ROYAL ENFIELD 2016
La mia casa si trovava in una estesa pianura.
Le montagne erano così distanti che per vederle bisognava arrivare alla città più vicina distante alcuni chilometri.
Tutte le case erano isolate protette dalla vegetazione o da delle siepi ma non così tanto da non poterle vedere. Erano tutte unite da viottoli e da l’unica strada in terra battuta.
Non era un paese ne un villaggio ma una comunità.
C’era un incrocio segnato solo dalle ruote dei carri dove da una parte si andava verso il fiume che scorreva dietro le palme e dall’altra si andava verso le campagne. In passato il fiume in alcuni periodi dell’anno era navigabile ma per evitare che restasse a secco come succedeva nei periodi più caldi e a causa dei cambi climatici le piogge si erano fatte più rare.
Per questo più a valle avevano costruito una diga che aveva formato delle lagune che venivano utilizzate solo per piccoli spostamenti o per la pesca.
In più con delle pompe le campagne avevano sempre acqua e ottimi raccolti anche se non pioveva. Quella diga avrebbe fornito con delle turbine energia elettrica di cui eravamo sprovvisti. Premetto che mio padre non era molto d’accordo sulla costruzione di una diga. La diga avrebbe modificato l’abitat con un diverso microclima e costretto tanti animali dal dover migrare non avendo più il loro territorio. Diceva anche che le strade tagliano e dividono le pianure ma scavalcano montagne permettendo di raggiungere città in tempi brevi.
Anche se poi ammetteva che non si poteva fermare il progresso e sicuramente nel tempo ne avremo avuto dei benefici.
Difatti la notte sentivamo la fauna attraversare il nostro terreno mentre frugavano per procurarsi del cibo. Dovevamo fare attenzione ai serpenti e a quelli che non avevano contatto con noi umani essendo selvatici. Avevamo collocato dei barattoli che fungevano da campane, il loro tintinnio allontanava gli animali più grossi. Il giorno facevamo esplodere dei piccoli petardi per spaventare i rettili che altrimenti si sarebbero insediati sotto la casa o nel fienile.
Era sempre più diffuso nella collettività il pensiero che le strade e le ferrovie avevano tagliato in due le pianure e le foreste e a detta dei grandi avevano e avrebbero portato lavoro e benessere, a volte povertà.
Comunque la diga e la sua centrale elettrica la strada erano quasi ultimate.
Ritorniamo alla nostra strada e all’incrocio, punto nevralgico, dove c’era un emporio che vendeva di tutto, alimenti, candele, utensili, detersivi, attrezzi vari e sementi, poco distante una fornace che produceva mattoni vasi e pentole in terracotta, un fabbro tuttofare che lo si sentiva battere il ferro tutto il giorno e il solo in grado di riparare motori delle poche auto presenti.
La scuola e alcune abitazioni ne facevano il centro di quella comunità.
Quell’incrocio delineava la zona nord da quella sud. Ogni casa aveva sul retro del terreno che veniva coltivato con granturco, riso, girasoli o quello che la stagione permetteva. Quasi tutti avevano pecore maiali galline o delle mucche che utilizzavano per i trasporti e una volta adulte le vendevano.
La difficoltà nel percorrerla nel periodo estivo era la polvere e la mancanza di ombra; i pochi alberi erano distanti tra di loro, la polvere che sollevavi ti si attaccava al sudore e arrivavi a casa con il corpo come se fossi stato infarinato. In autunno andava un poco meglio, le poche piogge e il caldo meno opprimente, la polvere ti arrivava fino alle ginocchia. In inverno nel periodo delle piogge nessuno vi transitava perché si formavano delle grandi pozze d’acqua e poi il fango; il rischio era di lasciarci dentro le scarpe.
Quindi chi la percorreva lo faceva a piedi nudi, sia l’acqua che il fango ti ci faceva affondare fin sopra le caviglie. In primavera le buche si solidificavano e bisognava saltare da un lato all’altro per non inciampare. Quindi in primavera, in estate, in autunno e tantomeno in inverno erano pochi quelli che la percorrevano. Per fortuna non essendoci recinzioni si preferiva utilizzare dei piccoli sentieri tra i campi. Gli unici che la potevano percorrere erano i contadini su carri trainati dai buoi pesantemente carichi di fieno o di prodotti raccolti. Le auto ci passavano raramente e se ne passava qualcuna erano di quelle speciali per quel tipo di strada. I camion la preferivano solamente perché era più breve ma quando passavano alzavano una nuvola di polvere che oscurava il sole ma la evitavano nel periodo delle piogge come pure l’unico bus pubblico sempre stracarico di viaggiatori. Alcuni si appollaiavano sul tetto con borse e valigie saldamente legate e dietro lasciava sempre oltre alla polvere, una nuvola nera puzzolente dal suo motore.
Era l’unico che collegava un altro paese alla città passando per il nostro. Non faceva fermate il suo arrivo veniva annunciato dal suono del suo clacson e non essendoci altri rumori oltre il vento o qualche mucca che muggiva quel suono lo si sentiva da lontano alche ci si recava sul ciglio della strada, il bus rallentava quel tanto che ti permetteva in pochi attimi di scendere o salire per poi riprendere la velocità e se non salivi velocemente rischiavi di restare a terra. Raramente si fermava all’incrocio, lo faceva solo se c’erano più persone con ceste di prodotti della campagna o gabbie con galline che andavano a vendere in città.
Comunque in inverno spesso restavamo isolati.
La mia casa era la penultima verso nord, in tutto nella zona ce ne saranno state una trentina o forse più, ma ce ne erano altre più distanti. Erano poche le famiglie con un figlio, la maggior parte avevano dai due ai quattro bambini e questo ci permetteva di avere una scuola al centro di questa estensione di fattorie, in più essendo abitata da varie generazioni dalle stesse famiglie, tutti si conoscevano tra di loro. Alcuni erano amici, altri un poco meno per rivalità come consuetudine nella vita contadina. Bastava un raccolto migliore o una scelta anticipata su cosa piantare che immediatamente scattavano liti e gelosie. Due volte l’anno si tenevano delle feste dove c’erano delle giostre e i grandi vendevano le loro mucche o concludevano degli accordi con i commercianti venuti dalla città su cosa piantare l’anno successivo.
Il riso e il grano raccolto messo dentro dei sacchi veniva pesato per poi essere caricato su dei camion. La fiera faceva venire tante persone da fuori, venditori di sementi, pulcini, stoffe, attrezzi per la campagna, pentole e vasellame vario. C’erano delle giostre di legno che venivano azionate manualmente, dei tirassegno con palloncini colorati, sembrava facile lanciare quei dardi da breve distanza, bisognava centrarne cinque, e facile non lo era affatto, ma la tentazione di aggiudicarsi uno dei premi era tanta e a volte i nostri pochi soldi terminavano lì.
Alcuni vendevano dolciumi, lo zucchero filato era il più desiderato, nessuno ci avrebbe rinunciato. Non mancavano saltimbanchi giocolieri, alla fine di ogni spettacolo giravano con un secchiello e ci invitavano a deporre qualche soldo.
Il vecchio fachiro con i suoi lunghi capelli bianchi spezzava catene ingoiava spade e si infilzava spilloni nelle guance e prima di passare a raccogliere delle monete con la sua immancabile scimmia illuminava i nostri volti lanciando delle fiamme altissime nel cielo dalla sua bocca.
Ecco perché nei giorni antecedenti eravamo tutti agitati e contavamo i giorni mancanti, per noi bambini erano gli eventi importanti dell’anno.
Pertanto i soldi che ci venivano dati dovevamo gestirli sapientemente dandoci delle priorità. Dal momento che non c’era l’elettricità decine di palloncini di carta colorata con all’interno delle candele illuminavano la notte. Si andava avanti fino a notte fonda, la musica era garantita da qualche musicista o da registratori alimentati dalle batterie delle auto. Il tutto festosamente illuminato anche da un grande falò al centro. Concluse le vendite gli uomini formavano dei piccoli gruppi bevendo birra, altri del the e alcuni fumavano sigarette discutendo animosamente di sport o di politica, mentre le donne sotto un’ albero sedute su delle panche indossavano i vestiti più belli e colorati, le panche le posizionavano in circolo, alcune cullavano nelle braccia i piccoli, altre mostravano le stoffe o gli oggetti acquistati, altre parlavano fitto fitto e in alcuni momenti le sentivi ridere e si coprivano con la mano la bocca.
Comunque la sera tanta musica e una leggera brezza trasportava i profumi delle frittelle dello zucchero filato e delle carni arrostite.
Se gli affari erano andati bene si restava fino a tardi. I fuochi d’artificio avrebbero comunque decretato la fine della festa.
La mattina dopo si ritornava sul posto per vedere se si trovava qualche monetina persa nell’erba la sera prima.
LA MIA FAMIGLIA
La mia famiglia è composta da mio padre, mia madre, io e mia nonna. Mio padre si era laureato in scienze dell’agricoltura, mia madre in biologia.
– Che cosa ci facevano li ? –
– Bene, pare che io ne sia la causa. –
Mio padre e mia madre si erano conosciuti all’università, dopo la laurea, trovato il lavoro, si sposarono. Il lavoro garantiva un buon guadagno, avevano una bella casa ed erano felici. Non che non lo fossero adesso ma la vita in città era più interessante e poi facevano il lavoro per cui avevano faticosamente studiato.
