38 – VIAGGIO IN AFGHANISTAN Trentottesimo episodio.

Gli afghani scommettevano su tutto rischiando spesso grosse somme di denaro. Il gioco era uno stile di vita ed intorno a questa passione per l’azzardo fioriva una vera industria. Nel mercato degli uccelli si potevano trovare uccelli da combattimento di tutte le dimensioni e prezzi. Non che fossero uccelli combattivi per natura ma con un potenziale di aggressivita’ che se allenato e nutrito nel modo giusto quell’uccellino diventava un piccolo criminale. A volte in questo mercato, dietro le botteghe si organizzavano i combattimenti, ma c’era anche un parco al centro di Kabul, dove si riunivano a scommettere. La gente aveva sempre grossi pacchi di soldi e le scommesse aumentavano durante i combattimenti e bisognava anche essere veloci perche’ i combattimenti duravano solo, quattro, cinque minuti, specialmente quelli delle quaglie dei quali se ne facevano diversi uno dopo l’altro. Ogni bottega era specializzata nel suo genere. Dietro la bottega del venditore di quaglie era in corso un giro di combattimenti. C’era il solito circolo di uomini di tutte le eta’ con barbe bianche e nere, con i turbanti in testa, seduti in terra a gambe incrociate serissimi. Dietro di loro una piccola folla in piedi gridando, vendendo, comprando e pagando scommesse.Seduti a terra nel centro del circolo c’erano due uomini con in mano le loro quaglie protette da una copertina. Ad un momento dato le quaglie vennero rilasciate cominciando subito a combattere scambiandosi beccate e zampate, saltando una sull’altra isteriche, velocissime.Il combattimento duro’ circa tre minuti finche’ una delle quaglie giro’ le spalle all’altra e fu dichiarata perdente e ognuno dei proprietari si prese il proprio uccello, mi chiesi come lo riconoscessero, per me erano tutti uguali. Seguirono vari round di quaglie diverse.Era strano vedere gli uomini del pubblico dalle facce dure, grandi e grossi seguire serissimi la lotta di due uccellini. I combattimenti non erano mai all’ultimo sangue. Gli animali erano troppo cari, anche mantenerli e allenarli, per perderli in un combattimento. I galli sopratutto venivano trattati come pugili campioni, diete speciali, allenamenti, corse ad orario. Si diceva che quelli con gli occhi azzurri erano i piu’ cattivi. Ma anche i loro combattimenti non finivano all’ultimo sangue come quelli che vedro’ in altri viaggi. Gli allenatori buttavano la spugna in tempo.Il prossimo combattimento era fra uccelli piu’ grandi, una specie di Pernici grigie con la testa nera. I proprietari prima di metterli nelle gabbie avevano appuntito i becchi e le unghie con un coltellino. Essendo gli uccelli piu’ grandi il circolo doveva essere allargato. Ci penso’ un vecchio che dava bastonate agli stinchi a chi non si muoveva. Quando tutto fu pronto e i soldi avevano fatto il giro della platea entrarono gli allenatori. Le pernici erano in gabbia e le gabbie erano bellissime e molto elaborate, fatte di bambù, eleganti apposta per un campione. Le gabbie furono messe in terra e il fondo venne sfilato via. Al momento giusto le gabbie furono alzate e le due pernici libere cominciarono subito a darsele ed erano molto piu’ cattive delle quaglie e con il becco a punta si ferivano e facevano sanguinare la testa dell’avversario. Ma anche li’ dopo un po’ una si giro’ e si allontano’. Provarono di rimetterla al centro ma dopo un paio di beccate se ne ando’ per sempre. La vincitrice rimase li’ a guardare. Poi subito i proprietari misero gli uccelli in gabbia e cominciarono a fare aria con delle tovaglie per rinfrescali, un po’ come si faceva nel pugilato.Io non credo che gli afghani apprezzassero la violenza in se, ma vedevano la capacita’ di lotta e resistenza al dolore come una qualita’ importante dell’animale proprio come gli afghani stessi hanno sempre lottato e resistito per mantenersi liberi durante i continui tentativi di invasione. Se non avessero avuto quella qualita’ non sarebbero