25 – VIAGGIO IN AFGHANISTAN Venticinquesima puntata

Ordinare i ricordi e’ importante per sapere uno chi e’ e come e’ arrivato fin li’. Per esempio io non ricordo come e perche’ arrivammo alla frontiera afghana di notte con un buio pesto che i fari della 2CV illuminavano a mala pena. Uscimmo dall’Iran senza problemi e salutai per l’ultima volta la solita foto dello Shah in divisa. Piu’ avanti nel buio c’era una sbarra quasi invisibile sulla strada che quasi ci sbatto contro e una casupola di pochi metri quadrati illuminata da una debole lampada a petrolio. Dentro un giovane soldato si stava facendo il te’ su una cucinetta a legna. Ci venne incontro con una torcia e un fucilone sulle spalle, in una divisa incoerente, troppo grande e piena di toppe e mille ricuciture, un cappello di lana in testa e una coperta piegata sulle spalle. Sorridendo. Finalmente qualcuno sorrideva. Grande curiosita’ iniziale per i passaporti, le fotografie i visti i timbri e poi comincio’ con i documenti della macchina. A parte il libretto di proprieta’ olandese non avevo altro ma l’afgano insisteva che ci voleva il un permesso che non capivo che era, per entrare in macchina in Afghanistan. Comunicazione praticamente a gesti. Senza il “permesso” dovevo tornare a farlo a Mashhad. Qualche dollaro sarebbe bastato a convincerlo ma ero deciso a non mollare. Ci tenne in stallo per una mezz’ora poi visto che non ce ne andavamo decise di andare a ispezionare la 2CV. Non che ci fosse molto da vedere ma qualcosa attiro’ la sua attenzione: la bacinella e il vassoio a fiori che avevo comprato a Erzurum. Me li fece tirare fuori e ispeziono’ con attenzione le rose rosse, i tulipani gialli e lo smalto bianco del fondo.Se glieli davo lui in cambio mi avrebbe dato il “permesso”.Il “permesso” risulto’ essere una scritta sul finestrino posteriore in calce bianca che non ho mai saputo cosa dicesse, ma secondo me c’era scritto “cretino”. ( Forse Pino, a cui mollai la 2CV prima di andarmene lo sa?). Prima di lasciarci andare il furbo afghano (o meglio astuto, come e’ stato definito gia’ da qualcuno…) mi chiese se avevamo shampoo. Una strana domanda, mi propose di scambiarlo per un pezzo di hashish grande come un pacchetto di Malboro apparso improvvisamente nelle sue mani. Dopo la traversata dell’Iran senza un tiro di hash quel pezzo di nero afghano era un miraggio nel deserto. Concludemmo l’affare che fu definitivamente a mio sfavore. L’hashish era ottimo, ma sul prezzo di mercato scoprii che lo shampoo era di gran lunga piu’ caro. Li’ stesso tirai fuori la mia pipa turca e diedi il primo tiro di afghano in Afghanistan. Non voglio fare gli elogi dell’hashish, ma certamente e’ un prodotto che migliora l’umore e ti aiuta a scoprire il mondo. Nel mio caso c’era poco da scoprire perche’ era buio profondo ed i villaggi fatti di terra e fango che passavamo non erano illuminati se non da luci basse che uscivano dalle finestrelle delle case, ma il mio umore era ottimo. Ad un certo punto la strada divenne addirittura asfaltata e si cominciarono a vedere le prime case di Herat.In citta’ c’era vita anche se le strade non erano illuminate. Chai house, ristoranti, panettieri aperti con gente al lavoro intorno ai forni e musica che veniva da qualche radio lungo la strada. Molto traffico ma non di automobili o camion bensi’ di gente a piedi o in carrozza a cavallo, carrozze dipinte a mano ognuna differente, ognuna un’opera d’arte a se. Gli afghani andavano velocissimi con i cavalli al trotto veloce che faceva svolazzare i loro turbanti. In quanto alle donne da una parte c’era stato un aumento di mistero dall’altra una rivelazione. Evidentemente piu’ a oriente si viaggiava piu’ le donne si coprivano. In Turchia portavano i foulards intorno alla faccia, in Iran lasciavano scoperti solo occhi e naso, in Afghanistan non si vedeva piu’ niente. Coperte della testa ai piedi con all’altezza degli occhi una rete sottilissima che solo loro potevano vagamente vederci a traverso. Il burka. Oppure tutto l’opposto, facce aperte, tatuate, vestiti colorati e gioielli al collo.Prendemmo una stanza in un hotel con un terrazzo su quella che sembrava la strada principale e ci mettemmo a fumare in terrazza. C’era qualcosa di strano nell’ambiente: il silenzio. Ovvero non il silenzio totale, ma la mancanza dei rumori del mondo moderno. Non c’erano automobili ne’ motociclette o altri rumori stridenti che fanno generalmente parte della nostra normale realtà. C’erano solo rumori umani ma anche il parlare era pacato. Perfino le carrozze avevano le ruote foderate di gomma e sfrecciavano silenziosamente per la strada sotto al mio terrazzo. Mi affascinavano quei turbanti al vento. Sembrava Mille e una notte. Subito mi chiesi in che secolo mi trovo? Quella frontiera che avevo appena passato non sembrava essere solo una frontiera geo-politica ma una frontiera nel tempo e piu’ il mio viaggio sarebbe andato avanti piu’ me ne sarei reso conto.La stanza aveva le pareti verdi e lungo il soffitto c’erano scritte in rosso che si muovevano continuamente per l’effetto ottico. I letti duri ma comodi, classici letti afghani.Il ristorante del nostro hotel aveva pochi tavoli ma molte piattaforme con tappeti su cui la gente si sedeva a gambe incrociate, o si sdraiava comodamente senza scarpe a bere te’ e fumare.Tutti i ristoranti avevano le loro piattaforme anche fuori sulla strada, un sistema che trovai subito geniale e super comodo. Perche’ sedersi ad un tavolo quando ci si puo’ sdraiare sui tappeti?Ci accomodammo su una piattaforma sulla strada per osservare il mondo e ordinammo da mangiare.Anche l’uso del te’ era cambiato. In Turchia avrebbero portato un bicchierino d te’, in Iran un grande bicchiere, in Afghanistan ci portarono una intera teiera. La teiera era degna di attenzione. Era stata riparata e riparata chissa’ quante volte, perfino il becco non era quello originale ma interamente rifatto in alluminio, sembrava, ed di fatto lo era, una protesi.Ma c’erano altri segni di ricuciture e incollamenti. L’Afghanistan era un paese dove nulla si buttava e tutto si riciclava e trasformava. Arrivo’ il cibo: due naan appena sfornati dal panettiere, un piatto di riso bianco e una scodella con pollo patate spezie varie e verdure il tutto in un buon sugo per intingerci il naan, piu’ un padellino con l’acqua per lavarci le mani. Niente posate, si mangiava con le mani. Anzi, la mano perche’ osservando gli Afghani usavano sempre la stessa. Imparai subito la tecnica di come mettere le dita a cucchiaio e imboccarsi senza perdere un grano di riso.

