Eddi Vincenzi – JUMP I GATTI HANNO SETTE VITE

16 04 2020

racconto di Eddy che non è iscritto a FB

JUMP

I GATTI HANNO SETTE VITE

 

Il camion ripercorse ancora la tangenziale, si fermò, spense i fari lasciando le luci di posizione accese. L’autista osservava se vi fosse qualche auto dietro che lo seguisse guardando nello specchietto retrovisore. Era un camion Iveco di quelli con il telone, aveva passato la revisione recentemente e forse anche l’ultima visto lo stato in cui si trovava. Se una pattuglia lo avesse fermato per una luce di posizione fulminata o una qualsiasi infrazione sicuramente lo avrebbe obbligato a una nuova revisione se non al fermo del mezzo. La prudenza era d’obbligo.

Il tempo di fumare una sigaretta, riaccese il motore e ripercorse la stessa strada in direzione contraria, di nuovo si fermò, stessa operazione spense i fari lasciando soltanto le luci di posizione. Riaccese per dirigersi nuovamente sul raccordo e uscire alla prima deviazione per riportarsi sulla strada dove si trovava prima.

Quest’operazione di fermarsi e ripartire andò avanti per un paio di ore. Sicuro che nessuno lo avesse seguito si diresse lentamente verso uno spiazzo. Spense luci e motore. Restò lì per una mezza ora. Una volta avuta la certezza che nessuno lo aveva seguito riaccese il motore senza accendere i fari e con l’ausilio della luce dei lampioni come se l’automezzo camminasse a passo d’uomo percorse un breve tragitto. Arrivato a destinazione sempre a fari spenti e senza segnalare che girava s’infilò in una fabbrica abbandonata. Ad attenderlo un uomo con un cappuccio per non essere identificato. Una volta dentro chi lo attendeva chiuse velocemente il portone non prima di essersi accertato che tutto era tranquillo. Un paio di auto e una moto sfrecciarono per sparire in fondo al viale. Con l’ausilio di una torcia elettrica segnalò dove posteggiare il camion.

All’interno di quelle mura in parte diroccate il buio assoluto, alcune persone si potevano individuare per la sigaretta che avevano in bocca o dalle luci delle torce elettriche che tenevano in mano. Parlavano in una lingua dell’est europeo, in un angolo c’erano stipate un’ottantina di persone tra uomini e donne prevalentemente africani, siriani, afgani. Erano tutti seduti allineati in più file.

Uno del gruppo era rimasto fuori come vedetta, entrò e si diresse verso il capo confermando che fuori era tutto a posto A quel punto un arabo iniziò a urlare che dovevano andare al bagno, che dovevano liberarsi; le stesse frasi vennero ripetute in inglese ma qualcuno a voce più alta disse che non dovevano ne bere ne mangiare e che tra un paio di ore sarebbero saliti su quel camion direzione nord Italia dove avrebbero trovato un nuovo mezzo per attraversare il confine con l’Austria. Essendo i bagni inutilizzabili, uno alla volta si diressero in un angolo buio per espletate le funzioni, un tanfo nauseabondo regnava in quell’area. I bagni non avevano acqua e erano ormai saturi di escrementi e sporcizia di ogni genere; espletate le funzioni ritornavano immediatamente dove erano seduti. I rumeni parlavano fitto fitto tra loro. Al camionista, un napoletano all’interno della cabina, fu consegnata una busta che subito aprì: al suo interno c’erano dei dollari e degli euro. La somma pattuita per questo trasbordo di anime. Il tutto doveva avvenire nel massimo segreto ecco perché tutte quelle operazioni di sosta e ripartenza. In tutto quel periodo nessun telefonino doveva essere attivato. Anzi, chi ne aveva uno, lo doveva consegnare spento e lo avrebbe ripreso alla fine del viaggio.

Nessuno in quell’area ne possedeva uno per evitare di essere intercettati o seguiti. Anche il camionista aveva tolto la sim dal telefonino e disattivato il GPS.

