La strada per Charikar era piena di camion diretti al nord e mezzi agricoli trainati dai muli, a tratti pericolosamente veloce a volte esasperatamente lenta. Era la terza ed ultima parte dell’unica strada asfaltata esistente in Afghanistan costruita dagli americani e dai russi. Quella era la parte russa che da Kabul portava a Mazari Sharif, a pochi chilometri dal confine dell’Uzbekistan Sovietico e, potendo passare il confine, a Samarkanda, l’antica capitale dell’impero di Tamerlano. Una ottantina di chilometri a nord di Charikar a circa 3900 metri di altitudine c’era il tunnel del Salang Pass, anche costruito dai russi e teatro di innumerevoli incidenti fatali, umani e naturali. Dopo il tunnel la strada si divideva al nord per Kunduz e a ovest per Mazari dove l’asfalto finiva e cominciavano le mulattiere. Il progetto finale era unire Mazari Sharif con Herat, completando quello che veniva chiamato “l’anello afghano”, ma per il momento non se ne parlava. Charikar si trovava alle falde dell’Hindu Kush in una valle verdissima circondata da un muro verticale di montagne dove si raccoglievano le acque di diversi fiumi. Ci fermammo ad una chai house lungo la strada principale e prendemmo l’unica stanza disponibile, direttamente sopra il salone comune. Un cubicolo rettangolare dalle pareti verdi illuminato a candela, senza finestre e senza letti. Dalla strada veniva l’odore di kebab, le voci sommesse della gente e il suono di Radio Kabul, i cui altoparlanti erano in cima ai pali della luce e la musica si diffondeva a tutto volume per il paese.Quella sera mangiammo forse il migliore pulao da quando eravamo in Afghanistan. Una montagna di riso, carote, cipolle, pistacchi, mandorle e uvetta sopra uno stufato di carne di montone con mille sapori d’oriente. Andai a vedere la cucina. C’erano odori di spezie a me sconosciute prima di allora come i semi di cardamomo e quelli di cumino che l’afghano in cucina pestava in un mortaio di pietra insieme a bastoncini di cannella, polvere di zafferano, pepe nero e chissa’ che altro. La cucina in se era un pezzo da Museo del Medioevo con grandi fuochi a legna e pentoloni affumicati. Lungo una parete c’erano i barattoli delle spezie di cui l’afghano diceva i nomi e mi invitava a odorare e a volte provare. Sul tavolo da lavoro c’era una serie di coltellacci e coltellini fatti a mano e dal soffitto pendevano pezzi di carne e quarti di montone. L’afghano era molto orgoglioso del suo pulao e cerco’ di spiegarmi il processo piuttosto elaborato di preparazione. Piu’ o meno era cosi: la cosa su cui insisteva era il mettere il riso a bagno la sera prima cosi’ che la cottura vera e propria duri solo 10 minuti ed i chicchi non si attaccheranno fra di loro. Il montone va bollito con le verdure e con il brodo si cuoce il riso e si fa lo stufato. Con il grasso di montone si soffrigge la carne con tutte le spezie e si va aggiungendo il brodo poco a poco. A parte si friggono le cipolle e le carote e si aggiunge dello zucchero ( i non diabetici…). Quando il riso e’ pronto si mescola con tutti gli ingredienti e si aggiungono uvetta, mandorle e pistacchi. In un piatto si mette la carne e la si copre con il riso. Il risultato é eccellente e la carne tenerissima. C’era solo un problema: la carne di pecora, capra e montone cominciava a stancarmi e dopo l’Afghanistan non l’avrei piu’ mangiata se non sporadicamente.Il bivio per Bamyan era una mulattiera di pietre che cominciava subito in salita fra buche e sassi di tutti i generi. La 2CV si comportava come poteva ma la cosa non era facile e bisognava continuamente evitare ostacoli di vara natura. Si andava avanti pianissimo. Dall’alto vedevamo la valle di Charikar attraversata dal fiume, coltivata a rettangoli ed il taglio netto dove il verde finiva e cominciava il rosso verticale delle montagne. La strada saliva in maniera costante e ogni tanto bisognava guadare torrenti e ruscelli e li’ dove si formava una valletta c’era qualcuno che ci viveva. Ad uno di questi guadi il passaggio mi sembro’ troppo profondo per la 2CV. Praticamente la strada finiva davanti al torrente e ricominciava dall’altra parte. Scesi ad esplorarne la profondita’ ed entrai a piedi nudi nell’acqua gelata che subito mi arrivo’ alle ginocchia. Niente da fare, la 2CV non gliela avrebbe mai fatta cosi’ ci sedemmo su una roccia pensando che fare. L’unica cosa era tornare a Charikar, lasciare la 2CV e andare a Bamyan con i camion che andavano di villaggio in villaggio. Mentre stavamo preparandoci a ripartire arrivo’ un camion come sempre pieno di gente ed invece di guadare il fiume davanti alla strada giro’ a destra e ando’ a guadare con molta facilita’ una cinquantina di metri piu’ avanti per poi riprendere la strada in salita. La 2CV non ebbe problemi nel fare lo stesso e cosi’ superammo anche quell’ostacolo.
