Quanto può essere sorprendente scoprire il desiderio di abbracciare un donna ed esserne abbracciato mentre sei in un Hospice a far cure paliative.
Entrato in un boschetto quale sola alternativa alla terra riarsa che mi circonda, e rimanendo in sella allento le redini al cavallo che subito fa un passo che ci avvicina alle fronde di un albero. Molto verde e strapieno di bacche bianche, rosso e nere penzolanti: mai viste prima. Lasciai fare.
Abrash era il mio cavallo da sella, con uno splendido carattere: 11 anni e un po’ il capo dei sei cavalli che ci portavano sul strada di Merco Polo.
Gli tolsi il morso quando vidi che era interessatissimo a quelle bacche che prendeva strappando foglie e ramoscelli e che masticava con evidente piacere.
Lo guardai per un po’, poi allungai una mano a prenderne una di quelle rosse.
“Dio che bona!”
Passai a provare quelle nere, poi quelle bianche che scoprii essere le più dolci.
Avevo scoperto i Gelsi.
Le cure paliative sono un’idea di Cicely Saunders, il primo medico che ha dedicato tutta la sua carriera alla cura dei malati terminali.
Il St. Christopher Hospice, da lei fondato nel 1967 partendo dal lascito di un suo amore, ma val la pena di leggere questa storia in Wikipedia, dopo quasi venti anni di intensi studi e ricerche, è ancora oggi un punto di riferimento assoluto per tutti coloro che si occupano delle cure di fine vita.
Ho scoperto cosa significa il pensiero della Saunders quando mia sorella ha spinto il medico a richiedere l’intervento di una struttura di assistenza.
Ogni mattina mi sono visto arrivare un’infermeria, talvolta accompagnata da un medico, teatralmente, azzarderei, gentili e disponibili per farmi tutti i controlli possibili, portarmi medicamenti vari.
La vituperata sanità pubblica.
Avevo 4 anni quando zia Tita si dedicò a insegnarmi a leggere e scrivere. 70 anni dopo mi coglie una gran rabbia per non avere un ”Soldati di Salamina”, ad esempio, da godermi rigo per rigo, e persino malinconia dei libri buttati via dopo pagina venti o trenta.
Un paio a settimana non me li sono fatti mai mancare fino a pochi anni fa quando a tradirmi è stata la vista e senza il surrogato proposto di audiolibri o lenti di ingrandimento. Non sono la stessa cosa e io proprio non ce la faccio.
Allora mi resta un tempo che scorre ignobilmente vuoto davanti a un Mac grande abbastanza da lasciarmi seguire righe e parole sullo schermo da 24 e una tastiera con lettere e segni di interpunzione da raggiungere tra un quadrello e l’altro per antica abitudine forte della sicura garanzia data dalla sottolineatura rossa che mi avvisa degli errori di battitura.
Trenta giorni poi hanno deciso di ricoverarmi in un Hospice poco distante da casa mia. Non dovevo vivere da solo e mi hanno invitato ad andare nella loro struttura, a Campagnano, considerata il più bel Hospice d’Italia.
Non ho sentito così tanto volte risuonare la parola “amore” e “stellina” o “bella” come dentro queste stanze, affacciate su una vallata verde, tutte e dieci abitate da dieci pazienti terminali con visite senza limite di tempo per amici e congiunti.
La notte potrebbe pesare visto quella che invoca continuamente ”Alessio”, o quello che chiama la mamma o un “Ahia” generico o richiama l’infermiera, ma basta chiudere la porta per isolami completamente sul mio Mac che ho fatto portare qui.
Divertente è il flusso di pensieri che ti scorrono in testa mentre villeggi in questo sito ameno avendo nulla da fare tutto il giorno. Riflessioni di assoluta varietà, slalom tra i ricordi e, come dicevo, ho inaspettato sentito anche venir su il desiderio di abbracciare una femmina che era poi una delle infermiere passate a casa mia e che chiacchierava con mia sorella e me raccontando la sua vita.
Lei o forse un’altra mi ha spiegato che si sceglie di esercitare in questi luoghi soltanto per vocazione.
E i ricordi?
Me ne stavo rilassato ad ascoltare la musica e guardarmi la fauna che si muove intorno a me nell’area del bar dentro il Piper. 1968, credo.