Il napoletano si mise a dormire nella cuccetta della cabina, mentre i rumeni e alcuni arabi spiegavano a quei profughi che a breve sarebbero saliti sul camion e per l’ultima volta se non volevano viaggiare tra i loro escrementi sarebbe stato meglio liberasi. Da quel momento avrebbero ricevuto solo un paio di barrette energetiche e una boccetta di acqua. Il camion non avrebbe effettuato nessun tipo di sosta e la prima tratta sarebbe durato circa otto ore. Non dovevano muoversi ne parlare nel caso il camion si fermasse. Un rumore o un lamento avrebbe compromesso il loro viaggio verso il nord. Una volta saliti furono posizionate delle casse sul retro del cassone e all’autista consegnata una busta con delle bolle di trasporto merci nel caso fosse stato fermato. Il telone fu calato e dopo una telefonata quello con il passamontagna gli fece cenno che poteva partire.

Alberto era salito sul parapetto dell’ultimo piano e immobile osservava il traffico che scorreva sotto di lui, a breve avrebbe preso la decisione più importante della sua vita, anche l’ultima.

In bilico sull’angolo del palazzo, dalla tasca prendo il pacchetto di sigarette, ne sfilo una, la accendo. Mi sfilo la giacca che lascio, cadere sul pavimento. Avevo letto e sentito dire che quando uno si lancia nel vuoto rivede tutta la sua vita o almeno quella con gli episodi più importanti che l’hanno condizionata.

Non so quante boccate gli abbia dato ma stingendola tra il pollice e il medio con l’indice la lancio nel vuoto e lentamente la vedo sparire nel buio.

Chiusi gli occhi, un profondo respiro e come da un trampolino mi lanciai: all’improvviso mi rividi che avevo circa dieci anni a letto in procinto di prendere sonno. Quando attraverso la parete sentii dei trambusti. Mio padre e mia madre discutevano animatamente. Porte che si aprivano e chiudevano, oggetti sbattuti e un piatto in frantumi. Sentii la voce di mia madre che diceva “non ti azzardare stai attento a quello che fai”. Mio padre replicava che di li non sarebbe uscita. Ero terrorizzato, per non sentire le loro grida misi la testa sotto il cuscino e le mie mani coprirono le orecchie, anche se era buio avvertivo che i miei occhi erano sbarrati fino a quando sentii una porta sbattere e il silenzio.

Al mattino mi alzai andai in bagno a lavarmi per poi tornare nella mia camera e vestirmi. Arrivato in cucina mio padre stava guardando fuori della finestra, la colazione era pronta sul tavolo, mi sedetti e chiesi dove fosse la mamma. Mio padre si girò e mi disse che avevano avuto una discussione, che se ne era andata.

Da li iniziò un periodo difficile, il mio rendimento scolastico precipitò, non seguivo le lezioni e accumulavo segni rossi sui quaderni. Mio padre fu convocato dalla preside e quando fummo a casa mi passò la mano sulla testa mi abbracciò e disse che di quanto era successo io non avevo colpa e che lo studio era importante, che mi voleva bene e mi stringeva a sé sempre più forte.

La sera andai in bagno e aprii lo sportelletto dei medicinali, ingerii tutte le pillole che trovai. Dopo alcuni minuti iniziai a rantolare, mio padre sentì che qualche cosa non andava, bussò cercò di aprire con la maniglia e quando si rese conto che la porta era chiusa dall’interno sfondò la porta del bagno, cercò di rianimarmi. Vide i flaconi sparsi sul pavimento e si rese conto di cosa avevo combinato, mi sollevò e mi mise una coperta addosso per portarmi al pronto soccorso.

Mi fecero una lavanda gastrica, il medico in disparte parlò con mio padre, dalla lettiga vedevo le mani di mio padre muoversi nervosamente volgendole verso di sè e nella mia direzione.

Il medico comprese e da quello che seppi dopo diagnosticò una indigestione alimentare.