Stavamo viaggiando da un paio di ore e intorno a noi c’erano solo catene di montagne una dietro l’altra, una piu’ alta dell’altra con le cime bianche di neve e in questa sensazione di silenzio e solitudine estrema lungo la strada incontrammo una giovane donna con il braccio alzato facendo cenno di fermarci. Avra’ avuto 16 anni, vestita di colori vivaci a fiori ed altre decorazioni il cui colore predominate era il rosso che contrastava con i suoi capelli neri, la pelle chiara leggermente olivastra, occhi intensi scuri e inespressivi, sopracciglia folte. Aveva tatuaggi sulle mani e sulle braccia. Anche un piccolo tatuaggio sulla fronte . Un gran numero di bracciali d’argento intorno ai polsi e collane e orecchini con vetri colorati. Una ragazza attraente e affascinante. Niente a che vedere con le afghane di Kabul nascoste dietro i burka. Con la mano fece segno che doveva andare verso un punto non ben definito fra le montagne davanti a noi. Sali’ in macchina e ripartimmo. Conversazione difficilissima ovviamente ma qualcosa riuscimmo a capire. Apparteneva ad una famiglia nomade Aimak, era andata a Charikar da sola ed ora stava tornando a piedi al suo accampamento dove la aspettava in resto della famiglia. Un’ora dopo arrivammo ad un piccolo altipiano erboso in fondo al quale si vedevano alcune grandi tende scure intorno alle quali pascolavano cammelli, cavalli e qualche capra. La ragazza fece cenno di fermarci, scese e lancio’ un grido di richiamo. Diversi uomini arrivarono al galoppo con un cavallo anche per la ragazza. Gli uomini scesero di cavallo e si avvicinarono. Non fu scambiato neanche un sorriso ma solo sguardi penetranti, si dissero qualcosa, la ragazza indico’ la 2CV e poi me. Il piu’ anziano si avvicino’ disse qualcosa a bassa voce e con la mano sul petto inchino’ leggermente la testa. Immaginai fosse una forma di ringraziamento. Io feci lo stesso e ci guardammo negli occhi per un secondo o due dopo di che la ragazza monto’ a cavallo si giro’ verso di noi guardandoci e senza dire niente tutti partirono al galoppo verso il loro accampamento.Noi proseguimmo lentamente lungo un fiume che dovemmo guadare diverse volte ma senza problemi per la 2CV a parte alcune piccole inondazioni interne.Finalmente la valle di Bamyan si andava aprendo davanti noi fino a diventare un posto da sogno verde e fiorito in mezzo alle montagne a 2600 metri di altezza. Al centro della valle scorreva il Bamyan River, acque fredde e limpide provenienti direttamente dai ghiacci e le nevi dell’Hindu Kush. Improvvisamente ci trovammo di fronte i grandi Buddha scolpiti nella montagna. Eravamo arrivati. Il paese era poverissimo composto di tre o quattro strade polverose piene di botteghe e artigiani di tutti i tipi e vendite di prodotti locali, verdure, frutta, pane fresco. La valle era generosa ed il cibo non mancava. Alla fine decidemmo di fermarci alla chai house direttamente di fronte ai Buddha. Ci saremmo rimasti un bel po’.
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3 risposte
fantastico! penso a come deve essere adesso….🙁
Grazie. Questi articoli sull’Afghanistan stanno uscendo non in cronologia, cerchero’ di aggiustare cominciando dalla prima puntata…
no. non voglio pensarci. anche se gli afgahani saranno sempre gli stessi