Bene, succede che il nonno che non ho mai conosciuto si sia sentito male e che dopo poco tempo se ne sia andato in cielo.
Mio padre decise di far venire la nonna in città ma la nonna divenne presto triste e non usciva mai di casa. Allora mia madre disse che forse era il caso di prendere una decisione e di venire a passare un periodo in questa casa per vedere se la nonna ce la poteva fare da sola o eventualmente trovare qualche persona che la poteva aiutare e farle compagnia. Alla notizia la nonna ritornò subito sorridente, pare che in un attimo avesse preparato la valigia o che non l’avesse mai disfatta durante il periodo che fu in città. Rientrata nella sua casa le galline erano felici di rivederla. Era come se rivedessero una loro amica.
Le uova che producevano erano le più buone al punto che un famoso pasticcere della città le veniva a prendere due volte a settimana.
Nel periodo in cui nonna era stata in città il pasticcere dovette diminuire la produzione perché non gli piacevano le uova degli altri fornitori, anche le vendite erano scese perché i clienti lamentavano che i suoi dolci non erano buoni come prima. In più le galline in assenza della nonna pare che avessero smesso di produrle.
I miei genitori mi raccontavano che c’era anche un’oca che la seguiva ovunque e mi dicevano che si capivano e che a volte quando nonna le parlava l’oca le starnazzava come per risponderle, a volte discutevano e l’oca offesa si allontanava e non ritornava fino a quando la nonna non la chiamava, in più passeggiavano una fianco all’altra e da dietro si muovevano in maniera identica, non si sa se la nonna ancheggiasse come l’oca o viceversa.
La casa è rimasta come sempre, fatta in pietra dal nonno con delle tegole rosse sul tetto. La casa aveva una grande stanza che la attraversava da una parte all’altra, al centro un tavolo con delle sedie, ai lati le porte delle stanze, la prima quella di mio padre e mia madre che aveva il bagno al suo interno.
A seguire la mia stanza che era la più piccola ma sufficientemente spaziosa. Dall’altro lato c’era la stanza della nonna, un bagno e una stanza per gli ospiti e lo studio di mio padre con una scrivania vicino alla finestra e una parete piena di libri. Alle due estremità c’era il poggiolo che dava verso la strada polverosa, era la parte più in ombra, c’era un amaca delle poltroncine e un tavolino per poggiare delle bevande quando venivano degli amici. Nell’altro lato c’era la cucina che dava sulla campagna, il lavandino e i fornelli erano sulla parete, un tavolo con quattro sedie e un mobile lungo la finestra dove ci si mettevano scatolami e barattoli vari con alimenti. Il pavimento era fatto con del legno pregiato, in teak fatto venire appositamente da molto lontano. Nella nostra zona al di fuori dei pochi alberi lungo la strada c’erano solo piante di cocco. Un piccolo orto era curato dalla nonna, piante e fiori tenevano impegnata mia madre nei momenti di riposo. Poi c’era il pollaio, la stalla delle mucche e una piccola porcilaia con dei maiali che venivano alimentati con gli avanzi della cucina. Fuori poco distante un forno a legna in pietra, veniva acceso nei giorni di festa dove ogni tanto mia madre ci cucinava una delle galline con le patate. La nonna mentre mangiavamo si copriva lo sguardo con una mano, era vegetariana, in nessun caso avrebbe mai mangiato della carne e tantomeno una delle sue galline. Diceva borbottando che eravamo dei cannibali e che eravamo il giusto pasto per qualche tigre.
Sistemata la nonna per la quale avevano assunto una persona che ogni giorno si sarebbe recata ad aiutarla e farle compagnia, i miei genitori decisero di tornare al lavoro in città. La nonna si era tranquillizzata, aveva accettato di buon grado le loro decisioni. La mattina in cui miei dovevano partire la mamma si sentì male, iniziò a vomitare aveva una febbre altissima, mio padre inforcò la motocicletta per andare verso la città vicina per tornare con un dottore. A causa della febbre alta ci volle un poco di tempo prima di avere una diagnosi. Alla conclusione della visita il dottore esordì con un bene! Per poi su un ricettario prescrivere delle medicine, con l’obbligò di assoluto riposo, che non si doveva assolutamente muovere o fare sforzi, di provvedere al più presto di procurarsi le medicine e di somministrarle come scritto sulla ricetta. Mio padre stupito disse che non potevano restare, che assolutamente dovevano rientrare, che avrebbero avuto problemi con il lavoro.
Il dottore ascoltava silenziosamente quanto mio padre diceva, seguitando a riporre i suoi strumenti nella sua borsa, si aggiustò gli occhiali e confermò a mio padre che la mamma non era in condizioni di potersi muovere. Mio padre ribadì che assolutamente dovevano rientrare. Il dottore finì di chiudere la borsa dei suoi strumenti per replicare con tono severo che non si trattava di una semplice febbre o di un comune mal di pancia, ma che mia madre aspettava un bambino e se non volevano rischiare di perderlo dovevano rinunciare a qualsiasi spostamento. In base a quello che mi racconta la nonna il dottore aveva chiuso la borsa e già varcato la soglia della porta per poi rientrare e riaprirla nuovamente per soccorrere mio padre. Anche lui ebbe bisogno del dottore, pare che mancò la sedia e andò lungo in terra, lo dovette schiaffeggiare e fargli annusare una sostanza per farlo riprendere. Una volta in piedi si mise a ballare e saltare felice come non mai, abbracciò la nonna e poi la mamma.
La mamma piangeva dalla contentezza accarezzandosi il ventre. La nonna esultò dicendo che se fosse stato un maschio si doveva chiamare come il nonno “Dinesh”. Mamma rise e disse e se sarà femmina? La nonna accarezzo la pancia di mia madre e disse!
Impossibile, sarà un maschio. Mio padre oramai ristabilitosi decise di comune accordo con mia madre di lasciare i reciproci lavori per trasferirsi definitivamente in questa casa.
L’AQUILONE
Quella mattina mi svegliai prima del solito, era un giorno di festa. Restai nel letto a godermi il pensiero di quello che avrei fatto della giornata visto che non dovevo andare a scuola. Me lo godei alla grande quel momento, era piacevole restare sotto le coperte senza doversi precipitare a fare tutte le cose per prepararsi e andare a scuola, osservavo appoggiato alla parete l’aquilone che non vedevo l’ora di farlo volare.
Speriamo che la colla si sia asciugata a dovere, lo avevo realizzato con una carta speciale, una di quelle carte con cui si fanno i pacchi regalo e non con la solita carta di giornale che spesso si lacera alla forza del vento. Dalla cucina arrivava un profumo di dolce, mi decisi che era il momento di alzarmi, mi lavai per poi vestirmi e indossare i miei sandali preferiti. Sollevai l’aquilone per verificare che fosse ben solido dandogli un paio di strattoni, era perfetto, tutto a posto non restava altro che liberarlo al vento.
In cucina mi aspettava una tazza di latte fumante con una calda fetta di torta appena fatta da mia madre.
– Questa mattina sei caduto dal letto, non hai nessun mal di pancia – per poi accarezzarmi il volto e darmi un bacio sulla testa.
– bravo sei sempre profumato e pulito, sono fiera di te. Finita la colazione poggiai nel lavello la tazza per andare a prendere il mio aquilone, fui fermato sulla porta da mia madre che mi diceva di non allontanarmi troppo perché la nonna poteva aver bisogno del mio aiuto.
I miei genitori quel giorno andavano in città per degli impegni molto importanti.
Stavano allargando e asfaltando la strada che passava davanti a casa nostra e man mano che andavano avanti piantavano dei pali di cemento che avrebbero portato i fili per la luce elettrica.
I lavori andavano avanti velocemente li avrebbero conclusi prima della stagione delle piogge, in lontananza si iniziava a vedere il nero dell’asfalto e i pali dove avevano steso i fili che a breve avrebbe raggiunto la nostra casa. Nella periferia del piccolo centro c’era una spianata dove abitualmente giocavamo, quello spazio era lo stesso che veniva utilizzato per le fiere o come deposito dei prodotti della campagna prima di essere caricati sui camion, per quell’occasione la ditta che eseguiva i lavori della strada ci aveva posizionato tutti i suoi materiali che servivano per ultimarla, per noi era il massimo dell’eccitamento, bidoni di catrame i pali distesi in attesa di essere eretti, matasse di fili elettrici e i vari macchinari che ogni mattina li portavano nell’area dei lavori per terminare la strada. Eravamo andati a vedere come procedevano i lavori ma ci avevano allontanati essendo pericoloso a causa dei frenetici movimenti di quei macchinari. La strada e l’arrivo della luce avrebbe portato grandi cambiamenti nella nostra vita quotidiana.
Fino a quel momento per la luce mio padre aveva attaccato dei fili al faro di una vecchia motocicletta Royal Enfield che metteva in moto la sera per illuminare la cucina, l’aveva posizionata poco distante da casa dietro dei covoni di fieno che ne attutivano il rumore. Veniva utilizzata raramente per degli spostamenti e oggi sarebbe stata la sua giornata.
A mio padre non piaceva la luce delle candele e del lume a petrolio, poi la sera dopo cena gli piaceva leggere il giornale, calcolava inserendo della benzina nel serbatoio in modo che una volta finita non ci si doveva recare a spegnerla.