Pino Cino

Admin
Ordinare i ricordi? Giocare con i ricordi. Ho appena scritto circa il nostro incontro a Kabul e mi incuriosisce quello che è il punto di vista della tua memoria. Come dice Fabio: mezzo secolo. Ho scritto del viaggio a cavallo dal nord e ho risentito il mio compagno, Geppi e anche Roberto. Da ridere quel che ne è venuto fuori. Oggettività zero. Il ricordo è mio e me lo gestisco io: mi sembra la più saggia delle massime.
  • Paolo Paci

    Author
    intanto per cominciare sono stato io a lasciare la mia camicia (preferita) a palline rosse a te, e non il contrario…😄
  • Pino Cino

    Admin
    Paolo Paci prego?
  • Paolo Paci

    Author
    ce l’ho in questa foto di tre anni prima a Istambul.

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  • Pino Cino

    Admin
    Paolo Paci toccherà ritrova’ Renato
  • Paolo Paci

    Author
    Pino Cino ma forse mi hai dato una camicia “decente” e io ti lasciato la mia… gli ultimi giorni a Kabul sono confusi per me
    Pino Cino

    Admin
    Paolo Paci idem per la mia memoria. Immagino sia dovuto a zio Alzhe che incalza, ma mi diverte comunque questo guazzabuglio di immagini e sensazioni antiche che si rincorrono. Presente TNT? che mischia Waterloo e le 21 coltellate a Cesare? o forse erano 15?
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