20 – VIAGGIO IN AFGHANISTAN Ventesima puntata

La strada per Mashad era insopportabile. Dopo piu’ di un’ora continuava ad essere trafficata in tutte le direzioni da camion con rimorchi ad alta velocita’. Poi c’era il fattore polvere a rendermi nervoso, il deserto filtrava nella 2CV attraverso dei buchi alla base della carrozzeria e rendeva irrespirabile l’aria all’interno. Come tutte le macchine olandesi di una certa eta’ anche la 2CV aveva subito gli effetti corrosivi dell’aria salmastra dei Paesi Bassi e li’, ai bordi del Deserto Salato, quei buchi di ruggine che mi erano parsi insignificanti all’inizio diventavano estremamente importanti. Appena fu possibile mi fermai a cercare una alternativa sulla mappa, non potevo continuare cosi’ per 800 chilometri. Decisi di tornare a Teheran, e andare a Chalus sul Mar Caspio, viaggiare poi sulla costa per poi ritornare sulla strada per Meshad 400 chilometri piu’ avanti.Per raggiungere il Mar Caspio bisognava superare una catena di montagne aride e rocciose con molte curve ma con pochissimo traffico, non era una strada per i camion. Quando arrivammo in cima e la strada comincio’ a scendere il panorama comincio’ a cambiare diventando sempre piu’ verde e fresco, cominciarono anche ad apparire gli alberi. Un cambio radicale dalla realta’ arida e polverosa in cui mi trovavo qualche ora prima. Tutta l’acqua delle montagne cadeva verso il Mar Caspio rendendo quella regione verde e fertile mentre a sud delle montagne c’era il deserto. Quel verde e quel fresco erano medicina per lo spirito. Ad un certo punto apparve come un’allucinazione il Mar Caspio, lo vedevamo dall’alto fra una curva e l’altra mentre scendevamo verso la costa, di un bellissimo blu intenso e rassicurante. Arrivammo a Chalus al tramonto, in tempo per comprare qualcosa da mangiare, sentire il canto serale del muezzin e proseguire verso la spiaggia dove pensavamo di accamparci.Andammo sempre dritti per una stradina sterrata, un po’ alla cieca perche’ era ormai buio finche’ la strada fini’ e davanti a noi c’era il mare. Spensi i fari, spensi il motore e mi misi ad ascoltare il rumore delle onde. Il mare era calmo. Uscimmo ad esplorare la spiaggia e vedemmo che non eravamo i soli ad aver avuto quell’idea. Sulla spiaggia c’erano una trentina di grandi tende ben montate in fila di fronte al mare. Sembravano piu’ tende da nomadi che tende da campeggio ed erano multicolori e alte abbastanza per starci in piedi comodamente.Mantammo la nostra tenda alla periferia di quell’accampamento e andammo a vedere chi era quella gente.Le tende erano fatte di tela pesante e colorata con diversi disegni ma il colore predominante era il rosso, gli interni erano grandi abbastanza per ospitare una intera famiglia, il suolo coperto da tappeti e cuscini anche alcuni avevano il samovar per il te’ e le griglie per fare i kebab. Le famiglie erano riunite nelle tende, i bambini giocavano, qualcuno visitava gli amici. Le donne vestivano a colori e non coprivano il viso anzi erano truccate dagli occhi neri e rossetti sulle labbra ed erano libere e rilassate, alcune passeggiavano sole con le amiche.Passando davanti ad una tenda qualcuno ci invito’ a entrare. Nella tenda c’era un bellissimo samovar . Sapevo cos’era un samovar, ma era la prima vota che ne vedevo uno in azione. L’uomo era seduto accanto al samovar e con la mano mi faceva segno di entrare, la donna era in piedi davanti alla tenda e ando’ a sedersi accanto al marito facendo segno anche lei di entrare. L’uomo parlava un po’ di inglese la donna no. Per prima cosa venne il te’, da un rubinetto del samovar l’uomo riempi’ un bicchiere con acqua calda e da una teiera che stava in cima al samovar fece sgocciolare nel bicchiere un materiale marrone scuro ben denso come il miele che dilui’ nell’acqua calda. Era concentrato di te’. Il risultato era ottimo, anche se l’uomo fu troppo generoso con lo zucchero, quindi il seguente lo chiesi senza zucchero, cosa che meraviglio’ moltissimo il mio ospite.Il samovar era un oggetto affascinante, non solo per il nome esotico, ma come tecnologia. Poteva essere raffinato e decorato riccamente o semplice e rozzo ma il sistema era lo stesso. Si trattava di un tubo metallico dentro il quale si accendeva la carbonella, il tubo veniva poi infilato in un contenitore pieno d’acqua che si andava riscaldando, in cima veniva messa la teiera con il concentrato di te’, un te’ molto scuro quasi nero. Quel particolare samovar era di origine russa ed il mio nuovo amico ne era molto orgoglioso perche’ era appartenuto alla sua famiglia da sempre. La donna era gentile e molto truccata e ci faceva montagne di domande, se eravamo sposati, se avevamo figli, dove andavamo e da dove venivamo. Intanto era arrivata tutta la famiglia compresi i bambini che ci guardavano come fossimo marziani. C’era anche una ragazza molto bella di un quindici anni, era una bella famiglia. Erano Armeni, tutta la gente dell’accampamento era Armena, pensai che fossero russi della Repubblica Socialista Sovietica Armena in vacanza. Mi sbagliavo, venivano da Teheran dove vivevano e facevano parte della comunita’ Armena in Iran, la piu’ numerosa comunità Cristiana in Iran, ecco perche’ le donne erano cosi’ diverse.Il mio nuovo amico si chiamava Arkady, e bevendo un te’ dopo l’altro mi racconto’ la sua storia che era poi quella degli Armeni.

la fuga dal deserto di sale la facemmo anche noi dopo una cinquantina di km e via per il Caspio. piacevole strada
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