Mia madre una volta svolte le faccende domestiche si esercitava su una stecca di legno dove vi erano disegnati i tasti di un pianoforte. Le chiesi perché muoveva le dita su quella stecca e voltava le pagine dello spartito se non sentiva la musica? Mi rispose che lei la musica l’aveva nella testa e che era sufficiente tenere le dita in esercizio per non perdere l’abitudine e che forse un giorno lo avrebbe acquistato. Voleva che anche io imparassi a leggerla, e che sapessi suonare uno strumento, non importava quale, bastava che ne sapessi suonare uno, diceva che la musica era una lingua universale. Quella mia curiosità mi costò che il pomeriggio mia madre mi dava lezioni di solfeggio e dovevo imparare le note musicali e saper distinguere i vari strumenti musicali, mi illustro i vari tipi di musica dalla classica all’opera ai canti popolari al jazz, mi insegno l’inno nazionale e facevamo i tenori e alla fine ogni volta ci facevamo delle grasse risate.
Avrei preferito andare al fiume a pescare ma su certe cose mia madre non transigeva e non volevo darle un dispiacere rifiutandomi di non apprendere la musica, dopo un breve periodo riuscivo a comprendere quei segni fatti di pallini e bastoncini legati tra loro in alto il tutto inserito in cinque righe dove all’inizio c’era una specie di segno che si chiamava chiave di violino. Mia madre a volte passava il tempo a posizionare su quelle righe quei simboli con una matita, con un filo di voce emetteva un suono e se non le piaceva lo cancellava e ne scriveva uno di nuovo. Solo la cucina e le faccende domestiche la distoglievano da continuare a comporre brani musicali, mi sarebbe piaciuto vedere scivolare le sue dita su un vero pianoforte per il momento mi bastava la sua voce melodiosa.
Questa era la mia famiglia dove abitavo e quello che quotidianamente succedeva. Finii la mia colazione salutai mia madre tornando indietro per darle un bacio.
LA MONTAGNOLA
Con l’aquilone stretto sotto il braccio mi diressi verso uno spazio dove non c’erano alberi, mentre correvo un camion mi superò per poi fermarsi a scaricare una montagnola di terra e sassi grandi quanto un frutto di melograno. I lavori stavano procedendo celermente e a breve dopo aver steso quel pietrisco sarebbero passati all’asfalto, e finalmente le auto avrebbero potuto transitarci, ma la cosa più importante erano i pali della luce. I miei genitori appunto andavano in città per firmare i contratti per allacciare la luce e il telefono e per altre faccende che mi avrebbero raccontato al loro rientro.
Arrivato nello spiazzo mi bagnai con la saliva il dito indice per sollevarlo e verificare da dove venisse il vento, fatta questa operazione detti un poco di spago e inizia una breve rincorsa lasciando libero l’aquilone che in pochi istanti si sollevò e si liberò in alto chiedendo sempre più corda, in un attimo la esaurii tutta e iniziava a tirare che era una bellezza, ogni tanto scendeva di lato come se andasse in picchiata, uno strattone e lo riportavo verso l’alto, poi dall’altro lato, bisognava essere tempestivi nel sapere il momento giusto, una minima indecisione e sarebbe precipitato al suolo, bisogna avere una forte sensibilità nelle dita per capire quando bisogna tirare o allentare, ogni tanto il sole mi finiva negli occhi e mi dovevo proteggere con una mano per non perdere le evoluzioni, lo richiamavo in basso ma lui tirava sempre più in alto, avevo la sensazione che voleva raggiungere le nuvole, era la prima volta che lo spago era ultimato e la prossima volta ne avrei dovuto aggiungere dell’altro. Era il più bello che avessi mai realizzato non ne voleva sapere di scendere, sicuramente se avessi avuto più corda sarebbe salito ancora più in alto.
Nel frattempo i miei amici si erano radunati sotto la montagnola, c’eravamo quasi tutti, dopo pochi istanti tutti cercavano di raggiungere la sommità.
Il collaudo del mio aquilone era andato bene, decisi di farlo scendere e di andare anche io verso la montagnola. Non fu facile tirarlo giù, lentamente riavvolsi lo spago sul rocchetto, senza danneggiarlo riuscii nell’impresa. Una volta a terra ci misi sopra dei sassi ai quattro lati per impedire che il vento lo portasse via.
Di corsa raggiunsi la base della montagnola, mi tolsi i sandali e iniziai ad arrampicarmi. Quella montagnola ci eccitava, per noi era come scalare una montagna, d’altronde li era tutto piatto e se uno voleva vedere la campagna dall’alto doveva salire sul tetto di casa. Quando a carponi arrivai alla sommità e stavo per alzarmi. Rachid che già si trovava alla sommità si girò e mi dette una spinta che mi fece perdere l’equilibrio, ruzzolai fino alla base e mi resi conto di essermi sbucciato un ginocchio, era solo una escoriazione niente di grave, restai seduto ad osservare Rachid che urlava e gesticolava come un forsennato, non faceva arrivare nessuno alla sommità, con le mani e con i piedi respingeva chiunque tentasse di arrivarci. Non era la prima volta che usava maniere forti, quando arrivava impartiva ordini, decidendo quali giochi si dovevano fare, cambiava le regole a suo piacimento, qualunque fosse stato il gioco doveva essere lui il vincitore o decidere chi doveva seguirlo nelle scorribande, aveva sempre con se una fionda che usava contro i cani le mucche o dei volatili, una volta colpiti si divertiva a sollevarli per un ala e a mostrare la sua preda per poi lanciarli nell’ erba.
Chi non eseguiva i suoi comandi veniva apostrofato come una femminuccia e io rientravo in quella definizione. Ci sformava che io non gli davo nessuna importanza e cercava sempre di attaccare briga nei miei confronti ma avevo capito il suo carattere e lui, ancora prima che io potessi dirgli che non lo avrei seguito, mi guardava e con tono minaccioso puntandomi contro un dito gridava. Tu non vieni! – Non mi sarei mai sognato di seguirlo, non mi piacevano i suoi modi e lo trovavo crudele l’utilizzo che ne faceva della sua fionda. Non parlava, urlava, gesticolava, a volte danneggiava le colture e se i contadini lamentavano i danni lui era sempre pronto a scaricare la colpa sugli altri. Nel caso qualcuno si rifiutava a seguire i suoi comandi non disdegnava usare le mani. Essendo più alto e robusto nessuno lo contraddiceva.
Alle sue spalle senza che si accorgesse perché troppo preso a urlare e calciare apparve Jasmine che si sollevò in piedi alzando le braccia in segno di vittoria, Rachid si girò, la spinse verso il basso. Rotolando vicino a dove mi trovavo, anche lei lo guardava, si alzò per spolverarsi e mi guardò stupita come voler dire che non capiva che cosa stava succedendo e cosa aveva da urlare in quel modo e perché non voleva che nessuno raggiungesse la sommità. Non avendo una risposta mi limitavo a guardare.
IL SEGRETO
Tutto a un tratto Jasmine mise le mani a capannina, gridando gioiosa di aver trovato qualche cosa in terra. – Guardate ripeté più volte, guardate che cosa bella ho trovato? I primi due ad arrivare erano i gemelli, che era difficile distinguerli per la somiglianza e in più vestivano uguale, l’unico modo era in base alle escoriazioni che si procuravano. Difatti uno dei due nel correre per vedere cosa avesse nelle mani scivolò e si sbuccio un ginocchio, quello era Ravi, ora per una quindicina di giorni non avevamo problema a distinguerli. Anche May si avvicinò, una bambina molto bella a scuola dava ottimi risultati ma da un anno non veniva più dal momento che si doveva occupare del fratellino che portava sulle spalle legato in uno scialle. La famiglia era di una quelle povere che viveva vicino al fiume in una capanna presso la piantagione delle palme. Il padre si beveva in birra gran parte dei guadagni e la madre oltre che lavorare la terra offriva la sua opera per lavori domestici. May si avvicino osservando le mani di Jasmine e con il volto stupito mi guardò alzando le spalle, sorridendomi indietreggiò.
Tutti si erano diretti a osservare che cosa mai avesse trovato, ma restavano stupiti e si allontanavano tornando ai propri interessi.
Jasmine è una bambina molto dolce, ha dei bellissimi occhi verdi e capelli neri, non disdegna condividere giochi prettamente maschili, il nostro gioco preferito era il cricket poi il pallone di cui non conoscevamo le regole, quindi ne veniva fuori una partita dove tutti correvano dietro alla palla senza sapere chi era l’avversario. A volte ci dividevamo in bande, con spade realizzate con delle canne. Duellavamo cercando di non farci male, ma a volte la foga prendeva il sopravvento e qualcuno si faceva male. Qui interveniva Jasmine, a lei piace curare i feriti e anche se non ce ne erano ne obbliga uno a sottostare alle sue cure.
L’unico incrocio della strada polverosa delineava le due fazioni, noi quelli del sud e loro quelli del nord. Esaurito il ciclo dei giochi da maschio la trovavi a giocare con bambine più piccole a preparare improbabili minestre fatte di erbe e terra mischiate con dell’acqua da somministrare a delle bambole che fortunatamente non mangeranno mai.
