VIAGGIO IN AFGHANISTAN
Quarantatreesima puntata
Il nostro padrone di casa si chiamava Jafar e non sorrideva mai. Di poche parole, ci rivolgeva lo sguardo per offrire te’ e sapere se volevamo mangiare. Per il resto potevamo anche non esistere. Una mattina presto gli chiesi di affittarmi un cavallo per fare il giro dei laghi. Ci mettemmo d’accordo e partii con la Exacta al collo, deciso di finire l’ultimo rullino di Hilford 400 che mi restava cercando di cogliere la “bellezza selvaggia” del posto ma subito mi pentii di non avere rullini di diapositive a colori. Il cavallo era una brava bestia e si accorse che io non valevo gran che come cavaliere ma decise di sopportarmi e non trattarmi troppo male. Ogni tanto si fermava a suo piacere per contemplare il panorama, poi si girava a guardarmi come per dire “Andiamo avanti?”. Quella del cavallo fu una buona idea perche’ il giro del lago sara’ stato una quindicina di chilometri e scoprii anche una spiaggetta dove mi fermai a mettere i piedi a bagno e far bere il cavallo. L’acqua era gelida, pulita, trasparente, cristallina. In alcuni punti il lago entrava in insenature strettissime fra i fianchi della montagna, rinchiuso fra alte pareti di roccia. C’era un gran silenzio e una gran solitudine e per un attimo pensai che avrei dovuto farmi prestare il fucile. A meta’ giornata ero di ritorno, il giro era durato forse sei ore, a passo di cavallo svogliato ma accondiscendente che solo sulla via del ritorno aveva deciso di galoppare un po’ fiutando aria di casa. Quando arrivai YS stava sul bordo del lago chiacchierando a gesti con due giovani afghani che sembravano molto divertiti . Sembrava che gli afghani avessero un rispetto quasi superstizioso per l’acqua del lago e YS li provocava invitandoli a tuffarsi. Niente da fare, mai si sarebbero tolti i vestiti davanti a una donna e secondo me non sapevano nuotare. Il bordo del lago, quella incredibile diga naturale, era formato da una pietra che sembrava marmo, durissima e bianchissima. Cominciai a tirare sassi nell’acqua e li vedevamo andare a fondo, sempre piu’ a fondo finche’ sparivano. Neanche io mai e poi mai mi sarei tuffato in quelle acque. YS invece era una vera sirena. Cresciuta in Olanda davanti alle dune del Mare del Nord gia’ da giovanissima andava tutte le mattine sulla spiaggia a passeggiare Caesar, il bulldog di famiglia, e faceva il bagno nuotando a lungo fra quelle onde scure e gelide. Nessuna acqua di nessun mare o lago avrebbe intimorito quella donna. Cosi’ non ci penso’ neanche, si tolse camicia e jeans, si fece prestare il mio turbante rosso e se lo lego’ intorno al petto a mo’ di bikini e sotto lo sguardo incredulo degli afghani senza un attimo di indecisione si tuffo’ nuotando sott’acqua per qualche attimo. Quando riusci’ in superficie felice come un pesce in casa propria, ( fra l’altro astrologicamente parlando YS e’ del segno dei Pesci). Grido’ che era magnifico, che l’acqua non era fredda e comincio’ a dare potenti bracciate. Gli afghani erano a bocca aperta, ma ad un certo punto sorprendentemente si tolsero i vestiti e si tuffarono anche loro. Ero sbalordito. Questa qualita’ natatoria di YS, molti mesi dopo, in Italia, nel mare di Gaeta, salvo’ la vita a FB il quale era rimasto intrappolato dalla corrente che lo spingeva sempre piu’ lontano e, stremato, alzava le braccia chiedendo aiuto. Nessuno dei presenti si accorse di quello che stava succedendo ma YS senza dire una parola si getto’ in mare, raggiunse FB gli disse “Non fare niente!” e lo riporto’ a riva dove rimase mezz’ora immobile stile naufrago recuperando il respiro. Questa era YS che e’ diventata da pochi mesi nonna e vive in Olanda. Gli eventi della vita ci hanno separato ma siamo rimasti molto amici. Una delle cose che ci piaceva fare era camminare sulla diga del lago. In alcuni punti era veramente stretta in altri dava spazio ad alberelli di crescere. Erano una specie di betulle alti non piu’ di due metri e di un bel verde chiaro. Ogni tanto ci fermavamo all’ombra a fumare un po’ di hashish e restavamo li’ a guardarci intorno. Se guardavamo a sinistra c’era la diga di marmo, il lago e dopo il lago un altro lago e poi un’atro ancora e poi giu’, una valle verde fra le montagne dove il nostro padrone di casa teneva i suoi cavalli. A destra il lago era rinchiuso da un muro di marmo sopra al quale c’era un altro grande lago, il piu’ grande dei sei. Fra i due c’era un laghetto di un colore smeraldo completamente diverso dagli altri. Fra le piante e il verde che cresceva tutto intorno vivevano delle piccole rane gialle molto loquaci il cui canto si sentiva da lontano. Non si lasciavano intimorire dalla presenza umana e si lasciavano osservare tranquillamente.
