LA FELICIDAD serie Tropicale n. 6 – L’Araguaney

 

La notte nell’amaca era scorsa senza eventi grazie ad un sonno privo di sogni ed emozioni ma sopratutto grazie alle lezioni di Osiel sul dormire in una amaca. Ci si sdraia non per dritto ma di traverso in modo che il corpo stia comodamente orizzontale e non a spicchio di luna. Fu una lezione breve ma essenziale sull’arte dell’uso della amaca. Quando aprii gli occhi stavano tutti ancora dormendo e quelle amache appese ai pali del soffitto mi fecero pensare ai marinai della Corazzata Potemky  nelle loro amache e pensai che dormire in amaca su una nave era una idea geniale per non sentire il rollio delle onde. Seguii il canto di diversi uccelli che veniva da fuori, la luce era bianca, chiarissima e la terra, ancora sotto l’effetto dell’umidita’ notturna, emanava odori sconosciuti. Per la prima volta notai l’albero di Araguaney a sinistra, lungo la strada. Pareva una nuvola di fiori color giallo intenso che ondeggiava nell’aria, ancorata ai rami scuri dell’albero. Non una foglia era presente. l’Araguaney fiorisce dopo la caduta delle foglie, nel periodo di aridità durante il quale la terra si impoverisce. Api e colibri’ si muovevano di fiore in fiore succhiando polline e nettare. Quello era non solo un albero magnifico ma anche generoso. Le api erano diverse da quelle a cui ero abituato in Italia. Erano molto piu’ piccole piu’ scure e di colore verdognolo. I colibri’ dal canto loro ficcavano il lungo e sottile becco nella tromba del fiore e si drogavano di nettare per poi volare all’indietro velocissimi verso un altro fiore. Non ho mai visto altri uccelli volare all’indietro come fanno i colibri’. Forse lo hanno imparato dalle api.Raccolsi un po’ di legna secca e accesi il fuoco per fare un caffe’. In mancanza della moka misi qualche cucchiaio di caffe’ in una pentola, versai acqua fredda e feci bollire il tutto per qualche minuto per poi lasciare depositare il caffe’ sul fondo. Ottimo, nero ed amaro. Prima di partire decidemmo di andare a fare un bagno nel fiume. Armati di bastoni anti serpente attraversammo l’erba alta della collina per approdare ad una spiaggetta ombreggiata, circondata da una giungla intricata, verdissima e invalicabila oltre la quale spuntavano le cime delle palme. L’acqua era pulita anche se di color marrone scuro, a volte anche verde secondo l’angolazione della luce. Era acqua dolce proveniente dalla sierra che qui, sulle terre piatte della costa, si avviava lentissimamente quasi immobile verso il mare formando fiumiciattoli, paludi e mangrovie.Arrivarono diverse donne fra cui la nostra vicina, accompagnate da un esercito di bambini mezzi nudi che si buttarono subito in acqua con noi mentre le madri si misero a lavare i panni. Ai bambini piu’ grandi si ordino’ di raccogliere legna e fare il fuoco per un “sancocho” che sarebbe un minestrone di verdure e, possibilmente,  carne o pesce. In pochi minuti il fuoco era pronto e due donne si misero alla cucina. Mi avvicinai a curiosare mentre le donne ridevano di me che, non avendo un costume da bagno, stavo in mutande. Raccolsero una pentola d’acqua dal fiume e la misero sul fuoco, da una cesta presero delle pannocchie di granturco una cipolla qualche carota, una patata e altri tuberi locali dai nomi strani come ñame, yucca, batatas. Per ultimo vennero aggiunte due ossa con qualche filo  di carne ancora attaccata ma basicamente ossa. Una donna spiego’ che non ci sono soldi per comprare carne ma il macellaio di Mirimire, suo cugino, quando ci va, le regala sempre qualche osso. Come ai cani, pensai, ma non era un bel pensiero. Quel sancocho doveva sfamare tutti quei ragazzini, un pasto di lusso perche’ non sempre c’erano gli ingredienti, molto raramente della carne.                                                                                                                                                                                                                                                                                                   Quella sera in macchina tornando verso Caracas si parlo’ della terra. La forza e bellezza della natura incontaminata, le palme, le orchidee, la spiaggia deserta, il mare, i vicini mezzi nudi, i serpenti velenosi, le amache, gli alberi gialli, del senso di apparente altro mondo, diverso, lontano da tutto dove non c’e’ nulla o quasi di quel mondo dove stavamo tornando a tutta velocita’ comodamente sdraiati sui sedili di pelle della Chrysler.                                                                                                                                                                                   Osiel comincio’ a parlare dei problemi che aveva rispetto alla Felicidad, per lui quella terra non era il paradiso che era per noi. Per lui si trattava di farla fruttare e per fare cio’ prima doveva pulirla dalla selva che ci era cresciuta sopra, poi doveva recintare tutta la proprieta’ prima che venisse occupata da gente senza terra ne’ casa, vagante in cerca di un posto dove fermarsi, lavorare, vivere…venuta da chissa’ dove di cui poi sarebbe stato difficile liberarsi. Ma Osiel non si rendeva conto che questo “problema” lo aveva creato lui e quelli come lui che si impadronivano della terra sloggiando chi ci viveva sopra senza il certificato di proprieta’, rendendoli cosi’ automaticamente vagabondi.  La maggior parte di loro finisce nelle grandi citta’ senza arte ne’ parte e faranno lavori sottopagati, vivranno in una baracca che si saranno costruita con materiali di fortuna in uno di quei quartieri miserabili e pericolosi che circondano tutte le citta’ del Sud America e in generale di tutti i paesi in via di sviluppo. I loro figli cresceranno in quei quartieri e saranno la malavita del domani.                                                                                                                                                                                                                                                                                                      Alla fine, una volta ripulito e recintato il territorio si sarebbe seminata l’erba da pascolo e mais. Per fare cio’ Osiel aveva bisogno di qualcuno che  stesse sul luogo occupando i due ranchos e facesse da guardiano e supervisore durante i lavori di risanamento e recensione. Osiel si lamentava che era difficilissimo trovare qualcuno di cui fidarsi e a cui affidare il tutto.                                               Arrivati sull’autostrada se ne usci’: “Visto che vi piace tanto la Felicidad stavo pensando: perche’ non andate voi a vivereci e vi occupate della terra e dei lavori?”. Era chiaro che Osiel aveva organizzato la gita alla Felicidad con questo obiettivo in mente. L’astuto venezuelano sapeva che avremmo accettato per puro spirito di avventura. La vita a Caracas non stava portando da nessuna parte, scorreva e basta e nulla ci legava alla citta’. Dopo i primi mesi di novita’ esilaranti e di esplorazione culturale era ora di cambiare aria per qualcosa di piu’ eccitante. Osiel ci avrebbe pagato 900 Bolivares al mese, ci avrebbe lasciato qualche ettaro di terra per coltivarci quello che volevamo e ci avrebbe procurato una Jeep. Per conto nostro tutto quello che dovevamo fare era vivere a La Felicidad, o sopravviverci.

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