Ne seguì che dovetti due volte a settimana andare da uno psicologo infantile che mi aiutasse a risolvere i miei problemi di testa.

L’anno scolastico si concluse con tre materie da riportare a settembre.

Pensavo che il volo fosse di pochi attimi, invece tutto scorreva lentamente davanti ai miei occhi e dopo questo ricordo ecco sopraggiungerne un altro.

Frequentavo il secondo anno di università, dopo le lezioni ci incontravamo in un bar. Fu lei a iniziare a parlarmi. “Posso sedermi?” esordì poggiando il vassoio per poi allungare la mano, “Mi chiamo Rita frequento la facoltà di sociologia”. Da lì iniziò il nostro rapporto. Le volevo bene anzi ne ero profondamente innamorato, ma lei non era dello stesso avviso, voleva divertirsi avere un compagno che la portasse a feste e uscire la sera in pub o locali alternativi. Mai una volta che avesse pagato anzi pretendeva che le acquistassi anche degli abiti. La mie finanze si assottigliavano, mio padre mi aveva dato una carta di credito appoggiata al suo conto ma non mi faceva mancare niente. Anche se si era accorto delle mie spese non aveva mai detto nulla.

Uscendo da un locale una sera Rita mi disse che spendevo troppo, la cosa mi stupì detta da lei. Neanche un caffè aveva mai pagato. Se non la portavo in qualche locale alternativo iniziava a imbronciarsi incrociando le braccia per poi esordire con portami a casa. Mi girai e le risposi che da domani avremo diviso le spese.

Si staccò da me e non disse nulla ma dal giorno dopo non si fece più sentire e se chiamavo il suo cellulare risultava spento.

Resistetti pochi giorni, ne ero profondamente innamorato e tanta era la delusione che decisi ti tagliarmi le vene, un gesto tipico degli innamorati sofferenti. Presi una lametta la feci sfilare su un polso ma la vista del sangue mi fece crollare facendo un gran trambusto, la sedia andò a infrangersi su un vetro, i libri dalla scrivania caddero sul pavimento e tutto questo gran rumore allertò il mio coinquilino che entrando nella stanza mi vide sdraiato in terra, la lametta sul pavimento il sangue che usciva dal polso e subito tamponò la ferita, per poi sdraiarmi sul letto. Era studente al quarto anno di medicina. Mi sollevò per portarmi al pronto soccorso dove non disse del mio gesto ma che stavo affettando del pane. Presero per buono quello che dicemmo anche se il medico non sembrò convinto della versione del mio amico e del mio assenso.

Tornati a casa mi chiese il motivo di tale gesto. Gli raccontai della storia con Rita e che per una banale discussione mi aveva mollato. Il mio amico mi afferrò per le spalle, mi guardò negli occhi e mi chiese: “Ma chi Rita? Quella di sociologia?” Gli risposi di si che era lei .

Mi domandò se stavo scherzando, e “Perché mai? Io l’amavo”.

“Ma quella è una gran puttanona! Se la sono ripassata tutti. Ma te la sei scopata almeno?”

“No!” risposi. “Ci volevamo bene e basta”.

“Ma sei un coglione amico mio ti stavi ammazzando per quella zoccola , ma cerca di riprenderti e non fare fesserie”.

Incrociai Rita a mensa, era al tavolo seduta con delle amiche, quando mi vide si lasciò scivolare sulla sedia reclinando la testa e restando a bocca aperta, con un braccio piegato sulla pancia e l’altro cadente lungo il corpo. Le sue amiche iniziarono a ridere e i commenti non erano da meno. Ero diventato lo scemo del villaggio.

Lasciai la facoltà e mi iscrissi all’Erasmus a Parigi.

Le mie mani nel vuoto cercarono di afferrarsi, forse un tentativo di appigliarmi a qualcosa ma ormai il volo era iniziato.