sopravvissuti.Ma gli afghani non smettevano di sorprendere perche’ mentre scommettevano sulla violenza degli uccelli scommettevano ugualmente sulle loro grazie. C’erano gare di volo delle colombe e si scommetteva sulla vincitrice in base alla eleganza, bellezza e perfezione del volo. La bellezza delle piroette e la capacita’ di ritornare dal padrone. C’erano competizioni di canto dei canarini e si scommetteva sul miglior cantante. Tutto era materiale su cui scommettere. Naturalmente c’erano i combattimenti fra cani. Poco comprensibile considerando che tutti, o quasi, erano musulmani osservanti e avrebbero dovuto ignorare il cane o al massimo prenderlo a calci. Invece non si scommetteva solo sui combattimenti, che generalmente erano sanguinosi e che personalmente ho sempre evitato, ma gli afghani organizzavano gare e scommettevano anche sull’abbaiare dei cani. La lunghezza, la melodia, il tono, la continuita’ il “bel canto” insomma, erano tutte qualita’ che venivano apprezzate e tenute in conto.Anche un can che abbaia poteva generare valuta e aveva bisogno di fare esercizi di canto e respirazione ed una dieta particolare. Si scommetteva anche sui cammelli che si prendevano a morsi e calci e, dulcis in fundo, si scommetteva sui montoni, che era chissa’ la cosa piu’ divertente perche’ non c’era sangue coinvolto ma solo delle grandi cornate.Naturalmente c’era il Buskachi. Il gioco nazionale e forse il piu’ divertente e pericoloso che sia mai stato inventato per cui bisogna essere resistenti al dolore, forti, risoluti, coraggiosi e ottimi “chapandaz”, cavalieri.Al primo impatto arrivando che il gioco era gia’ cominciato e osservando senza conoscere le regole, cio’ che veniva in mente era una gran confusione e polvere dove i partecipanti, umani e cavalli, si davano delle grandi botte cercando di appropriarsi la carcassa di quella che sembrava una capra. Tutti avevano un frustino terribile con cui non solo frustavano il proprio cavallo ma anche quello degli altri. Quando qualcuno si impossessava della capra doveva galoppare una estremita’ del campo, girare intorno ad un palo e andare alla estremita’ opposta dove depositare la capra. Il campo del Buskachi era circa il doppio di un campo di calcioUna impresa olimpica, quasi impossibile considerando che tutti gli altri giocatori cercavano di appropriarsi della capra con tutti i mezzi. Poche regole basiche: non frustare in faccia gli altri giocatori, non fare lo sgambetto agli altri cavalli e la capra non puo’ essere agganciata alla sella ma tenuta con la mano. Raramente c’erano i palchi per assistere e la gente si accalcava ai bordi del campo seduti con le gambe incrociate. Quelli rischiavano la vita perche’ quando cominciava una fuga con relativa caccia del gruppo i cavalli impazzivano e andavano velocissimi spingendosi uno all’altro e spesso finivano fra la gente generando confusione generale. Il chapandaz con la capra doveva tenere le briglie con una mano, la capra nell’altra e il frustino in bocca. Si vedeva che ai cavalli piaceva moltissimo questo gioco e conoscevano molti trucchi per ostacolare gli altri cavalli tipo culate fortissime improvvise o tagliare la strada inaspettatamente anche testate agli altri cavalli . Quando la capra cadeva di mano tutti cercavano di afferrarla e si creava una gran confusione di uomini e cavalli.Come nel calcio c’erano due tempi e una pausa, ma i tempi erano molto vaghi, considerando che non sempre c’era un arbitro. Al ripartire il secondo tempo scoprii che c’erano due squadre una di fronte all’altra e al centro del campo veniva messa la capra. Ma siccome ogni partecipante si vestiva come gli pareva non si capiva come potessero riconoscersi fra loro. Insomma quello che io pensavo fosse una gran confusione era un gioco a squadre con una strategia antica di secoli. Il gioco sembra sia originato nella Mongolia di Gengis Khan e chissa’ si giocava senza limiti di campo ne’ di tempo galoppando in liberta’.

