Una mattina uscii a comprare il pane e sentii che qualcosa non andava con le mie gambe. Faticavo al camminare e mi girava leggermente la testa. Non gli detti troppa importanza. Tornando verso l’hotel passai di fronte al macellaio. Come al solito pecore e capre squartate erano appese davanti alla strada, sul bancone c’erano teste, lingue e pezzi di carne con il sangue che sgocciolava sulla strada. Un leggero vento porto’ l’odore del sangue alle mie narici provocando una reazione inaspettata di nausea cosi’ violenta che dovetti fermarmi a vomitare. Da quel momento ogni odore, ogni profumo ogni alito di vento portatore di un odore qualsiasi aveva in me quell’effetto nauseabondo. Tornato in hotel la debolezza si fece notare. Andai al bagno e pisciai color Coca Cola, e produssi feci color mozzarella. Il guru francese disse che era una epatite, che molti in Afghanistan se la prendevano e che sarebbe durata una settimana o due. iCosi’ mi preparai a quella nuova realta’ pensando che sarebbe stato solo questione di tempo. Dopo qualche giorno anche YS comincio’ a non stare bene, per fortuna non cosi’ violentemente me. Le forze non tornavano e passarono due o tre settimane in cui mangiavamo solo mele, quelle piccole, deliziose mele afghane, e si beveva te’. Ogni tanto uscivo e camminavo 20 metri con gran fatica fino ad un banco dove facevano succhi di melone in un vecchio frullatore. Sapevo che era un errore in quei bicchieri mal lavati ma la bocca e la gola a volte erano di una aridita’ insopportabile. Credo che fu dopo la terza settimana che decisi di andare in ospedale. Sapevo che da qualche parte c’erano i dottori di Medecins sans Frontiere e contavo su di loro. L’ospedale di Kabul era circondato da un grande cortile con alberi e c’era una enorme quantita’ di malati di tutti i tipi ed eta’. Alcuni passeggiando su e giu’ in pigiama, altri in vecchie sedie a rotelle, altri ancora sdraiati in terra o sulle poche panche di legno sparse in giro. Sembrava il lazzaretto dei Promessi Sposi edizione afghana. YS era rimasta in hotel. Finalmente trovai un giovane dottore francese che mi accompagno’ a fare un prelievo di sangue. La stanza dell’infermeria era di color azzurro chiaro, c’era un lettino su cui mi fece sdraiare e comincio’ a cercare una siringa. Dovette andare a cercarla da qualche altra parte. Mentre aspettavo da solo che tornasse cominciai a notare macchie di sangue sulle pareti cosa che non mi fece veramente rilassare. Pensavo che forse anche il mio avrebbe fatto la stessa fine. Quando finalmente il dottore ritorno’ aveva in mano una siringa gigante e si scuso’ per non aver trovato niente di meglio. Era una siringa per altro tipo di prelievi ma poteva essere usata ugualmente. L’ago era lungo almeno dieci centimetri, usato chissa’ quante volte ma il dottore li fece bollire a lungo. Quando tutto era pronto comincio’ a disinfettarmi il braccio. Pensai di essere capitato nei fumetti de L’inferno di Topolino, che avevo letto da bambino e mi aveva fatto una grande impressione, dove c’era una scena terribile in cui un diavolo dottore, uno della Banda Bassotti, inseguiva un bambino finito all’Inferno per aver fatto sega a scuola con una siringa enorme. Da li’ la mia fobia per gli aghi. Il dottore capi’ che non ero veramente a mio agio e disse di non preoccuparmi, non doveva togliermi tutta la siringa di sangue ma solo un po’. – Ah… allora sto tranquillo- pensai. Finalmente mi ficco’ quell’ago nella vena e mi disse di stare li e aspettare. Mi addormentai, credo qualche ora, poi il dottore ritorno’ e disse che si trattava di epatite virale tipo A. Consigliava rimanere a letto un paio di settimane, bere Alka Seltzer e mangiare, se ci riuscivo, cose semplici.Durante la settimana seguente YS ed io diventammo all’Alka Setzer dipendenti, sopratutto quello all’arancio che era l’unica cosa che non provocava nausea e mangiavamo solo mele o meloni.YS stava meglio di me ma io andavo peggiorando e anche la voglia di reagire se ne stava andando. Cosi’ passarono giorni di apatia sempre pensando che prima o poi mi sarei svegliato in ottima forma.Una mattina in controluce davanti alla porta aperta della nostra stanza apparvero due tipi. Un piccoletto biondino col naso acuto e uno piu’ grosso e alto con i capelli corti e un panciotto all’ afghana. Erano italiani e avevano saputo che in hotel c’erano due italiani che stavano male. Dopo le prime frasi introduttive ci presentammo: il piccoletto si chiamava Renato e parlava con l’accento napoletano quello piu’ alto, Pino, aveva l’accento romano.
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