Le donne di Afghanistan

Il ritrovarmi con un mio hotel, quello affidatomi dall’Ingegnere Afghano, lettera maiuscola perché era stato un vero signore e così sorprendente il suo gesto d’amicizia che aveva finito per rendere Kabuk ancora più casa.

Era l’inizio del 1970 e bellissimo viversela giorno per giorno e frugandola continuamente alla scoperta di luoghi poco frequentati dal turismo. L’uso della lingua diventato sempre più sciolto mi facilitava poi comprensioni e contatti.

Gli ospiti erano per lo più amici che si trattenevano prima di rimettersi sulla strada e pochi sconosciuti a cui era giunta voce di questa locazione a buon prezzo.

Tra questi ultimi un’Altoatesino ovviamente biondo che non so se spinto da studi o passione andava e venina dal Nooristan portandosi dietro manufatti originali e storie da raccontare su questa gente lì al nord che gli Afghani chiamavano Kafiri, non credenti, e che etichettavano come gli eredi di Alessandro Magno. Alti, biondi, con costumi e usanze ben dissimili dai musulmani all’intorno. Usanze che lasciavano le donne Nooristane libere di accoppiarsi o vendersi coi vicini Pakistani. Arrivarono a organizzare pullman che li portasse per una vacanza sessuale.

Il mio amico riportava stoffe inusitate e una volta un’antica anfore di coccio completa di frecce ed e ardo ma anche un chiletto di Hash che gli impedì di tornare. Beccato in dogana seppi poi e bye bye Kafitistan.

Non indagavo molto su chi fossero i miei ospiti di albergo. Ero libero inquilino di quella città meravigliosa che era la Kabul di piena primavera.

Ci fu un momento che la storia sui Kafiti mi incuriosì non poco. L’Altoatesino era ormai scomparso in Italia ed io mi infilai nella Biblioteca Universitaria dove qualche testo in Inglese lo trovai.

Per giorni me ne andavo lì mattinate intere e mi sedevo col libro di turno a leggere assorto.

Ci volle un po’ perché mi accorgessi di una studentessa afghana poco lontana da me sempre nelle stesse ore. Poi un incrocio di sguardi e un altro ancora, uno scambio di sorrisi.

Le studentesse Afghane non indossavano Chador ma come tutte le studentesse camicetta bianca e gonna nera lunga appena sotto il ginocchio. Era l’Afghanistan che avanzava verso una civilizzazione di tipo occidentale.

Specie nella zona dell’università erano tante che nemmeno ti soffermavi a guardarle.

Quella ragazza più o meno della mia stessa età mi aveva colpito: un viso aggraziato sotto un circolo di capelli neri, senza accenno di trucco, ma che si era aperta quando ci eravamo scambiati un sorriso.

“No. Ti hi visto questi giorni passati qua. Non facciamo vedere che ci parliamo. Ci vediamo fuori. In albergo da te.” “Esci prima tu.” Soggiunse sempre in Inlese.

Ero proprio sorpreso su come tutto si fosse svolto; il mio albergo era dall’altra parte della città così saltai su un taxi e dissi all’autista di attendere.

La ragazza di cui non avrei mai saputo il nome uscì non molto dopo e dopo avermi scorto in macchina ad attendere si avviò lungo il muro della Biblioteca: pochi alberi a segnarlo e un viale carrabile dove in quel momento non transitavano macchine né pedoni.

Due invece ce ne erano: venivano incontro alla ragazza nella nostra direzione.

Dissi al tassista di avviarsi lentamente e raggiunta la donna farla salire a bordo.

Mi diede un’occhiata e prima di raggiungere la ragazza urlò fuori dal finestrino: “Quella vuole salire qui con lo straniero.”

Mentre io gli tiravo due schiaffi sulla testa, lui accelerava e io vidi la ragazza scoppiata in lacrime correre via dai due uomini. Altri due schiaffi non bastarono ed eravamo alla calca di Shahr-e Nau. Io scesi maledicendolo anche in Italiano ma voltato indietro non vidi traccia della mia visione afghana. Non servì un taxì che mi riportasse indietro né tornare in biblioteca nei giorni successivi. Non servì neppure il monito di Franceschinis, Cancelliere all’Ambasciata Italiana e buon amico, che rise al sentire l’avventura e mi disse di un Francese che stava rinserrati da un anno nella sua Ambasciata mentre la famiglia di una ragazza afghana faceva le poste lì fuori.

La mia avventura con una fanciulla Afghana a Kabul di cui ricordo ancora il viso e le lacrime. Fottuti.

 

Foto dal libro “Donne in Afghanistan” di Fahima Rahimi

Edito 1971

 

Fiammetta Doria Colonna

questo episodio fa capire la visione degli afghani sulle donne, schiave. ricordo un amico di pierfranco ospite da lui come me in california, che non alzava un dito manco per scommessa, con angela con jamila appena nata era capace di chiederle un bicchiere d’acqua dalla sua poltroncina, con la colla sul sedile
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0

I miei articoli

Un avventura

Mai arrivata a Roma. Una gabbia per uccelli in ottone. Bellissima, con una lavorazione elegante e ricercata nei particolari. Un pezzo sicuramente unico a cui

continua a leggere »

Morte e cornetti caldi

Vado a fare colazione, ancora rimbambito dal sonnifero che mi spetta ogni sera. Poi caffè al piano terra. Poi sigaro seduto all’ombra in un’aria ancora

continua a leggere »

“hija de puta”

In quale casa mi trovo? La “hija de puta”, bella persona, era una delle infermiere che mi facevano visita ogni mattina a casa per fare controlli

continua a leggere »

Mente a zonzo

Quanto può essere sorprendente scoprire il desiderio di abbracciare un donna ed esserne abbracciato mentre sei in un Hospice a far cure paliative.   Entrato

continua a leggere »

3 risposte

  1. Nella foto in bianco e nero, vedo mini gonne, sopra il ginocchio…
    Condivido con Paolo. Incredibile da parte sua che si invitasse al
    tuo albergo…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

The maximum upload file size: 2 MB. You can upload: image, audio, video, document, spreadsheet, interactive, text, archive, code, other. Links to YouTube, Facebook, Twitter and other services inserted in the comment text will be automatically embedded.