Le donne che lasciano un segno

La mia lettrice della veranda era quella ragazzina, cameriera in un ristorante dell’isola, che veniva a sedersi o mi capitava di trovare lì arrivando in certe mattinate assolate seduta magari mangiucchiando un frutto con un libro in mano nell’ombra calda della veranda dello studio.
Lavorava nel ristorante dei miei amici fiorentini ed era bella, con le gambe lunghe di una donna alta e magra, dai tratti intelligenti come i suoi occhi castani sotto una chioma bionda. Dava un’idea di affabilità evidenziata dalla morbidezza di una risata sempre pronta.
Quel posto diceva era l’ideale per starsene in pace a leggere sia che io fossi impegnato all’interno con qualche cliente sia che io fossi chissà dove.
La incrociavo lì e tra un incontro e un altro l’idea di un tatuaggio la fanciulla lo maturò: un fiore giapponese piuttosto grande al centro della schiena sotto le scapole.
Dopo quello venne l’anno successivo il tempo di una seconda peonia appena più in alto che facemmo un pomeriggio a casa mia: avevo lasciato l’abituale studio e mi preparavo ad abbandonare Mykonos.
Due risate e uno scherzo; il tema più serio di un viaggio in Australia, i fidanzati che passavano senza lasciare traccia e io la guardavo come una giovane donna che sarebbe stato interessante conoscere meglio frenato soltanto dalla grossa differenza di età. Lei aveva poco più di vent’anni, io giravo la boa dei sessanta.
Anche se capitava di chinarsi su seni o schiene di donne belle e giovani, fiche a un passo dai miei occhi o dalle mie dita impegnate a dirigere un ago e mantenere tesa la pelle questi sono sempre stati gesti se non meccanico, privo d’altri coinvolgimenti che non fossero quelle professionali. Nessun desiderio sessuale limitando la cosa in certi casi a un invito a bere insieme in un qualche bar notturno.

Non era il caso di Martina. Perché stravolgere quel rapporto di amicizia che si era andato creando nonostante la differenza di età?
Il solo regalo erotico che mi concessi fu all’insegna dell’Anesyrma.
Ade, lercio padrone degli inferi, si era portato via Proserpina e la madre Demetra girovagava affranta dimentica della terra e dei frutti che più non fiorivano. Nessuna la riportava al sorriso finché una vecchia donna ferma accanto a un pozzo un giorno che la vide tanto triste con ironia si sollevò le vesti mostrandole le sue chiappe nude. Demetra lì per lì perplessa scoppiò a ridere e quella risata restituì alla terra frutti e fiori. L’atto dell’Anesyrma: divenuto una festa nella Grecia Antica, ma anche in diverse altre parti del mondo.
Fu quel che chiesi a Martina: di svelarmi le sue natiche rotonde e piene. Ne presi una fotografia per suggellare un segreto.
Per come sono fatto questo è stato da sempre un gesto di complicità tra me ed elementi del gentil sesso che destassero interesse o desiderio.

Difficoltà pari allo zero da parte delle donne sempre ben disponibili all’essere fotografate nude o in pose prive di dubbi. Gratificate dall’attenzione mostrata a ceri atteggiamenti, certi segreti altrimenti affidati a un fuggevole istante, destinati soltanto agli occhi di un altro o alla freddezza di uno specchio?
Vedendo avvicinarsi il traguardo mi è sopravvenuto il quesito di chi erediterà cotanto lascito.
Una coppia di amici mi raccontava dell’imbarazzo incontrando trovandosi di fronte le foto osè dei genitori ormai defunti.
Mi decisi così tempo addietro a cestinare il tutto per pentirmene poco dopo.