– Gli altri bambini si diressero verso Jasmine per vedere cosa mai avesse trovato. Dall’alto Rachid inizio ad urlare che quella cosa che aveva in mano era sua e che gli apparteneva, lo ribadì più volte prima di decidersi a scendere. Si precipitò alla base della montagnola ma scivolò inciampando e rovinò a terra. Tutti si misero a ridere e lui si adirò ancora di più cercando di afferrare le mani che Jasmine aveva passato dietro la schiena, cercava in tutti i modi di afferrarla per i polsi ma lei indietreggiava, lui urlava me lo devi dare è mio.
Ma se non sai neanche cosa ho trovato. Dai se lo sai ed è veramente tuo dimmi che cosa ho nella mano e te lo do.
– No! Urlava a gran voce, non te lo dico, so solo che sei una ladra, anzi sei una stupida ladra, se non me lo ridai te la faccio pagare cara – Jasmine indietreggiava, non aveva nessuna intenzione di subire quella aggressione. Rachid era figlio di uno dei più ricchi della zona, una specie di lestofante, dicono che si era arricchito mettendo delle pietre dentro i sacchi di riso e quando se ne accorsero dette la colpa ai suoi contadini dicendo che erano stati loro per sottrarre il riso perché non lo volevano pagare. Uno di questi era il padre di Jasmine. Anche se tutti sapevano che non era vero nessuno ne prese le difese. E con la scusa non pagò nessuno, era anche molto aggressivo e usava spesso le mani per avere ragione. Mio padre si limitava a salutarlo, non aveva mai fatto affari con lui e non ne avrebbe mai fatti. Una volta mentre parlava con nonna disse che anche a scuola era uno zuccone prepotente e che la sua fortuna era di avere parenti influenti nella politica. Quando c’erano delle elezioni locali si candidava ma non riusciva mai a raggiungere i voti a sufficienza per governare e questo lo mandava su tutte le furie i voti caso strano non arrivavano mai a legittimarlo, era come se ci fosse un passa parola in un anno in una zona aveva i voti e in un’altra erano troppo pochi e quindi non veniva eletto.
I suoi manifesti erano oggetto di ironia alcuni la notte si divertivano a disegnargli occhiali o a fargli un dente nero e questi episodi lo caricavano di rabbia. Comunque resta il fatto che non veniva mai eletto. Anche in questa fase della costruzione della strada diceva che se non fosse stato per lui non si sarebbe fatto nulla, ma i cartelli esposti in prossimità del cantiere dicevano il contrario e che era un finanziamento governativo per migliorare l’area e la viabilità.
IL PACERE
Mi alzai e andai verso Rachid, gli misi la mano su di una spalla dicendogli di calmarsi che era tutto uno scherzo. Niente da fare, seguitava ad urlare e a insultarla. Dai Jasmine apri le mani fai vedere che non hai niente, Rachid mi spinse con una manata sul petto, fatti gli affari tuoi, questa è una questione tra noi due. Jasmine indietreggiò ancora di un passo per poi mostrare le mani vuote, il suo viso si era fatto serio e dallo sguardo capivo che voleva che le restassi a fianco.
– No urlò, non è vero lo ha sicuramente gettato da qualche parte, me lo devi ridare perché è una cosa che mi appartiene. Mi misi tra i due alzai la voce anche io,
E’ uno scherzo non ha mai trovato niente lo vuoi capire!
Jasmine…. Era immobile con le mani aperte per far vedere che non aveva niente.
Questo gesto non calmò le ire di Rachid che di nuovo mi scanso seguitando ad insultarla.
Rachid non avrebbe mai ammesso di essersi inventato il tutto e la sua rabbia montava attimo dopo attimo, in più tutti i bambini che avevano assistito a quanto era successo si misero a ridere, indicando, vuoi con un dito o portandosi le braccia sull’addome per poi piegarsi beffeggiando Rachid. Il fatto di sentirsi deriso accentuò la sua rabbia ulteriormente.
– Si mise ad urlare a gran voce. Sei una ladra, ripetendolo più volte, sei una lavandaia come tua madre, si una lavandaia e stupida come tuo fratello, tutti indietreggiammo qualche passo avevamo paura di una sua reazione scomposta, ogni tanto si sentiva una voce che lo invitava alla calma, ma non aveva nessuno effetto. Alcuni iniziarono ad allontanarsi nel timore di essere aggrediti solo perché spettatori. Cercò di aggredire uno dei gemelli perché secondo lui era troppo vicino ma se si fosse allontanato poteva perdere il contato con Jasmine e restò li sempre più furioso. Ripeteva si sei una lavandaia come tua madre e una ladra come tuo padre. Si sei una ladra come tuo padre ripetendolo più volte.
A quella frase divenne rossa in volto di rabbia, sbarro gli occhi strinse le labbra si inchinò raccolse una di quelle pietre grandi quanto un melograno e la lancio contro Rachid colpendolo al volto. Lui urlò di dolore e in un istante usci dalla sua fronte del sangue, talmente tanto che ne coprì il volto e macchiò anche la camicia vistosamente.
LA FUGA
Restammo tutti in silenzio, dopo poco tutti si dettero a gambe levate, restai un attimo in più, volevo intervenire per aiutarlo ma la paura e le sue grida mi spinsero a fuggire verso casa, a metà strada mi ricordai dell’aquilone ma la paura era tanta e solo dopo aver chiuso la porta dietro le mie spalle mi accorsi che il cuore mi batteva forte e le gambe mi tremavano. Dopo poco mi calmai, mi recai nello studio di mio padre, dalla sua finestra si riusciva a vedere la montagnola, senza farmi vedere scansai la tenda e con un rapido sguardo vidi che non c’era più nessuno.
Volevo tornare recuperare il mio aquilone ma mi mancava il coraggio, e il cuore mi riprese a battere.
Da lontano avvertii il motore della moto e che i miei genitori stavano rientrando, mia madre con stupore osservò l’orologio appeso alla parete, si meravigliò di vedermi in casa.
– Che ci fai qui? perché non sei fuori.
Mamma è successo una cosa terribile. Nel frattempo anche mio padre era entrato in casa poggiando sul tavolo uno scatolone con degli acquisti fatti in città. Raccontai per filo e per segno quanto era successo e che ne ero rimasto profondamente scosso e che non capivo perché Rachid si fosse così agitato; della spinta che mi aveva dato e delle brutte parole rivolte a Jasmine.
Mia madre mi disse che forse avevo esagerato e che sicuramente era una cosa da niente, che erano cose che capitavano spesso tra bambini.
Mio padre mi chiamò verso di lui e mi guardò negli occhi mettendomi la sua mano tra i capelli come se li volesse spazzolare. Bene ora con calma raccontami bene cosa e come sono andate le cose. Ripetei tutto quanto con dovizia di particolari, che mi trovavo in quel posto per collaudare il mio aquilone, dopo che il camion aveva scaricato tutta quella terra una volta che la nuvola di polvere fu portata via dal vento tutti si precipitarono verso la montagnola decisi anche io di unirmi a loro. Ma il mio tentativo di scalarla fu vanificato una volta raggiunta la vetta dalla spinta che mi fece rotolare alla base. Gli mostrai la mia escoriazione.
– L’hai disinfettata? Risposi di no perché a causa di quanto stava succedendo il sangue si era nel frattempo asciugato, la nonna si presento con un catino con dell’acqua calda e dei Sali, ammorbidì la crosta pulì bene la ferita mise una polvere e poi fasciò il tutto dicendomi vedrai in un paio di giorni passerà tutto. Finito il racconto mio padre restò in silenzio, poi mi disse che sicuramente era una cosa da niente spiegandomi che in quel punto sull’arcata sopraciliare ci sono molti capillari e che questo era il motivo di tanto sangue. Mi disse che Rachid era un ragazzo particolare e che Jasmine una bambina dolce, che non avrebbe dovuto reagire in quel modo ma che in un certo senso la capiva e che forse anche lui avrebbe reagito non sa come ma di certo qualche cosa avrebbe fatto. Si diresse verso la libreria, dopo essersi messo gli occhiali inizio a guardare canticchiando e scorrendo con un dito leggeva sulla costoletta i titoli dei libri. Ne estrasse uno, lo accarezzo come se volesse spolverarlo, chiuse gli occhi e lo annusò, diceva che gli piaceva il profumo dei libri e che avevano un odore particolare. Me lo consegnò dicendomi. Leggi questo libro vedrai che ti aiuterà a capire molte cose. Mio padre trovava sempre una risposta e una soluzione a tutto prendendo da quella libreria un libro. Chiunque gli ponesse un quesito, lui gli rispondeva dicendo; leggi questo libro, vedrai troverai quello che cerchi o vuoi sapere. Prese due libri uno era i ragazzi della via pal e il secondo la guerra dei bottoni
Li girai verso di me per osservare le copertine, i libri erano molto vecchi ma tenuti bene, avevano la copertina illustrata dove si vedevano dei ragazzi. Poi lessi il titolo, LA GUERRA DEI BOTTONI. Lo aprii, nella prima pagina c’era una dedica che avrei letto in seguito, girai una seconda pagina ancora bianca, poi un’altra con lo stesso titolo della copertina al centro e poi nella pagina successiva il racconto. Decisi di iniziarlo a leggerlo subito fino a quando mia madre non mi chiamò per dirmi di lavarmi le mani che la cena era quasi pronta. Le dissi ti attendere un attimo, non sentì ragioni. Dovetti interrompere la lettura. Mio padre mi disse di andare a recuperare l’aquilone prima che facesse buio. Quando arrivai sul posto dove lo avevo lasciato, non c’era più, poco più in la i cani se lo stavano litigando e lo avevano ridotto a brandelli. Il più anziano se ne stava in disparte a rosicchiarsi il gomitolo di spago.
