Una mattina andammo al Museo Nazionale Afghano e per andarci prendemmo un autobus locale. Il Museo si trovava quasi fuori citta’, a una decina di chilometri dal centro ma la strada per arrivarci era praticamente tutta dritta e teoricamente veloce. L’autobus, un vecchio Ford degli anni 40, arrivo’ pieno zeppo ma tutti si accalcarono comunque per entrare. Decisi di espettare ad essere l’ultimo, per non restare incastrato in mezzo alla gente e a qualche gallina o pecora. L’ultima persona a salire prima di me fu un vecchio a piedi nudi. Le piante dei suoi piedi erano una suola spessa e dura formatasi con l’andare scalzo durante tutta la sua vita. Dietro ai talloni questa crosta di pelle si era crepata e stava aprendosi. Il vecchio l’aveva ricucita con delle grappe di fil di ferro. In Afghanistan tutto veniva usato fino all’estremo.L’autobus con la radio a tutto volume barcollo’ per circa un’ora, fermandosi ogni due minuti a caricare gente lungo il percorso e, ogni volta che qualcuno gridava, per far scendere, il che richiedeva un certo tempo, anche per scaricare eventuali bagagli dal tetto dell’autobus, operazione a cui partecipavano tutti i passeggeri che erano seduti sul tetto.l Museo era un grande edificio grigio a due piani stile europeo, costruito all’inizio del 900 e la collezione d’arte Buddhista, Islamica, Persiana e Hindu era considerata una delle piu’ grandi dell’Asia Centrale con piu’ di centomila artefatti. L’interno aveva il sapore e l’odore di chiuso dei vecchi musei, con lunghi corridoi ed arcate che dividevano le sale dove si trovavano le vetrine, incorniciate in legno scuro, piene di meraviglie senza tempo. Le sculture, alcune anche molto grandi, erano piazzate su piedistalli di pietra. La collezione di arte buddhista era una vera novita’ per me che di buddhismo sapevo poco. Sopratutto non sapevo che la presenza buddhista in Afghanistan avesse lasciato una cosi’ forte impronta. In una sala c’erano grandi fotografie in bianco e nero dei Buddha scolpiti nella montagna di Bamyan.Purtroppo di tutte quelle meraviglie solo il trenta per cento e’ sopravvissuto alla guerra, il resto, compresi i Buddha giganti di Bamyan, fu distrutto dai Taliban, rubato durante vari saccheggi, disintegrato da bombardamenti e cannonate fra cui l’enorme collezione di terrecotte rimasta sepolta sotto le macerie. Solamente nel 2001 i Taliban distruggeranno circa 3000 pezzi d’arte. Feci un po’ di foto agli artefatti e agli interni del museo, avevo dovuto pagare una tassa per avere il permesso. Scattai un intero rullino con la Exacta e feci anche una foto al guardiano del museo il quale si mise sull’attenti come un soldato. Gli afghani erano cosi’: o non volevano essere fotografati o si irrigidivano come pali di scopa, non era facile prenderli di sorpresa. Tornando verso il centro decidemmo che prima o poi saremmo andati a Bamyan a vedere i Buddha e da li’ avremmo poi continuato verso i laghi di Band e Amir.Andammo a mangiare in un ristorante frequentato da europei e americani dove si poteva mangiare una bistecca di manzo. Mi sembra si chiamasse El Al ed era vicino agli uffici dell’American Express. Il cibo era stile aeroporto internazionale, ossia sciapo, ma era un buon cambio rispetto al riso e kebab di montone che ormai mangiavamo da mesi. Al ristorante incontrammo AT, un amico di Roma da cui a volte compravo dell’hash e mangiando bevemmo un paio di birre che ci costarono piu’ della cena. AT era a Kabul in business. Aveva accettato un lavoro da cammello e doveva portare per degli americani due valige Samsonite imbottite di hashish, da Kabul a Parigi via Nuova Delhi. A Parigi le avrebbe consegnate ad un altro corriere che le avrebbe portate negli Stati Uniti. In piu’ pensava di portare qualcosa per proprio conto e realizzare abbastanza per finanziarsi un’altra impresa. Era un rischio ma aveva una situazione difficile in Italia con i genitori che stavano invecchiando e bisognosi di attenzioni e lui figlio unico con pochi soldi a disposizione. Questa poteva essere una buona svolta. Gli americani avevano affittato una villa a Paghman dove modificavano e imbottivano le Sansonite. Decidemmo che lo avrei accompagnato il giorno seguente con la 2CV a prendere le valige.AT stava all’Inter Continental, l’hotel piu’ caro di Kabul costruito pochi anni prima, frequentato da turisti con soldi, diplomatici, giornalisti, affaristi internazionali, mafiosi, spie, agenti della CIA e spacciatori di droghe varie. Non mi sembrava un buon posto dove passare inosservato, ma tutto considerato da quel punto di vista anche gli altri hotel di Kabul non erano veramente anonimi.La stanza di AT dava sulla piscina, probabilmente l’unica di Kabul, pulita, luminosa, con i tavolini di plastica e gli ombrelli colorati. AT comincio’ a trafficare nel suo bagaglio e apparve una pistola che sembrava una Beretta. L’aveva comprata a Kabul per pochi dollari, una copia di Beretta fatta a mano allo stile afghano con il manico di legno, un’arma che non avrebbe sparato molti colpi prima di incepparsi -“ma che al momento opportuno puo’ risultare comoda”. Poi tiro’ fuori due bustine con della polvere bianca e ne mise un po’ di ognuna sul tavolino e mi chiese se mi andava di fare uno speedball. La cosa mi sorprese perche’ lo speedball e’ un cocktail di eroina e cocaina. Capivo l’eroina a Kabul, ma la cocaina era fuori luogo, apparteneva al Sud America, non a Kabul. “Ce l’hanno gli americani “, disse AT.Farsi uno speedball e’ un controsenso se la coca ti eccita l’eroina ti calma prendendole insieme non dovrebbe succedere niente, si annullano una con l’altra…Rifiutai la eroina, ma accettai un paio di linee di coca. Chiacchierammo per qualche ora, non sempre in modo coerente ma capii che AT era preoccupato per qualcosa che era successo mesi prima a Roma. Non andò sullo specifico né io volli sapere pero’ capii che quella doveva essere la ragione della Beretta. Oltre tutto non pensavo che nelle Samsonite ci sarebbe stato hashish, piuttosto eroina.
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0