Una gran botta mi arrivò sulla guancia sinistra e caddi dallo sgabello andando lungo sul pavimento. Un po’ intronato ma capii che era stato Marco, seduto accanto, che in quel periodo non c’era molto con la testa.
Ma la storia partiva molto più in là.
Valerio, che una sera invita me e qualche altro amico a bere a casa della sua ragazza. Un attico con terrazza nella zona ricca dei Parioli e Terry, decisamente bella, scoprirò dopo che era stata la prima italiana a spogliarsi per Play Boy e Men, che perfetta padrona di casa offriva beveraggi e scherzava insieme a noi.
Poi gli amici andarono via ed io rimasi con Valerio e lei, seduti su una panca a dondolo in terrazza. Parlottarono tra loro, rientrando per un momento in casa poi tornarono a sedersi. Alticcio come ero non so di cosa parlassero finché Valerio se ne uscì che era ora di dire la verità e rivelò che Terry non era una donna ma un trans.
“Non dire stronzate. Non ci credo.”
Subito Terry si tirò in piedi diritta davanti a me slacciò e abbassò i pantaloni mettendo in mostra un paio di slip gonfi di un attributo notevole.
Notevolissimo. Sorpreso, scioccato e sempre alticcio continuai per un po’ a chiacchierare ma presto fui pronto ad andarmene quando Valerio decise di andare.
Scendemmo insieme in strada mentre lui molto serio mi diceva delle difficoltà che aveva avuto a decidersi, mi pregava di non rivelare in giro di questa sua scelta.
Anni 60: c’erano solo i froci. Dei gay non c’era traccia.
Valerio mi offrì un passaggio ma io declinai: ero piuttosto sbronzo e una camminata fino al Piper mi avrebbe fatto bene.
C’era un chiosco bar proprio lì davanti e io mi ci infilai mentre una turba di pensieri mi frullava in testa. Mi feci un Vat 69, poi un altro e poi, fattamene dare una bottiglia, attraversai la strada fino al portone di Terry. Uscito dall’ascensore suonai il suo campanello.
Terry era bella e io quell’esperienza con un trans me la sarei vissuta accettandola.
Non ci mise molto ad arrivare ed aprire. Ricordo ancora che indossava un baby doll turchese scuro trasparente sotto cui si vedevano due seni pieni.
Sorrise e mi tirò dentro mentre io farfugliavo qualcosa su un’esperienza che ero disposto a fare.
Mi condusse fino alla camera da letto mentre mi sfilava la giacca e poi la camicia.
“Hai solo bisogno di dormire.” Sussurrò spingendomi su letto rotondp grandissimo dove mi resi conto si sdraiava anche lei. Mi addormentai subito, ma lo feci per poche ore. Riaprii gli occhi e mi vidi accanto lei-lui addormentata. Mi strinsi vicino e cominciai a carezzare quella splendida pelle. Risalii lungo le cosce e avviai la mia mano destra sui fianchi, la pancia fino alla sorpresa che un po’ temevo e tanto mi eccitava.
Si era voltata verso di me e mentre continuava a baciarmi lasciò che le dischiudessi le labbra di una fica ben bagnata.
Durò quattro giorni il festeggiamento di quella conoscenza. Uscii di lì solo per andare a comprare un po’ di fumo.
Una canna dopo l’altra ci succhiavamo l’un l’altro. Ubriachi e felici.
Valerio era dissolto: mi disse di averlo conosciuto soltanto un paio di giorni prima del nostro incontro, e noi vivevamo quei giorni come in una bolla.
Ma dalla bolla ero io a dover uscire: avevo vent’anni da pochi mesi, mi era arrivata la cartolina, come si diceva al tempo, della chiamata per il fottuto servizio militare. Proprio alla fine di quei quattro o cinque giorni dovevo presentarmi a Cuneo.
Lasciai la mia bella; a casa di mio padre mi chiusi in bagno e prese delle forbici mi taglia davanti allo specchio i miei lunghi capelli, mi venne da piangere; poco dopo ero a Termini.
Fino a Torino e poi altro cambio per Cuneo. Solo, nello scompartimento di una carrozza quasi d’epoca rimasi colpito dalla bellezza di quelle cime e quelle valli. Ho ancora dentro le impressioni di quel verde.