Mi infilai le mani in tasca e mestamente rientrai a casa. Guardavo il piatto fumante, non volevo mangiare, la nonna mi passo dietro passandomi la sua mano morbida sulla testa; dai mangia lo rifarai più bello e forte.
Dopo cena aiutai a sparecchiare e prima che mio padre si mettesse a leggere il suo giornale gli chiesi dove fosse la Francia. Nonostante tutti i libri che aveva mancava un atlante o carta geografica ma mi disse di chiederlo al mio insegnante, di sicuro a scuola lo avevano. Prese il giornale e prima di iniziare a leggerlo mi disse che Jasmine doveva chiedere scusa e che altrettanto avrebbe dovuto fare Rachid e che quelle cose non devono succedere tra bambini. Si complimentò con me per aver fatto tutto il possibile perché quella lite non avvenisse. Andai dalla nonna che stava lavando i piatti e senza interrompere mi dette un bacio augurandomi la buona notte, altrettanto fece mia madre che stava stirando delle camicie.
Mi preparai per infilarmi a letto, una volta infilato sotto le coperte mi misi il libro aperto sopra il petto alla pagina dove ero arrivato. Fissai il soffitto e le ombre che il lume a petrolio proiettava, riflettei su quanto mi aveva detto mio padre, mi aveva fatto capire che bisogna sempre ragionare prima di una qualsiasi reazione, e che l’indomani mi sarei dovuto assicurare che i due contendenti facessero pace. Seguitai la lettura, spostai il lume a petrolio per vederci meglio. Il racconto era ambientato nelle campagne Francesi, si trattava di bambini che giocavano e lottavano, si erano divisi un due bande che guerreggiavano tra di loro per la supremazia. Nel leggerlo capivo che tutti i bambini del mondo fanno gli stessi giochi e vivono questa esperienza per farli crescere, i nostri giochi non erano differenti dai loro. Sarei rimasto sveglio tutta la notte per finirlo, ma il sonno si faceva sentire quindi pensai che aveva ragione mio padre, non si legge bene con quella luce. Poggiai il libro sul piccolo tavolino a fianco del mio letto e spensi il lume.
Quella montagnola avrebbe portato tanti cambiamenti nella nostra crescita, ne sarebbe venuto fuori chi e cosa volevamo essere da grandi.
LA SCUOLA
La mattina mia madre mi dovette svegliare, Piccolo pelandrone alzati, lo sai che devi andare a scuola, non ti inventare scuse.
Velocemente mi lavai chiusi lo zaino, neanche mi sedetti per bere il latte e mangiare l’ultimo pezzo di torta, dalla finestra vidi che Jasmine si stava recando a scuola. Uscii sulla porta e feci cenno di aspettarmi. Salutai mia madre, misi le ultime cose nello zaino. La raggiunsi, ciao come stai? – Come è andata. Non diceva niente teneva la testa china e si guardava le punte delle scarpe che andavano avanti e in dietro. Come è andata le chiesi nuovamente, ne hai parlato con i tuoi genitori. Si, mi hanno rimproverato, mi hanno detto che me ne sarei dovuta tornare a casa e che non dovevo reagire lanciando quel sasso. Gli ho anche detto delle brutte parole e degli insulti, ma non hanno sentito ragione. Mi hanno detto che gli devo chiedere scusa per prima senza aspettare che lo faccia lui.
Pensai di cambiare discorso, le chiesi che cosa voleva fare da grande, stette in silenzio un attimo per poi rispondermi dicendo che da grande voleva fare il medico dei bambini. Le dissi che ci sarebbero voluti molti soldi. Alzò le spalle senza dire niente.
Mi dispiaceva di averle detto che ci sarebbero voluti molti soldi e dove li avrebbe trovati? La famiglia di Jasmine era povera e i genitori lavoravano duro per riuscire a vivere. Dopo un attimo mi guardò accennando un sorriso, per poi dirmi che avrebbe fatto l’infermiera e che con i soldi guadagnati avrebbe potuto studiare e sarebbe riuscita a diventare dottore dei bambini.
E te cosa vuoi fare da grande? Le risposi che volevo fare l’ingegnere aeronautico, sapevo che sarebbe dispiaciuto a mio padre che sicuramente avrebbe voluto che seguitassi a curare le terre ma io avevo sempre avuto questo sogno di volare, e non potendolo fisicamente avrei dovuto costruire qualche cosa che mi avrebbe consentito di farlo. Sorrise, vedrai che ce la facciamo.
Jasmine si intristì prima di entrare, rallentò il suo passo, non sapeva quale sarebbe stata la reazione di Rachid, le pesava dovergli chiedere scusa, in fin dei conti lei aveva reagito a una serie di gesti e brutte parole che l’avevano ferita. Entrati in classe gli altri bambini la guardavano ma nessuno disse niente, alcuni bisbigliavano. Mi sedetti e guardai voltandomi i volti dei miei compagni che abbassarono i loro sguardi come se stessero leggendo. Rachid non c’era in classe. Dopo pochi istanti venne l’insegnante, fece l’appello, tutti dopo essere stati chiamati alzavano la mano dicendo presente. Quando fece il nome di Rachid ci fu il silenzio. Alzò lo sguardo dal registro ci osservò fece un segno con la matita per poi riprese a leggere i nomi per completare l’elenco dei presenti. Finito l’appello, alzai la mano chiedendo se mi poteva dire dove si trovasse la Francia. L’insegnate mi osservò stupito chiedendomi come mai quella richiesta? Gli dissi del libro che stavo leggendo. Si portò una mano sul volto accarezzandosi il mento. Si lo lessi anche io quando avevo la tua età, fai bene a leggerlo, forse lo si potrebbe leggere e commentare con tutta la classe, se ti va lo puoi portare. Prese un gessetto e disegnò l’Europa delineando confini e dove erano le loro capitali, fino ad arrivare alla Francia, concludendo con una linea disegnata con il gesso verso il basso dicendo noi…. Siamo qua giù. Farò in modo di procurarmi un mappamondo per rendervi meglio l’idea di dove esattamente siamo nel mondo.
All’improvviso fuori dall’aula si sentirono delle grida, non riuscivamo a capire che stesse succedendo, l’insegnate batte il righello sulla scrivania invitandoci a restare seduti ai nostri posti. Usci chiudendosi la porta dietro. Quelli più vicini alle finestre si alzarono per osservare, e sottovoce dissero che c’era il padre di Rachid che urlava e gesticolava come aveva fatto il figlio il giorno prima sulla montagnola. La distanza non ci permetteva di sentire quello che diceva, ma potevo notare che era solo e che Rachid non era con lui. Mi girai verso Jasmine che era rimasta seduta pallida in volto. Mi avvicinai e le dissi di stare tranquilla, vedrai e solo una sfuriata. Altri insegnanti uscirono dalle classi e fecero cerchio intorno, la direttrice gli si parò davanti credo per chiedergli il motivo di tanta ira. Gesticolava con una mano come volerlo calmare e invitandolo ad uscire dal perimetro della scuola. Dovette alzare la voce cosa che non aveva mai fatto per farlo allontanare, e gli disse di tornare solo quando si sarebbe calmato e che avrebbe inviato una lettera al provveditorato per informare di quanto avvenuto. Tutti sapevano che era un tipo rissoso, non era la prima volta che veniva alle mani per delle sciocchezze, ma non si sarebbe mai permesso di usare la sua forza contro una donna ma la minacciava che l’avrebbe fatta rimuovere dal suo incarico, non si scompose ma avanzò di un passo e questo fece infuriare il padre di Rashid che decise di uscire dal cortile della scuola seguitando ad urlare ed a inveire insulti e minacce. Dopo pochi istanti la direttrice entrò nella nostra classe seguita dal nostro insegnante. Chiamò Jasmine da una parte chiedendogli se era vero quello che era successo il giorno prima. Jasmine racconto quanto era successo mentre delle lacrime le scendevano dagli occhi, non voleva piangere, quelle lacrime uscivano spontanee. La direttrice fino a quel momento era chinata all’altezza di Jasmine, le passo una mano sul volto dandole un fazzoletto per asciugarsi il volto. Chiamò verso di se il nostro insegnante e gli disse di andare a chiamare i genitori perché la venissero a prendere. Jasmine si diresse verso il suo banco raccolse le sue cose e segui la direttrice nel suo ufficio. Fu subito percepibile che le due versioni erano contrastanti. La lezione non riprese, la mattinata era trascorsa in una concitata discussione di cui eravamo a conoscenza del fatto ma non di quello che era successo nel cortile. La mia curiosità riguardo dove fosse la Francia fu rimandata ad un’altra occasione.