  • Alessandro Antonaroli

    Pare che anche Archimede avesse partecipato a qualche gara di buskashi. Ma può essere che fosse solo una leggenda.
    • Pino Cino

      Admin
      per quasi un anno siamo stati insieme in quel postaccio. Si. Un paio di Buskashi, ma si caracollava all’intorno: mai nella mischia.
  • Pino Cino

    Admin
    Cauk, era il nome di quelle pernici da combattimento. Piuttosto onomatopeico perché quello era il suono che emettevano quegli uccelli perniciosi. Aggettivo appropriato, tanto è che uno che mi avevano regalato lo sbolognai rapidamente perché quel cauk cauk era una persecuzione negli assolati pomeriggi del mio giardino.
    Le competizioni con relative scommesse che hai tralasciato erano quelle con gli umani protagonisti. La lotta per esempio tra due campioni scelti in mezzo a una strada e proposti ai passanti come capitò a me un paio di volte.
    Avevo vent’anni e fisicamente facevo la mia robusta figura così che successe che un afghano mi proponesse come suo campione da far combattere contro un altro afghano o, in una differente occasione, contro un tedesco mi sembra, di passaggio anche lui nel Parco di Sharenau. Col tedesco finì a riderne tutti e due e l’incontro con l’Afgano non ebbe luogo perché rifiutai andandomene nonostante le esortazioni di quello stronzo di Leo che era con me e insisteva perché io accettassi pronto come era a scommettere sull’Afghano.
    Ma la scommessa che più mi colpì e che mi insegnò tanto sugli Afghani, capitò un giorno sempre a Sharenau unendomi a un gruppetto di spettatori riuniti sotto un muretto alto un paio di metri, tutti col naso all’insù e pacchi di soldi tra le mani per le puntate.
    In cima al muretto di uno spessore di una trentina di centimetri, stavano due tizi a cavallo di due bici, uno di fronte all’altro impegnati in un “surplace” concentratissimo.
    Non so da quanto tempo fossero lassù né come ci fossero saliti ma dondolavano leggeri su i pedali con un su e giù quasi da danza che li manteneva immobili e in equilibrio.
    Ero in compagnia di due amici afghani e ci fermammo a guardare la partita. Intorno a noi era uno schioccare di scommesse.
    Poi accadde che uno dei due ciclisti perdesse l’equilibrio e finisse a terra dall’altro lato del muro con un bel tonfo. La piccola folla si sciolse: le scommesse venivano pagate e una parte del pubblico girò dalla parte dove era caduto il perdente. Si udivano commenti e risate e anche io e i miei amici girammo per andare a vedere: l’equilibrista giaceva a terra faccia al cielo, occhi spalancati e da sotto il turbante si andava allargando un rivolo di sangue nero. Restai attonito; ancora di più quando udii i miei amici unirsi alle risate di buona parte degli astanti. “Ma è morto.” Constatai. “Che c’è da ridere?”
    “Si ma era scemo a cadere in quel modo”, fu la risposta dei miei amici.
    Inutile dire che quella scommessa mi fece capire meglio il rapporto degli Afghani con la morte.
    • Paolo Paci

      Author
      si, credo che sia lo stesso rapporto che ha molta gente che vive in posti dove la vita e’ sempre valsa poco. e’ un rapporto di indifferenza. L’ho notato fortissimo in Sud America dove vidi un affogato buttato sulla spiaggia e il fratello che si lamentava per le complicazioni che questo implicava…
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