In breve tempo la conoscenza di un buon francese e un ottimo inglese mi portarono a splendidi risultati e l’episodio era passato nel dimenticatoio, avevo nuove amicizie e gli studi mi tenevano occupato. Non mi piacevano i tatuaggi ma decisi di coprire quella cicatrice con un simbolo maori intorno al polso.

Mi laureai a pieni voti, una grande gioia per mio padre. Grazie alla tecnologia riuscivamo a sentirci e a vederci con Skype o scriverci messaggi con internet. Era veramente orgoglioso di sapere che potevo fregiarmi del titolo di dottore. Festeggiai i mie 30 anni con i nuovi amici. Non dovetti cercarmi un lavoro, fui contattato da alcune società con proposte economiche allettanti. Non scelsi quella che mi offriva di più come guadagno ma quella che ritenevo più soddisfacente ai miei studi e scelte di vita. Una multinazionale con filiali in tutto il mondo. Amministrazione in Lussemburgo. casa madre a Londra, filiali a New York, Hong Kong, Pechino: la si poteva considerare l’anticamera di un vero paradiso economico e anche fiscale. Non fu facile all’inizio, un lavoro dove devi avere pelo nello stomaco, potevo fare arricchire o rovinare a mio piacimento. L’importante era che il profitto nella multinazionale aumentasse e che gli azionisti ricevessero il loro bel dividendo. Dopo neanche un mese l’azienda mi mise a disposizione un auto personale, ne restai stupito. Il presidente mi convocò e mi fece i complimenti. Era raro che uno dopo solo pochi mesi avesse un tale successo nella contrattazione e le analisi sui miei investimenti erano andate oltre le aspettative. mi fece convocare: la segretaria mi portò in una saletta “ Il presidente tra breve la riceverà”, chiuse la porta e io afferrai una rivista sul tavolo, non la lessi, la sfogliavo osservando le foto, avevo una certa tensione e mi chiedevo come mai mi avesse convocato.

Era un periodo dove tagliavano le teste per ridurre le spese sul personale.

La porta si riaprì. Prego Mi segua. Davanti a me osservavo il fondoschiena e le lunghe gambe di questa segretaria che avrebbe potuto fare anche la modella, un fisico mozzafiato. Come entrai il presidente lasciò scivolare dei fogli sulla scrivania, mi venne incontro e mi strinse la mano. Prima che la segretaria chiudesse la porta la invitò a portarci due caffè. Era un buon segno. Si accomodi.

Eravamo uno davanti all’altro solo la scrivania ci separava, afferrò uno dei fogli e me lo fece scivolare davanti con un sorriso “Complimenti, era da tempo che non vedevo risultati così soddisfacenti”. Disse che Era raro che uno dopo solo pochi mesi avesse un tale successo nella contrattazione e le analisi sui miei investimenti erano andate oltre le aspettative.