LA PAURA
Nel frattempo il padre di Jasmine arrivò a scuola, entrò nell’ufficio della direttrice per uscirne dopo tenendola per mano, non so quanto tempo siano rimasti chiusi ma sicuramente molti di più di quanti ne potessi immaginare. Al ritorno da scuola raccontai quanto avvenuto a mia madre e altrettanto feci quando rientrò mio padre, corruccio il viso sentenziano “brutta faccenda”, non disse altro. Sapeva del brutto carattere del padre di Rachid e che la cosa sarebbe durata alle lunghe. Gli chiesi, farai qualche cosa? Vediamo per il momento è meglio attendere.
L’attesa fu breve in pochi attimi si seppe del perché il padre di Rachid era venuto fino alla scuola urlando e imprecando. Voleva vendetta per il fatto che il sasso lanciato da Jasmine aveva reso cieco suo figlio all’occhio colpito. Dicono che aveva un pugno sempre chiuso che stringeva un oggetto perché voleva fare la stessa cosa a Jasmine. Voleva che anche lei perdesse un occhio.
La richiesta del padre era una cosa orribile anche per noi bambini, eravamo stati tutti testimoni di come erano andate le cose e di fatti il giorno dopo la Direttrice si presentò in classe per sapere da chi era stato presente come erano andate le cose. Esordì con…. bene chi era ieri presso la montagnola alzi la mano. Solo quelli che erano presenti la alzarono, gli altri furono fatti uscire e ne entrarono altri dalle altre classi. In tutto saremo stati una ventina.
– Bene disse la Direttrice vorrei sapere e sentire dalle vostre voci come sono andate le cose. Un breve silenzio, poi quasi tutti dissero che si trovavano in quel posto ma non avevano visto niente perché erano girati o si trovavano dietro la montagnola o troppo distanti per poter testimoniare. Solo io e Mohy confermammo la versione di come erano andate le cose. Fu un vero interrogatorio, più volte mi fu chiesto di iniziare nuovamente a raccontare quanto avvenne.
Uscita la Direttrice mi girai verso i compagni dandogli dei bugiardi, come potevano aver fatto questo. Anche Moy il giorno dopo ritrattò dicendo che si era confuso e che non ricordava bene. Gli chiesi perché aveva cambiato versione, diventò rosso in volto per poi rispondermi che ero io che avevo visto male e che lo avevo coinvolto a testimoniare e sostenere la mia versione. Lo sanno tutti che ti piace Jasmine. Mi irrigidii la rabbia mi saliva dentro, ma se avessi risposto ne sarebbe venuta fuori un’altra discussione che avrebbe peggiorato la posizione di Jasmine.
Ma io non avevo mentito, ero dispiaciuto al punto che non riuscivo a seguire la lezione. Fui richiamato più volte dall’insegnante. Si accorse della mia distrazione, mi domandò se sapevo rispondere a quello che aveva detto. Rimasi in silenzio, non riuscivo a seguire la lezione. Il mio sguardo era diretto verso il banco vuoto di Jasmine e pensavo quanto male si sentiva per quanto era accaduto. In lontananza sentivo come se qualcuno mi chiamasse, ci volle poco per destarmi era la voce dell’insegnante che fece schioccare la sua bacchetta sul banco. Dinesh….. sei dei nostri o sei altrove?
– Se non vuoi una nota da far firmare ai tuoi genitori ti conviene seguire la lezione.
La preside mi convocò nel suo ufficio, mi fece restare in piedi anche se davanti alla sua scrivania c’era una sedia.
Dinesh! Perché ti ostini a raccontare dei fatti che il tuo amico Moy a negato di essere avvenuti come stai raccontando.
Tenevo lo sguardo in basso, osservavo le punte delle mie scarpe, stetti in silenzio. Alzai il mio volto e guardai la direttrice negli occhi. Non sto mentendo, le cose sono andate come vi ho raccontato. La direttrice mi rispose che il mio atteggiamento era insolente che ne avrei potuto avere agli esami, un cattivo voto in condotta e che i risultati nelle altre materie erano scarsi e mi avrebbe impedito di passare l’anno scolastico.
La sera raccontai a mio padre del mio malessere e quanto la preside mi aveva detto. Mio padre, mi spiego il motivo e che non mi dovevo fare meraviglia. Vedi …. I genitori di quei tuoi compagni la maggior parte lavorano per il padre di Rachid e se avessero raccontato come fossero realmente andate le cose non li avrebbe mai più chiamati per lavorare. Altri preferivano starne fuori per non esporsi per non avere seccature.
Allora anche io ho sbagliato, dovevo fare come i miei compagni negare quello che avevo visto. No tu hai fatto bene, hai detto la verità e questo ti fa onore.
Non mi recai più nel piazzale. Passavo il tempo a lucidare le cromature della moto. La nonna mi diceva sorridendo che l’avrei consumata a forza di lucidarla. Provai a metterla in moto ma il mio peso non era sufficiente, a malapena la leva si spostava di pochi centimetri.
L’indomani mattina mio padre mi accompagnò a scuola. Si fermò prima della staccionata, restò li fino a quando passò la direttrice. Aveva intravisto mio padre ma fece finta di non vederlo. Mio padre con voce calma prima che entrasse nel suo ufficio la salutò. Buongiorno! Non potette ignorare il saluto, si giro e replico, buongiorno anche a lei.
Mio padre restò ancora alcuni attimi, alzò la mano mi sorrise per salutarmi.
Sicuramente la direttrice temeva il padre di Rachid e voleva chiudere al più presto questa storia prima che arrivasse al provviderato .
IL SILENZI0
Quanto avvenuto ormai era diventato l’argomento di maggiore interesse, pettegolezzi giudizi precipitosi a favore o contro sta di fatto che la sera davanti a una candela non si parlava d’altro.
Avevamo poche notizie da parte del fratello più piccolo di Rachid, ma dal momento che nessuno mi parlava, cercavo di carpire quel poco che riuscivo a sentire, la situazione non era affatto messa bene. Quello che più impressionava era la reazione violenta del padre di Rachid, la sua sete di vendetta divideva le famiglie, c’era chi era per una punizione esemplare e chi era d’accordo per la vendetta. Il tutto aveva causato una spaccatura. Ai bambini era stato dato ordine categorico di non parlare. Anche i rapporti in classe non erano più come prima, a malapena ci si salutava. Di Rachid si sapeva che aveva un occhio bendato e diceva che era stata Jasmine a causare la lite rifiutandosi di restituirgli l’oggetto che aveva perso. Ma quando uno degli insegnati lo ha andò a visitare e gli chiese di quale oggetto si trattava, iniziò a piangere ed a urlare senza rispondere alla domanda, in più diceva che chiunque avesse raccontato una versione differente dalla sua era un bugiardo.
La direttrice mi chiamo nel suo ufficio, guardandomi negli occhi mi fece una sola domanda. – Non voglio che mi racconti nuovamente la storia, voglio solo sapere se le cose sono andate come hai detto. Pensaci un attimo poi rispondimi. – Confermai quanto avevo raccontato più volte.
Ci rimasi male nel sapere che i miei compagni negavano di aver assistito a quella discussione. La loro testimonianza non avrebbe comunque giustificato la reazione di Jasmine ma ne avrebbe attenuato la responsabilità del gesto. Tutti avevano subito e assistito alla rissosità di Rachid e delle brutte parole che aveva pronunciato.
Dopo la scuola passavo a casa di Jasmine per portarle i compiti, e prendere gli scritti per portarli all’insegnate per le correzioni.
Era triste, cercavo di strapparle un sorriso ma quanto stava avvenendo glie lo aveva tolto.
La direttrice il giorno dopo chiamò il padre di Rachid nel suo ufficio. Qualcuno che si trovava nelle vicinanza, riuscì a sentìre delle urla e lo videro uscire sbattendo la porta. Per poi dirigersi verso la casa di Jasmine. I due si incontrarono faccia a faccia, il padre di Rachid diceva che le avrebbe accecato un occhio e che era la sua decisione irrevocabile. Il padre di Jasmine ripose che non era quello il modo di fare giustizia e che avrebbe dato una punizione esemplare, che lo avrebbe risarcito con del danaro appena avesse venduto le sue mucche ma che non avrebbe mai concesso quella forma di rivalsa. Gli dispiaceva come padre ma riteneva il fatto dovuto alla fatalità e non alla volontà di causare quella ferita. E che lo avrebbe dovuto portare da un medico se non altro per medicargli la ferita. La risposta restò invariata, non ci sarebbero state mucche o soldi che avrebbero chiuso quella ferita. Alla prima occasione avrebbe portato a termina la sua vendetta agitando sempre un pugno chiuso minacciosamente.
Mio padre lo definiva un agitato, ma che non andava sottovalutato proprio perché aveva l’abidutine di serbare rancore e mantenere fede alle sue minacce.
Dopo la scuola una volta a casa fatto i compiti, ripassata la lezione passavo il tempo a guardare la moto. Mio padre mi arrivo da dietro e pose una mano su una spalla. Ti piace? Si è bella. Quando pensi che potrò guidarla?
Mi rispose che prima avrei dovuto imparare ad andare bene in bicicletta, avere il senso del’ equilibrio dosare la velocita per poi sterzare, saper dare potenza e ridurla per evitare di finire in un fosso e che il mio corpo doveva essere un tutt’uno con la moto. Mi promise che come avevano finito di asfaltare la strada mi avrebbe comprato la bicicletta
LA CENA
Cenammo in silenzio, alla fine aiutai a sparecchiare, mia madre si rivolse a mio padre: hai saputo della discussione?