La caserma era una costruzione ai piedi d’una montagna con altre costruzioni uguali per le diverse compagnie e servizi vari.
La prima notte in branda fu dura, poi al mattino ci diedero le divise e assegnarono camerate e letti. Fu verso mezzogiorno che l’altoparlante chiamò: “La recluta Cino Giuseppe si presenti dall’ufficiale di picchetto.”
Prossimo all’ingresso della struttura entrai in una stanza dove c’erano diversi alpini e un tenente che mi indicò sul tavolo un telegramma aperto. “Perché è aperto?” chiesi subito io. “Perché i telegrammi spesso portano brutte notizie e dobbiamo dirlo noi ai soldati.”
Me ne andai stringendo quel foglio con su scritto: “Mi manchi. Ti amo. Terry”
Mancava anche a me. Ma mi distrassi all’adunata per il pranzo: tutti schierati, non ricordo quanti fossimo nella mia compagnia ma sicuramente più di cento, e al centro lo stesso tenente che avevo incontrato la mattina.
“La recluta Cino Giuseppe faccia un passo avanti.”
Mi guardai intorno poi avanzai d’un passo.
“La recluta questa mattina ha ricevuto il telegramma di una donna quindi adesso viene in centro e ci fa dieci pince dicendo Teresa ti pincio, Teresa ti lascio.”
Io che avevo fatto un passo avanti mollai un mavaffanculo stentoreo e in cambio arrivò il primo “stai punito” della mia carriera militare.
La mia testa viaggiava a mille e spedii un espresso a mia sorella scrivendole: “ricopia questa e spediscimela subito”.
M’ero portato un’abbondante scorta di fumo e mi rollavo belli spinelli poggiato sul mio letto, rigorosamente secondo piano della branda a castello e vicino alla finestra, in una camerata trafficatissima di reclute ventenni come me provenienti perlopiù da province del nord tipo Biella, Bergamo e similari con dei dialetti astrusi e incomprensibili.
Non avevo fatto i conti con Hamed che veniva da Genova ma aveva origini algerina che vedendomi arrotolare cartine e annusando il fumo mi disse: ”e io no?” Così fu mio compagno di canne insieme a Guerrino finché fummo a San Rocco, in provincia di Cuneo.
Guerrino, lo associai io al rito, facendogli fumare la prima canna. Veniva dalla Francia ma era di Pordenone e disegnava da dio; insieme fummo messi ad affrescare la sala mensa degli ufficiali.
Una noia mortale quei giorni tra gli alpini, oltretutto io rispondevo male ai superiori o non scattavo agli ordini così che alle sette di sera prendevo su la coperta e mi ritiravo in cella, dimenticando la varia compagnia che abitava la mia camerata.
Arrivò finalmente l’espresso scrittomi dalla sorella e con quello filai diritto dal cappellano: in quei due fogli scritti in un italiano incerto e carico di errori una ragazza inglese mi confermava di essere incinta e chiedeva il mio aiuto.
Il cappellano preso da quanto aveva letto mi portò dal colonnello comandante che mi fece: “Cinque di licenza più due di viaggio. Ce la fai?”
Mano al beretto, ringraziai e il giorno dopo scendevo a valle per arrivare tra le braccia invero morbide e calde di Terry.
Anche un paio d’acidi e sesso a non finire poi me ne tornai sulle Alpi a vivere l’esperienza del servizio militare. Una follia inutile e dopo due mesi chiusi dal giuramento, il mio unico giorno di non punizione in cui potei andare in libera uscita e camminare sotto i porticati interminabili di Cuneo fino a una piazza sporta sul nulla di una valle sottostante. Solenne giuramento in cui io non marciai sostituito da un altro perché mandavo regolarmente fuori passo tutta la squadra.
Insieme a Guerrino fui destinato al Ministero dell’Areonautica a Roma dove lui finì a fare l’autista e io fui spedito in quattro stanze non ricordo più a che piano alla Rivista Aeronautica.
Che cacchio ci facevo io là dentro mentre avevo vent’anni e per di più innamorato?
Rimediai un paio di giorni di punizione anche lì incontrando nella caserma dove dormivo dei temiti nonni che mi chiesero non so che servizio e al mio vaffa tuonarono un minaccioso “Stai bagnato.” Così che notte tempo li aspettai con un pesante scarpone pronto a colpire e scatenai un bel putiferio svegliando camerata e ufficiale di picchetto con punizione a seguire.