Aprì una scatola e ne estrasse un sigaro; ne gradisce uno? No grazie non fumo. Le dispiace se fumo io? Si certo anche se non fumo mi piace il profumo. Mi coprì di complimenti e di aspettative, mi trattene circa trenta minuti concludendo: “Seguiti così, sperando che non mi voglia togliere la mia di poltrona “. Si alzò chiamo la segretaria, di nuovo mi strinse la mano e dalla segretaria mi fece consegnare un mazzo di chiavi, le strinsi nel palmo della mano e con l’altra strinsi nuovamente quella del presidente mentre lui diceva alla segretaria di indicarmi come raggiungere il garage. Un ascensore mi avrebbe portato lì. Mentre l’ascensore scendeva aprii il palmo della mano e osservai che le chiavi erano di una Maserati, pensai a uno scherzo, ma quando entrai nel garage, un signore con una tuta bianca mi si fece incontro: gli faccio vedere le chiavi. “Mi segua”, e mi portò di fronte a un telo grigio, lo prese dal basso e lo fece scivolare arrotolandolo. Pressai il bottone delle chiavi. Lei, la Maserati, mi lampeggiò i fari come volermi dire “dai bello andiamo a farci una passeggiata”. Salii mi sedetti e con le mani afferrai il volante accarezzandolo, inserii la chiave e un potente rombo mi attraversò la schiena, spinsi il piede sull’acceleratore e uscii dalla città per imboccare l’autostrada. Percorsi pochi chilometri, fui fermato da una pattuglia della stradale e mi rifilarono una contravvenzione per aver superato i limiti di velocità. Rientrai in ufficio non prima di aver fatto vedere la conquista a mio padre con WhatsApp. Era passato un anno, tutto proseguiva bene, anzi alla grande. Il lavoro, nuove amicizie, e una nuova casa erano la cornice del mio successo. Fino a quando non squillò il mio cellulare. Salve il sig. Alberto Marinelli? Si sono io! Qui è il comando dei carabinieri Parioli può passare presso di noi? Oddio che cosa è successo? Non me lo potete dire telefonicamente? Abbiamo cercato di risalire alla sua residenza ma l’unico contatto che abbiamo trovato è il suo numero di cellulare. Non potrebbe passare presso il nostro comando dei Carabinieri? Abbiamo una comunicazione personale. Solo in sua presenza gliela possiamo comunicare. Non vivo in Italia, al momento mi trovo a Londra. Anzi sono anni che sono residente in Inghilterra. Come le ho spiegato non gliela posso comunicare a voce, è la procedura. Ma ha a che fare con la mia famiglia, perché ho solo mio padre e nessun altro? Un breve silenzio, Si riguarda suo padre se potesse passare sarebbe meglio. Mi lasciarono un loro contatto telefonico.

Provai a contattare il cellulare di mio padre ma era perennemente occupato. Abitualmente ci sentivamo nei fine settimana o in caso di urgenze ci lasciavamo dei messaggi nelle mail.

Prenotai il primo volo per Roma, con un taxi mi diressi al comando dei carabinieri di cui mi avevano dato indirizzo e a chi rivolgermi . Un tenente mi fece entrare nella sua stanza mi pregò di sedermi, aprì un fascicolo e mi disse che mio padre era rimasto coinvolto in un incidente e che era deceduto. Mi crollò il mondo addosso, firmai delle carte e mi disse dove mi dovevo recare per vedere la salma, effettuare l’identificazione e provvedere alle esequie.

Il suo corpo era completamente maciullato, l’infermiere mi disse che raramente aveva visto corpi così mal conci. Ci fu un processo e mio padre fu riconosciuto responsabile di quanto avvenuto. L’avvocato dell’investitore sostenne che mio padre era sceso dalla vettura senza indossare il giubbino giallo e che non aveva posizionato il triangolo e fandonie varie. Dalle riprese di una telecamera però si vedeva benissimo che la vettura investitrice stava sorpassando sulla destra le vetture che erano al centro della carreggiata. Lo aveva preso in pieno, sradicando anche lo sportello per trascinarlo per oltre cento metri. Il mio avvocato un idiota intimorito da quel principe del foro esperto in sinistri autostradali mi era stato consigliato dalla assicurazione. Fui risarcito per i soli danni materiali dell’autovettura. “Lo sportello”.

– La sigaretta aveva impiegato circa sei secondi per infrangersi al suolo, li avevo contati fino a quando la parte accesa si era sparsa con uno scintillio nell’impatto col suolo. Io volavo da una eternità.

Rientrato a Londra la mia vita non aveva più senso, la perdita di mio padre aveva creato un vuoto e mi chiesi a cosa servisse vivere senza nessuno con cui condividere quanto avveniva nella mia vita. Mio padre era stato più di un padre, anche se avrebbe potuto farsi una nuova vita aveva scelto di dedicarsi a me. Mentre il mio cervello pensava a come chiudere questa esistenza, una mano di una collega si poggiò sulla mia spalla. Era Linda una stagista americana. Mi alzai e fu lei ad abbracciarmi dicendomi che aveva saputo quanto mi era successo e che le dispiaceva. Quell’abbraccio si tramutò in una rapporto. Quasi 40 anni, era giunto il momento di mettere su famiglia. Dopo pochi mesi decidemmo di sposarci e da questa relazione nacquero due gemelli. Il maschio lo chiamai Franco come mio padre, Linda non era molto contenta e gli aggiunse Jerry. Per la bambina non ci furono problemi Elisa, accontentò tutti e due.