Secondo una leggenda locale, i laghi si formarono come risultato di una serie di miracoli compiuti da Ali, genero del profeta Maometto, cosa che lasciò il re locale così sbalordito che decise immediatamente di convertirsi all’Islam. Ali era una figura chiave per capire sommariamente la poverta’ della regione dove mi trovavo. Sembrerebbe che Maometto avesse nominato Ali come successore dopo la sua morte ma mentre Ali stava preparando la salma di Maometto per i funerali un gruppo di capi tribù si riunì a Medina ed elesse ad Imam un altro seguace del Profeta: Abu Bakr. Quando Ali arrivo’ a Medina si trovo’ davanti al “fait accompli”. La elezione di Abu Bakr ad Imam fu un fatto politico ma fu anche l’inizio di una grande frattura che divenne causa di guerre, tradimenti, assassinii e perfino avvelenamenti che si susseguirono nel corso della storia anche se Ali in seguito fu eletto quarto Califfo. I seguaci di Bakr divennero i Sunniti ed i seguaci di Ali gli Shiiti. Questa inimicizia se la porteranno dietro fino ai giorni nostri diventando uno degli ostacoli alla pace in Medio Oriente (Iran e Arabia Saudita). Jafar, era Shiita come tutti del resto in Hazarajat, quella regione centrale povera, montagnosa e remota abitata dagli Hazara, un altro popolo sfortunato e maltrattato dalla storia. Jafar aveva la pelle consumata dal vento, rugosa e secca. Gli occhi acuti e leggermente a mandorla rivelavano provenienze asiatiche. Si dice che gli Hazara discendano in parte dai Mongoli di Gengis Khan che invase l’Afghanistan (un altro invasore!) nel 1220 in marcia verso la conquista dell’Impero Persiano. A Bamyan suo nipote perse una battaglia e la vita e per vendicarsi Gengis Khan fece strage della popolazione locale, molti furono fatti schiavi e un gran numero di mongoli fu lasciato nella regione mischiandosi con la cultura e la societa’ locale. Gli Hazara erano seguaci di Ali e divennero Shiiti mentre il resto dell’Afganistan divenne Sunnita, sopratutto le due maggiori entita’ etniche del paese i Pashtun e i Tajiks. I Pashtun sono sempre stati al potere ed hanno sempre maltrattato gli Hazara economicamente con tasse esose riservate solo a loro e socialmente con una politica di discriminazione profonda di base che puo’ essere considerata semplicemente razzismo e desiderio di possesso delle loro terre. Qualcuno dira’ di no, che il problema e’ religioso fra Sunniti e Sciiti ma personalmente credo che sia razzismo verso una minoranza considerata diversa ed inferiore. Da qui tutte le repressioni e le rivolte, i massacri e le prigionie tipiche della pulizia etnica. Gli Hazara, da bravi Afghani, hanno sempre resistito e lottato e dal 1200 ad oggi poco e’ cambiato, solo la qualita’ delle armi. A volte hanno vinto, spesso hanno perso. Anche loro, come altri popoli disgraziati incontrati nel mio viaggio sono dovuti emigrare e li troviamo sparsi nel mondo: in Iran, in America, in Europa, in Australia dove hanno potuto ricostruire una vita dignitosa. Un giovane amico Hazara, Hamid, cosi’ mi scriveva qualche tempo fa: Fortunately the Hazaras in Australia are living a good life as they all have their own business in construction, restaurants, even lawyers and I think one of the reason is that they suffered a lot and it was a lesson for them. La famiglia di Hamid fuggi’ in Iran, dove nacque lui, e susseguentemente emigro’ in Australia.
Quel pomeriggio Jafar stata bevendo te’ davanti alla sua baracca in un raro momento di riposo. La sua estrema poverta’ raccontava la storia degli Hazara, alla sua eta’ doveva aver visto molte ingiustizie ed atrocità’. I cavalli di cui si prendeva cura non erano i suoi ma di un Pashtun di Kabul. Tutte le mattine Jafar andava a controllare che avessero cibo ed acqua. Gli chiesi un te’ e mi sedetti in silenzio con lui. Si accese una sigaretta e mi sorrise per la prima volta.
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