42 – VIAGGIO IN AFGHANISTAN Quarantaduesima puntata

La mattina della partenza il livello della benzina della 2CV non mi convinceva. Per arrivare a Bamyan avevamo consumato piu’ del previsto avendo fatto tutta la strada in prima e seconda. Metterci su altri 400 chilometri fra andare a Band e Amir e tornare fino a Charikar era un po’ rischioso. Non volevo restare a secco sulle montagne col rischio di passarci la notte. Decidemmo di lasciare la 2CV a Bamyan e andare a Band e Amir con il primo camion che fosse passato. Mettemmo i sacchi a pelo, la borraccia con il te’ verde, pane e frutta e qualche vestito in un sacchetto e ci sedemmo sul ciglio della strada ad aspettare insieme a un gruppo di afghani. Finalmente arrivo’ un decrepito school bus Ford 1940 dipinto a mano con decorazioni floreali e scritte del Corano. Si fermo’ davanti alla chai house e cominciarono a scendere i passeggeri, poi scaricarono il bagaglio dal tetto e finalmente salimmo a bordo. Ogni centimetro quadrato era occupato da qualcosa o qualcuno e ci sedemmo in fondo negli unici due posti vuoti che rimanevano, accanto a una coppia di hippies che si rivelarono essere svizzeri. Pensai che i due posti erano rimasti vuoti perche’ nessuno voleva sedersi accanto agli infedeli svizzeri, ma con il nostro arrivo qualcuno doveva pur stare vicino a noi. La cosa era un po’ comica, comunque i nostri compagni di viaggio afghani si rivelarono simpatici, in fondo noi, piu’ che altro le ragazze, eravamo oggetto di curiosita’ e ci guardavano con la bocca semi aperta. Altri invece erano piu’ aperti e intraprendenti e con loro si poteva tentare se non una conversazione almeno intendersi su qualcosa anche con l’aiuto del dizionario che avevo comprato ad Herat. Ad un certo punto lo svizzero comincio’ a preparasi una pipa di tabacco e hashish. Non a tutti la cosa piacque. Il mio vicino afghano dandosi colpi sulla testa disse che l’hashish faceva diventare pazzi e non voleva che fumasse sull’autobus perche’ lui aveva paura di aspirarlo. Lo svizzero lo ignoro’ e si accese la pipa e poi la passo’ alla sua donna. Per fortuna erano seduti vicino al finestrino ed il fumo svaniva direttamente fuori e non ci furono conseguenze di pazzia a bordo. L’autobus avanzava lentissimo in salita fra pietre e buche di insolite dimensioni cosa che mi face pensare di aver fatto bene a lasciare la 2CV a Bamyan. Naturalmente non poteva mancare la foratura di una ruota, o meglio la definitiva fine di quello che era stato in passato un copertone . Scendemmo tutti. Le donne si separarono subito dagli uomini e andarono a sedersi lungo la strada un po’ piu’ avanti. Gli uomini cominciarono subito ad interessarsi alla ruota e ognuno diceva la sua. La ruota da cambiare era la posteriore sinistra. Una ruota di scorta c’era anche se a mio giudizio era nello stesso stato deplorevole di quella bucata, ma era l’unica che avevamo. Il problema fu come sollevare l’autobus perche’ il cric non bastava. Fu deciso di aspettare il passaggio di un camion che forse ne avrebbe avuto uno piu’ adatto. Ne passarono alcuni ma nessuno con il cric giusto.Fu presa un’altra decisione: un gruppo di uomini avrebbe spinto una roccia sotto la carrozzeria su cui appoggiare il cric e sollevare l’autobus. Prima furono scaricati tutti i bagagli per eliminare peso. Un incredibile quantita’ di valige, bauli e fagotti di ogni tipo fu allineato sul ciglio della strada e finalmente si comincio’ a lavorare. Fu trovata la roccia adatta e fu spinta nel punto giusto e si pote’ cominciare a cambiare la ruota. Ci volle un bel po’. I bulloni erano duri da svitare ma comunque finalmente tutto fu fatto in poco piu’ di due ore. Le donne tornarono a bordo indifferenti, tutti i bagagli furono ricaricati e finalmente ripartimmo. Stavamo viaggiando sui 3000 metri, la strada andava curvando continuamente secondo le falde della montagna finche’ al passare un promontorio si videro in basso i laghi di Band e Amir. Ogni descrizione della bellezza di questi laghi non fara’ giustizia alla realta’ anche se in qualche modo ci provero’. L’autobus