Ho detto che la vita è buffa e sempre originale nel suo snodare sentieri imprevedibili e curve a gomito, salite e discese. Anche per noi malati terminali ma generalmente per tutti.
Facile immaginare grattatine di testicoli, o quel che ne resta ai miei lettori; scongiuri vari insomma a commento di siffatta introduzione.
Capita appunto in un momento di “degenza”, tra virgolette perché in una recensione del luogo ho definito questo Hospice un cinque stelle, capita dicevo di incontrare in internet una donna che mi dice di averlo fatto a sedici anni la prima volta, ed ecco che a me viene in mente la mia prima volta.
Da vergognarsene.
17, 18 sulla cresta dell’onda che all’epoca significava capelli lunghi, abiti tra Piper Markey e via Sannio, stivaletti col tacco.
Esattamente quanto una coetanea domandava. Mettiamoci pure una parlantina sciolta e un sorriso facile. Nessuna timidezza o imbarazzo con le femmine.
Ero cresciuto con la lettura dei tomi di Giacomo Casanova, Cavaliere Veneziano, ribadita un paio di volte nonostante le duemila pagine e i divieti genitoriali.
Da farne una bibbia.
Alle donne attribuivo una grazia innata e mi guidava spontaneo un profondo rispetto non disgiunto dal desiderio.
Facile quindi che nelle serate al Piper capitasse con alcune di esse, per come si diceva all’epoca, una paccata più o meno spinta.
Possono aiutarmi immagini della memoria, qualcuna ancora superstite, a vedermi impegnato nei corridoi superiori del locale o in qualcuno dei suoi palchetti a sditalinare, a infilare dita o a farmelo succhiare o farmi tirare seghe.
Mai preso, anche per la scomodità dei luoghi, automobili comprese, 500 o Mini Morris al massimo, dalla premura di un rapporto sessuale completo.
Ma laido che fui quella volta quando capitò che l‘infermiera, qualche anno più di me, bella e simpatica e che col mio uccello ci sapeva fare, per l’ennesima volta mi tirò dentro la sua 500 per intorcinarci appassionatamente come era già capitato.
Ma io, sempre laido, notai che frugando nella borsetta, forse per tirar fuori un fazzolettino, lei appoggiò sul cruscotto una macchia fotografica mai vista prima: rettangolare, meno di un pacchetto di sigarette.
Wow! Mentre lei andava in bagno la macchinetta passò rapida nella mia tasca e poco dopo trovai una scusa per andarmene.
Io avevo perso la verginità e lei quell’attrezzo giapponese o tedesca che fosse.
Brutta storia quella della macchinetta fotografica. Si trasformò subito in una colpa e un rimorso.
Partii per Londra e lì un caro amico me la rubò per vendersela, rimediare quattro soldi e andarsene ad Amsterdam.
Lo rincontrai mesi dopo dalle parti del Piper: lo spinsi contro un muro rinfacciandogli il furto, ma lo ammise subito e la cosa finì lì.
Io conservavo la memoria di quanto avevo fatto.
Fino a che accadde di incontrare la mia infermiera che nel frattempo aveva sposato un conoscente.
Due chiacchiere. Io imbarazzato; ma lo sguardo che mi diede disse che sapeva ma mi aveva perdonato. Il sorriso che mi dedicò era quasi materno.
Un rimpianto è una mancanza, un vuoto. Un rimorso è un peccato, una colpa.
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