Sembrava che tutto scorresse bene. La società mi propose di trasferirmi a Milano dove avevano aperto una nuova filiale. Linda non ne fu entusiasta, anzi si irrigidì asserendo che era una follia e che era giunto il momento che ci trasferissimo negli Stati Uniti. Uno dei motivi era che prima che i bambini iniziassero le elementari in Italia sarebbe stato meglio negli Stati Uniti dove avrebbero avuto un futuro migliore. Le feci presente che anche a Milano c’erano scuole internazionali e di ottima levatura e che ce lo potevamo permettere. Fu irremovibile, con la scusa del periodo estivo e i miei impegni nella nuova società decise di andare a fare una breve vacanza negli Usa. Sembrava tutto a posto, eravamo d’accordo per l’iscrizione alla scuola internazionale a Milano, tutto era fissato, data del rientro, biglietti e all’ultimo una telefonata annunciava che i bambini avevano contratto la varicella che non potevano partire e che viste le circostanze avrebbero iniziato le scuole negli Stati Uniti.

Non reagii, mi limitai ad accettare la sua decisione e che ne avremmo parlato appena li avessi raggiunti. Ogni tentativo di farli rientrare si chiudeva con scuse di tutti i generi.

Per il momento la nuova filiale non mi avrebbe mai concesso di prendere una aspettativa o delle ferie, avrei dovuto attendere le festività natalizie. Ci si sentiva e vedeva attraverso Skype. Cercavo di stare il meno possibile a casa, rientravo la sera tardi, facevo un giro aprendo e chiudendo le porte, mi soffermavo più a lungo quando aprivo quella dei bambini, i loro giochi, i cassetti con i loro vestiti che avevo portato da Londra. Non aprivo mai la metà dell’armadio dove Linda aveva riposto i suoi vestiti, non mi andava di guardarli e neanche sentire i suoi odori o profumi.

Anzi quando venne la donna delle pulizie le chiesi di mettere il tutto dentro degli scatoloni. Rimossi tutto ciò che le apparteneva, mi aveva tradito e ingannato. Quando arrivò Natale all’aeroporto Kennedy nessuno era li ad attendermi, dovetti prendere un taxi, ci vollero più ore ad andare nella loro casa che volare da Londra a Roma. Il traffico natalizio una bolgia.

Aveva cambiato casa, si erano trasferiti nel New jersey in una di queste case a schiera con tanto di giardino.

Ormai i bambini non parlavano più italiano e il motivo era che Linda la riteneva una lingua inutile. Mi salutarono appena, “Hi dad” e corsero in giardino, non guardarono neanche i regali che gli avevo portato.

Dalla porta entrò un tizio che aveva dormito in quella casa, mi salutò spiaccicò delle parole con Linda ed uscì.

Sentivo le risate dei bambini mentre giocavano con quel personaggio. Chiesi spiegazioni. Mi rispose che voleva il divorzio. Mi alzai le dissi che non c’erano problemi. Afferrai la valigia e le dissi che avrei provveduto al mio rientro in Italia. Arrivando avevo notato non molto distante la stazione ferroviaria, mi incamminai, acquistai il biglietto e mi portai sulla banchina in attesa del treno. In lontananza sentii il rumore del treno che arrivava, feci un passo avanti con l’intento di gettarmi sotto. Quando stava per sopraggiungere il treno una mano mi afferrò la spalla tirandomi indietro.

