzone acceso nell’acqua bollente. Questa strana operazione, modo tradizionale millenario di preparare le tortillas in tutto il Centro e Sud America, ha una ragione scientifica specifica e non farlo puo’ avere conseguenze disastrose sulla salute delle persone che usano il granturco come unico cibo base. Il termine per questa operazione e’ “nixtamalizacion”, per lo meno questo e’ il termine messicano.

La cenere e la calce sono il mezzo chimico che permette al granturco di rilasciare nel corpo umano le  qualita’ nutritive disponibili al metabolismo. Senza questa operazione non c’e’ nutrimento ma un eccesso di leucina e la pelle umana comincia a squamarsi per poi diventare ferite infette e dolorose. Con il passare del tempo la mente si ammala, l’eccesso di leucina provoca allucinazioni e si puo’ raggiungere la pazzia. I mezzadri del nord italiano, poverissimi e anche loro legati alle terre dei padroni, mangiavano solo polenta, Polentoni li si chiamava con un senso di sdegno se non razzismo. Ebbene i polentoni erano povera gente come Nativa e la sua famiglia ma non sapevano questa cosa e si ammalavano di una strana malattia sconosciuta in Italia che venne chiamata “Pelle Agra”, la Pellagra. Agli inizi del 1800 la Pellagra aveva colpito circa il 20 per cento della popolazione contadina. I padroni davano la colpa all’ignoranza dei contadini “che non si lavavano” . Nessuno si chiese il perche’ di questa malattia, piuttosto si chiesero come curarla, come fosse una malattia della pelle. Nel 1863 un nutrizionista messicano, Ismael Salas, durante un ciclo di conferenze in Italia parlo’ chiaramente del problema e della sua soluzione. Gli Italiani non accolsero i suoi consigli, preferirono curare invece di cambiare il modo di cucinare. In realta’ non volevano affrontare il problema della fame e della poverta’ perche’ alla fine di questo si trattava, di gente che moriva di fame. Agli inizi del ‘900, finalmente, si comincio’ a fare una dieta piu’ variata ed assumere nutrimenti ed enzimi da altri prodotti. A tutt’oggi gli italiani non hanno cambiato il loro modo di cucinare il granturco d’altra parte la polenta e’ diventato un piatto internazionale da ristoranti raffinati, ma l’aggiunta del sugo con le salsicce  cambia drasticamente le cose. Per saperne di piu’ sulla chimica della calce e della cenere andate su google.

Susana raccolse le bucce dei chicchi e le getto’ alle galline affamate. Scolo’ i chicchi e li macino’ in un macinino a manovella di quelli che usava mia nonna fino a formare una pasta con cui fece un bel disco di circa 10 centimetri di diametro, alto circa 5 centimetri di un colore grigio chiaro. Mise sul fuoco una piastra di latta e ci mise sopra l’arepa. In qualche minuto si era formata una crosta fina e croccante e l’arepa era pronta. Pagammo Susana e tornammo al nostro rancho. L’arepa era ottima. Un sapore sconosciuto, il cibo dei Maya degli Atzechi e dei Taraumara. Ma come facessero i Maya a sapere della calce e della cenere rimane un mistero.

   Per arrivare alla spiaggia bisognava attraversare  una selva intricata fatta di cespugli di tutte le dimensioni, alberi che seppur giovani erano gia’ di una altezza considerevole dai cui rami pendevano liane e piante parassite dai fiori coloratissimi. Una festa per gli occhi di un europeo ma una inutile scomodita’ agli occhi di Osiel che non vedeva l’ora di abbattere il tutto e ripulire la terra. Oltre tutto quell’apparente paradiso terrestre era il covo di animali al diverso grado di pericolosita’ a cominciare dai serpenti velenosi di cui Venezuela era uno dei paesi con il maggior numero e diversita’. Ma anche insetti velenosi di varia grandezza e aggressivita’. Per non parlare della possibilita’ di trovarsi di fronte ad un gatto selvatico o “tigre” come veniva chiamata da quelle parti quella specie di puma color caffellatte . Fortunatamente c’era gia’ un sentiero tracciato che seguimmo per una mezz’ora fino ad uscire su una radura dalla quale si intravedeva il mare. Da li’ la via era abbastanza facile. Si attraversava una specie di pineta fino arrivare sulla spiaggia esattamente nel punto dove il fiume sboccava al mare. La spiaggia era lunghissima, chissà una decina di chilometri. Dalla bocca del fiume dove ci trovavamo. Verso sinistra era piena di filari di palme, migliaia di palme di tutte le dimensioni. A destra c’era un laghetto formato dall’acqua del fiume bloccata dalle dune oltre il quale c’erano altri chilometri di spiaggia fino ad un promontorio di rocce rosse. Aprimmo un varco fra le dune e il laghetto spari’ in poco tempo, per ricominciare a formarsi durante la notte. Era il mio primo contatto con una spiaggia tropicale, piena di palme, mare , sole, e completa, assoluta solitudine. In tutti quei chilometri di spiaggia non c’era presenza umana. La solitudine rende liberi e quella spiaggia era l’ultima spiaggia.

Quella notte appendemmo le amache ai pali del soffitto del rancho e dormimmo li’.

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