– Si.
– Come andrà a finire secondo te.
– Difficile saperne gli esiti, siamo lontani dalla città, ci siamo sempre risolti i problemi da soli, quando una mucca sconfinava o si discuteva per un confine o per futili motivi ci si minacciava ma al massimo si dava fuoco a un covone di fieno o si deviava il canale che portava l’acqua nelle risaie. Mio padre si sedette, aprì il giornale ma non riuscì a leggerlo, lo richiuse lasciandolo a terra. Uscì e andò a spengere la moto, non era mai successo prima. Rientrò dando la buonanotte.
Non è che non ci fossero state discussioni o liti in passato ma il tempo fino a quell’episodio aveva quasi sempre annullato le diaspore nella nostra comunità. Questa volta ci trovavamo davanti all’ignoranza, la sete di vendetta di una persona che viveva di prepotenze. Questa situazione comportò il fatto che il padre di Jasmine doveva restare nelle vicinanze di casa per evitare che fosse attuato quel folle gesto di vendetta. Le mucche avevano mangiato tutta l’erba che era nei pressi della casa, muggivano in continuazione perché avevano fame. Il fratello era troppo piccolo. La situazione che si era innescata impediva anche a lui di frequentare la scuola. La sua giovane non gli permetteva di avere le forze per condurle in altri pascoli per poi riportarle al tramonto. I pascoli si trovavano al di là delle risaie. Mio padre quando rientrò a casa passo alla casa di Jasmine e si fermo a parlare con il padre, visto la situazione lo invitò a prendere il cibo per le mucche dal suo fienile.
– La risposta fu che non era in condizione di poterglielo pagare. Mio padre gli rispose di non preoccuparsi. Lo poteva rendere quando avrebbe venduto le bestie. La madre di Jasmine e il fratello andavano al di là della risaia a raccogliere l’erba che trasportavano su di una cariola, questo comportava tanti viaggi faticosi lungo i sentieri nelle risaie. Se non altro le mucche smisero di muggire. Ogni giorno andavo a portare i compiti e ogni giorno la trovavo sempre più triste. Quando entrai nella sua stanza la trovai rannicchiata nel suo letto, non diceva una parola, non aprì neanche gli occhi, se ne stette li ferma come se dormisse. Mi avvicinai le dissi che le volevo bene e che le sarei restato sempre amico e che mai l’avrei tradita.
Ti ho portato un pezzo di dolce che ha fatto la nonna, mi ha detto che lo ha fatto speciale apposta per te. Aprì leggermente gli occhi per poi richiuderli. Perché non lo assaggi?
– Non adesso, lascialo li sul tavolo e ringrazia la nonna. I miei genitori mi hanno detto che sono sicuri che la cosa si risolverà presto. Bisogna solo aspettare che passi un poco di tempo. Ma le cose non andavano come pensavo. Il padre di Rachid era sempre più furioso e si faceva sempre più minaccioso, a chiunque gli balenava per la testa di calmarlo, mostrava i pugni e gli urlava in volto che se non volevano che gli facesse quello che aveva subito suo figlio si dovevano fare gli affari loro. Era deciso come non mai a portare al termine la sua vendetta.
I LAVORI
I lavori della strada stavano arrivando presso la nostra casa, un ingegnere con una specie di binocolo dava istruzioni ad un altro che teneva una stecca con dei segni dove si doveva spostare, altri piantavano dei paletti e il rumore delle ruspe si sentiva sempre più vicino. In lontananza i pali erano già alti in attesa che i fili elettrici li unissero tra di loro. A cena ci sedemmo a tavola e mentre mangiavamo mio padre mi fece notare che non avevo mai chiesto cosa fossero andati a fare in città. Si volevo chiedertelo ma quello che era successo mi impediva di fare quelle domande. Dai raccontami. Bene…. siamo andati all’ufficio dell’elettricità, abbiamo firmato il contratto, poi siamo andati all’ ufficio dei telefoni. Esordii strabiliato, per me la luce era già un grande evento, il telefono non me lo sarei mai aspettato. Ma dove troviamo i soldi? Abbiamo chiesto un prestito alla banca, con la luce potrò lavorare anche la sera e non dovrò più accendere la moto, poi con il telefono potrò vendere il mio raccolto senza dover aspettare la fiera. E poi, mia madre si era recata in uno di questi negozi che vendono apparecchiature per la casa, cucine, lavatrici, televisori e tutto quanto può rendere la vita più comoda. Lo sai cosa ha voluto la mamma?
– Dai dimmelo, inizialmente voleva la lavatrice per poi cambiare idea con il televisore. Il televisore! Si il televisore. Ma non era meglio la lavatrice, almeno la nonna non deve più stare con le mani a mollo per lavare i panni. Si hai ragione, ma se noi acquistiamo la lavatrice o qualsiasi altro elettrodomestico, la nonna si sentirebbe inutile, a lei piace fare questi lavori, lavare i panni, impastare la farina, sbattere le uova, sono cose che lei ha sempre fatto a mano e se noi glie lo impediamo lei si sentirebbe inutile. Ma vedrai ci vorrà poco tempo e sarà la nonna a chiederci la lavatrice per guardare la televisione. Ogni cosa al suo tempo. Mia madre si era fatta uno scatolone di cartone delle stesse misure del televisore che voleva acquistare.
Vi aveva disegnato su di un lato lo schermo e aveva messo due grossi bottoni come se fossero le manopole, non faceva altro che spostarlo da una parte a l’altra della sala dove pranzavamo. Ora qui ora la. Una volta posizionato si sedeva e lo guardava come se ci fosse l’immagine, per poi dopo poco riprenderlo per ripetere le stesse operazioni. Io e mio padre la osservavamo guardandoci e ridendo per tutti quei spostamenti. La nonna ogni tanto si sedeva a fianco e commentava; forse la sta meglio.
Nei momenti di riposo mio padre iniziava predisporre le prese della corrente, una vera rivoluzione. Su ogni parete dei segni con il gesso dove dovevano passare i fili per gli interruttori e per la luce dal soffitto, e come portare i fili da una stanza all’altra. Lo seguivo passo dopo passo , ero eccitatissimo, gesso, cacciavite, martello, chiodi, il metro, di nuovo il gesso. Ci vollero un paio di giorni per completare dove sarebbero passati i fili e le relative prese. Mio padre era veramente bravo, come la nonna sapeva fare tutto. Anche se la nonna non ne volle sentire parlare di avere la luce nella sua stanza. Era all’antica si faceva il sapone da sola e aveva sempre una risposta a tutto.
L’ URLO
Mentre guardavamo i segni e le tracce del lavoro fatto, arrivò dalla strada un urlo. Ci precipitammo nella veranda, c’era il padre di Rachid che lanciava delle pietre verso la casa di Jasmine. Urlava, non finisce qui, sappi che otterrò quello che voglio, mio figlio e cieco e tua figlia dovrà pagare per quello che ha fatto, maledetti urlava, seguitando a lanciare pietre. A quelle urla uscii per vedere cosa stava avvenendo, il padre di Rachid si girò verso di me urlandomi che ce ne sarebbe stato anche per me, restai immobile sentii mio padre arrivare dietro di me che mi disse di entrare in casa. Mio padre gli andò incontro, gli si parò davanti dicendogli che doveva smettere e che lui non tollerava quel modo aggressivo pieno di violenza che non avrebbe portato alla soluzione ma all’odio perenne. La reazione di mio padre fu così energica che il padre di Rachid se ne andò senza neanche girarsi. Era la prima volta che non reagiva a chi gli faceva notare che era fuori da ogni logica la sua sete di vendetta. Mia madre aveva seguito tutto dalla finestra mentre stava mettendo in ordine le carte dei contratti. Scuoteva la testa, le veniva da piangere. Sussurrava che questa storia non sarebbe finita mai, che il padre di Rachid era un arrabbiato che non sentiva ragione, che non usava il cuore o la testa ma la stupidità.
Si asciugo le lacrime per riprendere a mettere ordine alle carte di quando era stata in città, si trovo in mano un foglietto di un politico che proprio quel giorno era in visita nella città insieme ad un medico di quelli senza frontiere in visita nell’ospedale. Mia madre aveva sempre lamentato il fatto che il padre non avesse mai portato il figlio da un dottore per curare e visitarlo. Come aveva detto più volte mio padre “era uno sciocco ostinato che vedeva le cose solo dai suoi occhi e che le orecchie non le utilizzava”. Mia madre mi chiamò e mi disse, porta questo foglietto al padre di Jasmine. Lo lessi e mi precipitai verso la casa, il padre era in piedi e andava avanti e indietro. Mia madre mi ha detto di darle questo foglio, mi ha detto che deve andare assolutamente in città. Solo con un controllo medico e l’intervento di quel politico si sarebbe conclusa questa faccenda. Lo lesse attentamente, entrò in casa, sentivo che parlava con la moglie, uscì infilandosi un giubbotto, mi seguì fino a casa, entrò e parlò con mia madre. Mia madre lo supplico di credere in quel foglio e quelle persone. Devi andare non perdere questa opportunità. Gli rispose che sarebbe andato sulla strada sperando che la corriera passasse. In quel momento entrò mio padre chiese cosa stava succedendo. Mia madre gli fece leggere il foglio. Mio padre si illuminò, vieni vieni con me, si diressero verso il covone di fieno. Prendi vai con la moto, ma mi raccomando cerca di tornare prima che sia buio, il faro non ha la lampadina. Riempì il serbatoio fino all’orlo, dette una botta secca e il motore partì all’istante. Vai sbrigati, torna con una buona notizia, falli venire. Dette un paio di accelerate quel tanto che serviva per portare in temperatura la moto, abbasso il cavalletto e sollevando una nuvola di polvere lo seguimmo con lo sguardo fino a quando il silenzio riprese possesso delle nostre orecchie. Non ci restava altro che attendere. Quella mitica Royal Enfield avrebbe cambiato i destini di tante persone.