Mi guardò e mi chiese, perché lo fai? Come hai fatto a capirlo? Hai lasciato la valigia dietro di te. Andiamo a prenderci un caffè. Ora la sua mano era sul mio braccio, dai un caffè e poi vai dove vuoi.

Mi domandò se ero Italiano, mi stupii, gli chiesi da cosa lo avesse dedotto. Dalle tue scarpe e il tuo abito. Io sono Albanese e sono abituato ai drammi, se vuoi raccontami. Gli raccontai quanto avvenuto e lui mi rispose di farmene una ragione che la vita meritava più rispetto. Ci salutammo, le nostre mani si strinsero guadandoci negli occhi. Auguri, si grazie, anche a te.

– Ormai il volo era arrivato all’altezza sopra i lampioni, nel buio nessuno sicuramente aveva visto il mio volo, forse entrando nella zona luminosa se transitava qualcuno se ne sarebbe accorto.

Neanche più Skype, solo qualche rara mail o lettere dell’avvocato. Ogni volta mi aspettavo una richiesta di separazione o di divorzio. Invece chiedeva se potevo finanziare un progetto del suo compagno per la modica somma di $ 300,000 e di non dimenticarmi di seguitare a inviarle gli alimenti, anzi se le potevo alzare l’appannaggio visto gli alti costi della scuola dei nostri figli.

Le risposi che il suo amico poteva fottersi, che non avrei inviato neanche un dollaro. Questa risposta la fece imbestialire mi coprì di insulti e minacce. Non sapevo cosa volesse fare con quei soldi il suo amico e neanche me ne importava. Mi ricordai dell’albanese, prima di salutarmi mi disse. Stai attento sarà cattiva, cercherà di depredarti, ti conviene vendere tutto e chiudere i tuoi conti bancari. Mi ricordai di quando mi strinse le mani augurandomi buona fortuna. Le parole dell’albanese si rivelarono veritiere. Più volte le chiesi di venire loro in vacanza in Italia, ogni volta mi diceva di si che però ero io a dover acquistare i biglietti, mi dava delle date dei periodi e poi nulla. Aveva capito che se rientravano in Italia avrei impedito il rientro dei figli negli Usa. Vendetti la casa e tutto quello che era possibile eliminare. Essendo nel settore economico spostai in un conto cifrato i miei averi, in un conto panamense. Per l’azienda ero un consulente.

Non tardò ad arrivare una lettera di un avvocato e la richiesta degli alimenti di cui mi ero disinteressato. Passai tutto al mio avvocato. Diventò una bestia, non scriveva più. Telefonava, anche più di due volte al giorno. La ascoltavo e concludevo: hai finito? Scrivi all’avvocato. La perdita dei figli mi aveva stravolto, erano bambini facilmente condizionabili, ma sapevano che ero il loro padre. Mai una telefonata al massimo un laconico “Hallo daddy”. Non li sentii più . Credo che la mia ex si dovette cercare un lavoro. Non poterono farmi nulla essendo nulla tenente. Avevo superato i 50 anni, successi nel lavoro fallimenti nella vita ordinaria. Nel mondo della finanza non si hanno amici. Per causa degli andamenti finanziari di società americane, bolle speculative, investimenti fasulli, finte guerre per far ripartire l’economia. Interventi degli stati centrali e i controlli a tappeto degli organi al controllo delle finanze si decretò la fine dei giochi finanziari. Le banche chiudevano, non si parlava di altro. Chiusura di filiali e esuberi. Gli imprenditori chiudevano le fabbriche, le valute erano in altalena e la mia società mi mise alla porta. Loro avevano sbagliato sui piani di investimento futuri e io ne pagai le conseguenze. Avevo soldi a sufficienza per vivere ma se non hai un occupazione è dura. Mi inserii nelle consulenze con piccole medie aziende, non era un gran guadagno ma mi tenevano occupato. Ormai sulla soglia dei 60 anni nel volo mi resi conto che non si può tornare indietro.

-Dal buio del vuoto mi avvicinavo sempre più alla luce del lampione, le falene avvertirono il mio passaggio e si agitarono vorticosamente.

