Dopo aver spezzato, nel senso di distrutto un paio di eserciti Inglesi, il sogno dell’Impero Britannico di unificare India e Iran, l’Afghanistan si concretizzò in un regno che pur cambiando ogni tanto famiglia dominante rimase stabile per circa un secolo. Era curioso alla fine dei ’60 trovare strade fabbricate dagli Usa, altre dall’Unione Sovietica, macchinari, pochi e obsoleti, donati dai Tedeschi, fiammiferi cinesi e in un paese musulmano, un tal tizio italiano passando di lì e vedendo quel ben di Dio di uva che riempivano i tratti di collina, pensò bene di metter su una produzione di vino e persino super alcolici, ovviamente invendibile se non per l’esportazione ma che in realtà trovavi dovunque. Vino Castellino e Cognac Nerone. Di quei tempi in mancanza d’altro erano buoni pure quelli.
Questo era l’Afghanistan che io trovai dopo un lungo viaggio via terra e di cui mi innamorai al principio del 1970.
Trascorsi un po’ di mesi in India, me ne tornai lì per rimanerci un anno circa tra Kunduz e la capitale Kabul.
Imparata la lingua ebbi modo di conoscere bene che fosse quella gente ben distinta fra varie etnie che soltanto quella tribalità ancestrale, un re rappresentativo e una fame diffusa tenevano insieme.
Una delle prime preziose conoscenze in quel di Kabul fu un ingegnere sui 40 anni con il quale dividevamo lunghe chiacchierate giocando pigre partite a scacchi nella taverna messa su da Sighis, afhgano gran maestro di scacchi da poco rientrato dopo lunghi tempi in Germania.
L’ingegnere, di cui ovviamente non ricordo il nome si apprestava a trasferirsi in Canada con tutta la famiglia e un giorno venne fuori che era proprietario di un albergo non discosto dal centro di Kabul che aveva ormai chiuso e mi propose di prenderlo io mentre lui sarebbe stato fuori.
Gli feci presente che soldi non ne avevo ma scosse il capo dicendo che non intendeva farsi pagare, mi avrebbe solo offerto un asilo per il periodo io fossi rimasto a Kabul e se avessi affittato le camere una fonte di reddito.
Manco a dirlo tutto ciò era vero e all’indomani mi condusse a visitare l’albergo lasciandomi le chiavi.
Cose che accadevano solo nelle favole afghane.
Fu una favola tutto il soggiorno in quel paese: forse la cosa più bella che la memoria mi ha conservato è il trascorrere delle stagioni in quella terra apparentemente dura. Lunghi paesaggi desertici ma al gelo degli inverni innevati succedevano primavere tiepide e ricche di colori e estati roventi e autunni rilassati fino a che scelsi di ripartire per l’Eurpa.
Capitò un passaggio sul solito Van Volkswagen e l’handicap di portarmi dietro la mia Levrierina Afghana, proprietà del re quindi impossibile da esportare, lo risolsi affidandola per venti dollari a una carovana Cuchi che me restituì prima di Mashed.
Ciao Afghanistan e un pezzo di cuore te lo lasciai volentieri.
Subito dopo purtroppo il re se ne fuggì appresso a me e cominciò l’occupazione sovietica e a seguire l’intrusione americana con i soldi dei Sauditi e la connivenza pakistana.
Per una decina di volte passai oltre volando in India.
Tempo fa mio figlio è capitato da me qui a Roma insieme con un profugo da Herat che lavora in Italia come trasportatore: che sorpresa ha avuto lui nel sentire un vecchio signore italiano rivolgersi a lui in Farsi e che sorpresa ho avuto io nel sentire le complicatissime formule di saluto afgane tornare a galla da storie di 50 anni fa.
Con una pena profonda dal cuore leggo le prime pagine dei giornali: il mio Afghanistan che cosa sta ancora vivendo?
Vi regalo un po’ delle foto dell’epoca
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2 risposte
bellissimo il tuo, il nostro Afghanistan. L’ho letto ieri su hippie trail in inglese, ottima traduzione. Siamo stati una generazione fortunata
si. gran fortuna e ce la siamo divertita. un bacio per te.
(ci sono tutte le puntate sul blog)