13 – VIAGGIO IN AFGHANISTAN Tredicesima puntata

Il Consolato dell’Iran apri’ tardi rendendomi nervoso e insofferente. Pensavo di fare il visto e ripartire subito e possibilmente di arrivare il giorno stesso a Bazargan oltre il confine conl’Iran, un progetto ambizioso considerando le condizioni della strada e i chilometri da fare.Il Consolato era composto da una stanza di attesa con una foto in bianco e nero incorniciata dello Shah di Persia in divisa militare ricoperto di medaglie che sorrideva, poi c’era un ufficio per la burocrazia con un impiegato che uccideva le mosche con una paletta di plastica e poi una stanza misteriosa dove per entrare bisognava prima bussare e poi aspettare, suppongo l’ufficio del Console. Gli impiegati erano scortesi e rigiravano i passaporti fra le mani poi uno disse che per il visto ci voleva la fotografia tipo passaporto.Dove trovare un fotografo in quel paese sperduto sulle montagne?Gli impiegati del consolato non lo sapevano, e anche se lo avessero saputo non lo avrebbero detto a me, cane infedele.Cominciai a chiedere in giro “fotografici?”. … Gli uomini guardavano e tiravano dritti facendo “tzz fra lingua e palato, le donne abbassavano la testa e si giravano dall’altra parte.Finalmente un ragazzino ci porto’ sulla piazza della moschea e ci disse di sedere su una panchina e aspettare. Il fotografo, era un ambulante e sarebbe arrivato prima o poi.Dopo una mezz’ora il fotografo si fece vivo, con la sua macchina fotografica che sembrava uno scatolone di legno su un treppiedi, un secchio con l’acqua, un rotolo di carta rosa sotto il braccio e comincio’ a montare il suo studio all’aperto.Il rotolo di carta era il fondo per ritratti, il colore rosa in bianco e nero sarebbe risultato un grigio chiaro, e lo appese ad un chiodo che gia’ c’era sul muro. Poi mise a punto la macchina fotografica, aggiusto’ il cavalletto e controllo’ l’obiettivo dopo di che prese una scatoletta rettangolare e la infilo’ con tutto il braccio in un tubo di stoffa nero. Dallo zaino prese due piccole bacinelle, le riempi’ con liquidi diversi e le mise nella macchina.Senza un sorriso fece segno di essere pronto, da non so dove tiro’ fuori un seggiolino pieghevole e accenno’ di sedermi. Mi aggiusto’ in posizione, mi giro’ la testa un po’ verso il sole, mi diede un pettine facendo segno di usarlo e finalmente ordino’ di non muovermi. Con una levetta di legno mise a fuoco, tolse il tappo dall’obiettivo e guardandomi fisso conto’ fino a tre in curdo e rimise il tappo sull’obiettivo. Dopo di che infilo’ la mano nel tubo nero e comincio’ a trafficare dentro la macchina fotografica. Stava sviluppando e fissando il negativo, a questo servivano le due bacinelle. Un paio di minuti dopo tiro’ fuori la foto che lavo’ nel secchio d’acqua. La foto era in negativo perche’ la luce impressionava direttamente la carta fotografica. Una volta asciugata la foto-negativa la sistemo’ davanti all’obiettivo e ne fece un’altra foto. Quella foto del negativo sarebbe risultata essere il positivo. Il risultato finale fu interessantissimo per la qualita’ della foto che non avendo una grande definizione aveva l’aspetto di un ritratto d’altri tempi. Insomma era una foto d’arte introspettiva e non di fredda tecnologia. Questo alternarsi del positivo e del negativo, della fretta e della mancanza di tempo mi fece pensare al principio taoista dell’azione inversa (facevo molto l’I King a quei tempi) : se vuoi ottenere un certo risultato persegui l’opposto. Potevo applicarlo alla mia situazione, se vuoi partire, fermati.Il Consolato era gia’ chiuso quando arrivammo con le foto, quindi in onore del Tao, ci fermavamo un’altra notte ad Erzurum.Andai a vedere i bambini che facevano volare gli aquiloni. Contrariamente a quel che pensavo non era una attivita’ individuale, l’aquilone lo manovravano in due. Un ragazzino controllava il rotolo del filo, allentando e frenando secondo il vento e l’altro pilotava l’aquilone stringendo il filo e facendolo scorrere fra le dita spesso ferite, tagliate e sanguinanti. Far volare gli aquiloni non era un gioco ad Erzurum, era una prova di resistenza contro un ambiente duro come le montagne e quei bambini non giocavano ma si confrontavano serissimi con un nemico invisibile: il vento.

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