ci lascio’ al bivio di una mulattiera che scendeva verso i laghi e un afghano mi indico’ due posti dove passare le notti. C’era una specie di ostello dove andavano tutti gli stranieri e un piccolo rifugio dalla parte opposta dove viveva un guardiano di cavalli e che ospitava viaggiatori. Decidemmo per quest’ultimo. Lo si poteva vedere dall’alto sotto una diga naturale che sembrava sostenere la pressione di tutto il peso del lago le cui acque straripavano in vari punti creando delle cascate per poi a andare a gettarsi in un altro lago. In tutto c’erano sei laghi lunghi e stretti fra le montagne, chiaramente residui di ere glaciali. Mi chiedevo se era una buona idea dormire li’ sotto. Come puo’ una barriera cosi’ sottile resistere alla pressione di un lago cosi’ grande, profondo 150 metri e separato da altri cinque laghi da sottili pareti di roccia? Scendendo la montagna ci fermavamo ogni tanto a guardarci intorno. La purezza dell’aria a 3000 metri rendeva i colori fortissimi e la luce del pomeriggio li intensificava. Il cielo era decisamente blu, le montagne intorno erano rosse ed i laghi di un ceruleo cosi’ intenso da non sembrare naturale, le nuvole erano bianchissime come la neve sulle cime delle montagne all’orizzonte. Non si vedeva un filo di verde se non lungo le pareti del lago. Le montagne che rinchiudevano i laghi erano opera di millenni di erosione dovuta al ghiaccio, la pioggia, i venti. La parte superiore era stata erosa abbastanza da mostrare il nucleo centrale rosso e solido mentre alla base c’era tutto il materiale eroso col tempo accumulatosi a forma di cono. Quel paesaggio era di un altro pianeta, sembrava il film Il pianeta delle Scimmie, quando la nave spaziale precipita su un pianeta sconosciuto sulle rive di un lago misterioso circondato da montagne rosse. Allora non lo sapevo ma quel paesaggio e’ identico al Sud Ovest americano, per fare un esempio, il Grand Canyon. Ecco, immaginate il Grand Canyon pieno di acqua blu. Oppure quelle strane montagne della Monument Valley che tanto piacevano a John Ford. Gli svizzeri decisero di andare all’ostello, ci separammo e noi andammo dal guardiano di cavalli. Il tipo avra’ avuto cinquant’anni con la barba alla musulmana il turbante arrotolato sulla fronte, un panciotto militare ricucito e rattoppato ed ai piedi grossi sandali con la suola di copertone. Il posto era una casupola quadrata color terra dove c’erano due stanze, una per i viaggiatori e una per il padrone di casa. Fuori c’erano un paio di cavalli ed un fucile appoggiato al muro. Pensavamo di essere soli ma c’era gia’ una coppia di inglesi che pero’ partirono in giorno seguente. Dietro alla casa c’era la parete del lago, scura, umida con piante e piantine che crescevano in verticale, in cima lungo il bordo si vedevano degli alberelli. Al destra l’acqua del lago straripava e formava una cascata. La parete sara’ stata alta una decina di metri e si poteva salire sul bordo usando dei passaggi naturali fra le rocce. Il bordo era largo circa tre metri e ci si camminava facilmente. Praticamente la passeggiata mattutina era andare da un lago all’altro camminando sul quel bordo.Si dormiva in terra su dei pagliericci neanche troppo scomodi. Nel prezzo era compreso te’ verde tutto il giorno e uova fritte e patate a colazione, il resto era extra. Tutte le mattine l’afghano si alzava prima dell’alba e partiva a cavallo col fucile sulle spalle e tornava a mattinata inoltrata con pane, frutta, uova a volte della carne di montone ed altri prodotti essenziali come lo zucchero che andava a comprare ad un villaggio a venti chilometri di distanza. Portava sempre con se dei grossi sacchi che strada facendo riempiva con cacche secche di cavallo e cammello da usare come combustibile per fare il te’ e cucinare. La notte pregava tutto il tempo per farsi perdonare da Allah la presenza sotto il suo tetto di cani infedeli come noi e inutilmente cercai di fargli capire che in Turchia ero diventato musulmano, anche se non praticante.









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