Fortunatamente non durò molto e come romano mi fu dato il pernottamento a casa. Ovviamente era casa di Terry e ricordo ancora lei che al mattina presto ferma il suo Pagoda turchese davanti ai cancelli d’ingresso del ministero; lei decisamente vistosa che scende dalla macchina ne fa il giro e viene a sistemarmi la bustina d’aviere sul capo, bacio appassionato poi schizza via mentre io fatto il saluto a un ufficiale di picchetto inebetito varco il cancello.
Mi erano toccati come superiori due sergenti, Vargiu e Deidda, manco a dirlo sardi, che alle dieci mi spedivano a prendere il caffè per il generale, capo supremo, e il cognac per il colonnello, entrambi parcheggiati lì. Poi mi ritiravo nell’ultima stanza dell’ufficio, facevo del cappotto piegato un cuscino che appoggiavo su una macchina da scrivere e dormivo fino alle 14.
Non mi bastava e la mia mente fervida partorì il ricordo di quando da bambino mi avevano scoperto un ossicino piccolissimo ma spurio, un osteoma mi sembra di ricordare, dentro la testa all’altezza della fronte. Verso i dieci anni una tragedia, con esami, lastre e controlastre. Non esisteva ancora la risonanza magnetica eppure quel che c’era bastò per dire ai miei che non c’era pericolo, era qualcosa di naturale e c’era solo da controllarlo nel tempo.
Averne memoria e accusare fortissimi mal di testa fu un tutt’uno. Spedito all’ospedale militare e dopo qualche giorno un colonnello medico mi convocò per suggerirmi di fare dei controllo da civile e darmi 110 giorni di licenza.
“Wow” sta per il fatto che tutto il mio servizio di leva finì lì: andavo ogni 110 giorni all’ospedale dove rimanevo un paio di giorni, poi mi mandavano a casa coi miei 110.
Giorni che servivano a spingere avanti la mia relazione con quella ventottenne così bella e scriteriata quanto il me dei vent’anni. Lei era già stata sposata con un creso che vidi una volta sola in cui venne a piangere a casa di lei pregandola e scongiurandola di tornare con lui, io imbarazzatissimo, e aveva anche un bambino di pochi anni a cui ricordo a Natale regalai un presepio.
Ma Terry non conosceva limiti: l’acido le era piaciuto e continuava a prenderne, così il fumo e qualsiasi cosa ci fosse da buttar giù. Affidabilità zero.
Dopo che ci fumo lasciati finì con un inglese che importava fumo e droghe varie; negli anni a seguire mi arrivò anche notizia che coinvolta in una rapina era stata arrestata.
Good life a Terry se c’è ancora, ma per me resta il ricordo di una delle più belle donne che ho avuto.
- 0
- 2
- 1
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 1
6 risposte
Bellissimo racconto…. Come sempre d’altronde.
Caro Pino, leggerti è sempre una carezza alla mente, al cuore, ai ricordi… il desiderio di venire ad abbracciarti è forte, finora impedito da (mille ostacoli ecc…) sono sempre con me i versi di COLOURS di Donovan che m’insegnasti con pazienza 🙏🏼 avvolte con gli amici, pensando o parlando di te lo suono con l’armonica… 🎼
Yellow is the colour of my true love’s hair,
In the morning, when we rise,
In the morning, when we rise.
That’s the time, that’s the time,
I love the best….
E ricordo anche le parole di HAVA NAGILA, anche quelle m’insegnasti… oggi le ricordo con il cuore triste per Gaza…
…con la mente a zonzo… arrivati alla Romagnoli, io finì al palazzo della Marina, 2° Reparto Genio A.M. (non avevo la patente… a zonzo con i ricordi…)
Caro Pino ti abbraccio forte 😘❤️💕
Guerrino
c’hai ragione, ma la mente a zonzo è un regalo degli anni. quelli ( o ) con te mi è caro. che bell’incontro sei stato. amico mio
Grazie Pino, TVB 🌠
la ricordo anch’io, non ricordo con chi o come e perche passammo una serata a casa sua era veramente bellissima
perchè anonimo?