Su un vecchio hard disk ne ho ritrovate un po’ e questa volta il salvataggio è stato con criptazione e splendida password che nessun erede potrà trovare. Se poi si impegneranno con software sopraffini… buon pro gli faccia: anche questo era papà.
Eppure ci sono donne, compagne di incontri restati vivi, che non ho mai fotografato. Storie d’amori mai realizzati o che hanno seguito percorsi imprevedibili fino alla rinuncia. Non la negazione.
Claudia la incontrai sui diciotto anni, lei uno di meno e si rifiutava di darmela. Mi era successo già di giocare con seni e passere ma di Claudia non riuscivo ad ave altro che baci appassionati. Lei innamorata, io di meno tanto è che la lasciai per rimettermi in caccia; senza troppa ansia.
Reagì andando a scopare con un tizio che io non conoscevo ma che volle incontrarmi per ottenere il mio placet: risposi che non mi riguardava.
Restò subito incinta e di lei ricordo una lunga telefonata notturna in cui mi chiedeva di tornare insieme e ricominciare qualcosa che io non avevo mai vissuto. Fece un figlio. Si scoprì coinvolta in una delle prime faccende terroristiche nell’Italia degli anni 70 poi espatriò. Non ne seppi più nulla. Presi a viaggiare e le sole notizie me le passava mia madre a cui lei  telefonava ogni tanto chiedendo di me. Ci fu il giorno che risposi io di passaggio a casa dei miei. Sorpresa e io che ero di passaggio a Roma accettai di vederla per una cena la stessa sera.
Dovevano esser trascorsi più di una quindicina d’anni dal nostro ultimo incontro e alla fermata dei taxi a Largo Argentina mi guardavo intorno chiedendomi chi avessi dovuto cercare quando una signora con foulard sul capo a nascondere mezzo viso mi passò accanto sussurrando: “Vienimi dietro.”
La raggiunsi prendendola sotto braccio e ci infilammo insieme nel primo ristorante a dieci passi da lì. Lei aveva un mandato di cattura sul capo, era la prima condannata politica definitiva in Italia e aveva poca voglia di mangiare. Io invece avevo fame e scelto da lei un tavolo in cui avrebbe dato il volto al muro ci raccontammo quei quasi vent’anni di non conoscenza.
Aveva soltanto prestato la sua auto a che l’aveva poi usata per commettere il primo attentato italiano con relativo morto.
Di ricca famiglia era una bambina mai cresciuta e quando qualche giorno dopo la polizia avvertì il padre che sarebbero andati a prenderla; qualcuno le disse di prendere il primo treno per Milano che poi avrebbero provveduto loro a farla espatriare. Sbagliò treno e prese quello per Napoli. Da lì raggiunse finalmente Milano dove dopo averle fatto passare il confine Svizzero la accompagnarono fino in Spagna dove ancora viveva.

Presi atto della situazione e lei scelse di andare a casa mia poco distante dal centro dove ci rifugiammo. Perché fosse a Roma non me lo disse ma per quanto riguardava me era lì a dimostrarmi che la ragazzina timida che a stenti sì lasciava toccare i seni adolescenti non c’era più. C’era una splendida donna di trentacinque anni per la quale il sesso non aveva segreti né remore. Una notte indimenticabile fino al primo albeggiare quando mi disse di dover andar via. Rifiutò l’offerta di un passaggio in macchina e volle che le chiamassi un tassì sul quale scomparve.
Mai più saputo nulla tranne qualche telefonata a casa di mia madre dove io non ero mai. Poi il cugino di un mio amico, anche lui rifugiato in Spagna, disse di conoscerla così le mandai il mio telefono e ci ritrovammo. Raccontò della sua vita tranquilla in quel posto sul mare, del figlio, la famiglia, gli amici. Mi invitò ad andarla a trovare e io mi vedevo guidare la Beta Coupé nella notte tra l’Italia e la Spagna e poi affondavo tra le cento cose che ci separavano e prendevo direzioni diverse.
Di quali altre donne sfuggite parlare? Di quella sentita cinque minuti fa al telefono che verrà a trovarmi fra un paio di giorni come ha già fatto la settimana scorsa. Quella inviatami da un amico a Mykonos a far da babysitter al mio bambino coetaneo del suo. Una di quelle donne di cui non puoi non innamorarti: fisicamente attraente, brillante, apparentemente sicura di sé, bella con due b e con la quale a Mykonos ci ritrovammo insieme nel letto, giusto il tempo e il modo perché io mi dicessi repentino: “Vade retro! Qui ci resti incastrato.”
Le donne che comunque lasciano un segno.

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