La scelta di questo salto era stata presa anche perché la salute mi aveva abbandonato. Iniziarono dei disturbi che inizialmente il mio dottore diagnosticò come fattori di età, cattiva alimentazione, vita stressata e mi prescriveva medicinali da banco. All’ennesimo collasso, ebbi un forte collasso, perdita di peso, dolori di ogni genere, decisi di consultare un medico oncologo che mi prescrisse una serie di accertamenti. Ne emerse che i miei disturbi avevano origini ben più preoccupanti. Le analisi parlavano chiaro mi fu diagnosticato un tumore. Iniziai con dei farmaci, ricovero in una clinica ma i risultati e gli effetti dettero risultati di miglioramento per un breve periodo. Mi prescrissero delle chemio. Avevo consultato i migliori specialisti ma come succede in questi casi le possibilità di sopravvivenza sono nelle mani del signore. E per uno che non aveva mai creduto era difficile chiedere un suo intervento. Considerando tutti i successi e gli insuccessi anche se il male fosse stato debellato sarei comunque rimasto un uomo solo. Decisi che non era il caso di proseguire. Lasciai un breve scritto spiegando le motivazioni. Lasciai a un istituto quanto disponevo in titoli e danaro, se non altro avrei aiutato la ricerca. A breve avrei saputo se nell’aldilà c’è qualcuno ad accoglierci.

-Restavano pochi metri e l’asfalto iniziava a delinearsi. Avevo lasciato tutto in ordine anche le spiegazioni del mio insano gesto. Ero lì pronto a spiattellarmi a terra, quando in lontananza vedo due luci di posizione avvicinarsi, non capisco se sia un auto, anzi ora si riesco a distinguerlo è un camion di quelli con il telone. Nel preciso istante, dove ormai restavano circa quattro metri, il camion si infila tra me e l’asfalto. Il mio corpo ci impatta sopra, sfonda il telone e il mio corpo va a finire su dei corpi sdraiati che mi fanno da cuscino. Non mi rendo conto di cosa stia succedendo, l’impatto con il tendone ha notevolmente rallentato la caduta, sono stordito, sento delle voci. Non comprendo che cosa dicono, il buio non mi consente di vedere dove sono finito, solo ogni tanto quando il camion passa sotto un lampione dalla tela strappata riesco a vedere dei volti. Un brusio di voci non capisco quello che dicono, ora mi sto riprendendo mi aiutano a distendermi mi mettono degli stracci sotto la testa mi gettano acqua su volto, uno mi schiaffeggia. Il buio e quei pochi passaggi sotto i lampioni non mi permettono di vedere dove sono e con chi sono. Mi riprendo dolorante e mi rendo conto che non sono finito sull’asfalto ma dentro un camion stipato di gente di colore che parlavano in lingue a me sconosciute. Uno che mi sta vicino e mi sostiene alza un braccio indicando lo strappo sul telo e in inglese mi fa delle domande. Sono ancora frastornato, chiedo dove sono, mi rispondono che sono clandestini che li stanno trasferendo al nord, a loro volta mi chiedono chi sono io e come mai sono sbucato dal tetto del camion. Una mano mi accarezza la fronte è quella di una donna, un altro mi versa ancora acqua sul viso, tutti si chiedono chi sono. Nessuna rottura solo stordimento, lentamente mi riprendo a causa dei dolori non tento neanche di alzarmi. Mi sento ripetere se va tutto bene, mi chiedono come mi sento, mi chiedono come mi chiamo e in quel momento mi rendo conto che solo i gatti hanno sette vite .

Noi ne abbiamo una e quella ci dobbiamo tenere.

Eddy

 

 

Mi Piace: 9Emanuela Limiti, Claudio Bucci e altri 7

Commenti: 1

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Guerrino Zorzit

La vita è un avventura straordinaria… storia, racconto, fiaba… bello Eddy, grazie

 

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