Mio padre andava avanti e indietro aprendo cassetti e sistemando alcuni oggetti, questo suo muoversi non era altro che un modo di mascherare la tensione di vedere ritornare il padre di Jasmine. Di tanto in tanto osservava dalla finestra se stava ritornando. I tempi erano quelli che ci voleva per andare e tornare, più i tempi per raccontare quanto era avvenuto, dai miei calcoli più o meno tra venti trenta minuti doveva essere di ritorno. Il sole stava calando ma avremo avuto ancora due ore di luce prima dell’imbrunire. Me ne stavo seduto braccia conserte sotto a veranda, sentivo alle mie spalle il rumore dei trattori che spianavano la terra ma non mi girai, non mi potevo distrarre, il mio sguardo e le mie orecchie erano fisse verso la strada che avrebbe riportato indietro il padre di Jasmine.
IL RITORNO
In lontananza si inizio a sentire un ronzio, veniva e spariva, erano le folate di vento che ogni tanto lo cancellavano. Mi alzai per vederci meglio e cercavo di essere sicuro che quel rumore non poteva essere altro che la moto che ritornava. Si …. All’orizzonte apparve controluce la sagoma della moto con il padre di Jasmine, e poco più dietro una nuvola di polvere più grande e alta lo seguiva una di quelle auto speciali fatta appositamente per strade difficili come la nostra. Mi misi a correre verso il prato dove c’era la montagnola, poco più avanti c’era l’incrocio e più avanti la deviazione verso la casa di Rachid. Arrivai senza fiato, misi le mani sulle ginocchia respirando affannosamente. La moto si fermo pochi metri più avanti.
Il padre di Jasmine indicò al signore che si trovava a fianco del conducente dove si doveva dirigere. Quel signore era certamente il politico lo si poteva dedurre dal’ abito grigio scuro camicia bianca e cravatta. l’altro il medico di senza frontiere
Lo si poteva dedurre dalla sua uniforme e come era riportato su di uno sportello dell’auto. La scritta e una croce rossa al suo centro. L’auto girò sollevando una nuvola di polvere, il padre di Jasmine mi vide in lontananza si diresse verso di me e mi fece salire dietro di lui per riportare la moto sotto la tettoia. Mio padre era fuori in attesa, mi disse di rientrare in casa, voleva stare solo con il padre di Jasmine per farsi raccontare come erano andate le cose. Da dietro la finestra riuscivo a sentire quello che si dicevano, mio padre gli chiese come mai non era andato anche lui nella casa di Rachid ? Gli rispose che il politico gli aveva consigliato di andare a casa e attendere per non complicare la situazione. Era molto teso, si stropicciava le mani e se le passava sul volto come volersi asciugare le lacrime, mio padre gli pose una mano sulla spalla sussurandogli che era stata fatta la cosa giusta e che tutto sarebbe rientrato nella normalità. Mi spostai in un’altra stanza da dove potevo vedere la montagnola in attesa di rivedere l’auto dei medici senza frontiere. Mio padre era rientrato per seguitare i lavori dell’impianto elettrico, ora ogni stanza aveva un suo interruttore e la luce nei soffitti. Stava facendo in modo di finirlo in tempo per l’allaccio. Era questione di uno o due giorni e i pali sarebbero stati posizionati davanti alla nostra casa, il fondo di sassi e terra era stata spianata, restava solo la stesura dell’asfalto che lo avrebbero fatto il giorno dopo se non prima. Dietro la montagnola appare la sagoma dell’auto che si ferma avendo visto il padre di Jasmine sul ciglio della strada. I due signori scendono e vedo le loro mani muoversi con delicatezza come se volessero tranquillizzarlo, gli strinsero la mano risalirono in auto e dal finestrino si vide la mano del conducente salutarlo nuovamente. L’auto si allontanò verso la città, lasciando la consueta nuvola di polvere. Rientro in casa per dire a mio padre che il dottore e il politico sono andati via. Mio padre preferì seguitare a fare il suo lavoro e decise di non andare incontro al padre di Jasmine per sapere cosa gli avessero detto i due signori. Vedrai domani sapremo come sono andate le cose, piuttosto passami quel cacciaviti, la nonna mi chiama perché ha bisogno di acqua, prendo il secchio, esco e mi dirigo verso la pompa per riempirlo. Mentre aziono la leva per far uscire l’acqua scorgo sulla strada il padre e Rachid, con passo frettoloso. Si stanno dirigendo verso la casa di Jasmine, lo tiene per la spalla, non ha più l’occhio coperto da una vistosa fasciatura ma solo un cerotto sopra l’arcata sopraciliare, ho la sensazione che Rachid cerchi di frenare il passo, ma il padre non lo molla e come se lo strattonasse. Supera la nostra casa per fermarsi davanti alla casa. Il padre di Jasmine esce e osserva quanto sta avvenendo. I due si guardano non dicono una parola, il padre di Rachid alza una mano e lo colpisce sul volto con un ceffone, Rachid si porta la mano sul volto e inizia a piagnucolare, io resto senza parole non riesco a muovermi non mi esce un filo di voce, sono impietrito. Il padre di Jasmine anche resta immobile. Il padre di Rachid si dirige verso il padre di Jasmine che fa alcuni passi indietro. Non sa quali siano le intenzioni, nel frattempo il padre di Rachid si accascia ai suoi piedi, sento un pianto con delle parole di perdono. Riesco a riprendermi, apro la porta della cucina gridando …papà, papà vieni vieni presto sta succedendo qualche cosa che non capisco.
Io e mio padre osserviamo senza avvicinarci. Ai piedi del padre di Jasmine seguita il pianto e le suppliche. Il padre di Jasmine si inchina per alzarlo, i due si parlano per poi abbracciarsi. Rachid è rimasto durante tutto questo tempo sul ciglio della strada. Il padre di Jasmine gli fa cenno di avvicinarsi, non si muove, insiste perché si avvicini. Tutti e tre entrano nella casa. Dopo pochi attimi frettolosamente arriva anche la madre di Rachid. Li sentiamo parlare e avvertiamo dei sorrisi, finalmente sembra che la storia sia all’evolversi. Ne avremo saputo di più l’indomani, non era il caso di intromettersi. Il sole sta tramontando, mio padre tutto il tempo mi ha tenuto una mano su di una spalla, alzo lo sguardo e lo vedo sorridere e scuotere leggermente la testa. Mi osserva e mi dice, andiamo dalla moto credo che ci voglia vedere. Ne parlava sempre come se fosse una persona. Chiesi come mai ci teneva tanto, aprì una tasca laterale e ne estrasse una carta geografica di quelle con le strade. Quando la acquistai il proprietario mi disse che con questa moto grazie alla sua affidabilità gli aveva consentito di viaggiare e di conoscere il nostro paese e mi chiese di proseguire quello che lui aveva interrotto. Con tua madre abbiamo mantenuto in parte la promessa, i segni in blu sono di quel signore, quelli in verde quello che abbiamo percorso io e tua madre, questa motocicletta non ci ha mai abbandonato, ci ha sempre portato dove volevamo andare, il suo motore ci faceva sentire la sua gioia mentre i chilometri gli passavano sotto le ruote, una moto saggia che se la sai rispettare non ti tradirà mai. Ora manca un’ultima parte e sarai tu a portarla in questi posti.
– Quando pensi sarà possibile? Quando riuscirai a poggiare le piante dei piedi sul suolo, solo allora potrai guidarla per portare a termine questo fantastico viaggio lasciando che il vento ti accarezzi il volto. Riattacco i fili della corrente al faro, accese il motore, accarezzo il serbatoio. Andiamo la mamma ci sta aspettando per la cena.
Il foglietto che mia madre mi aveva dato per portarlo al padre di Jasmine fu fondamentale, grazie al suo intuito quella brutta storia era arrivata alla conclusione.
Il politico minacciò di chiedere l’intervento della polizia se si fosse rifiutato di far visitare il figlio. Che la sua sete di vendetta appartenevano al medioevo e che solo uno sciocco poteva pensare di attuare una simile vendetta. Il medico tolse la fasciatura che copriva l’occhio offeso, ci volle del tempo, dovette chiedere dell’acqua bollita per ammorbidire la fascia che si era incollata con il sangue, in più la ferita non era mai stata medicata ne mai cambiata la fasciatura il medico dovette costatare che c’era in atto un’infezione ma che l’occhio non aveva subito conseguenze. E che se fosse stato portato in ospedale con un punto non si sarebbe neanche vista la cicatrice.
Rachid piangeva non si voleva far toccare insistendo sul fatto che non riusciva a vedere dal suo occhio.
Il medico si spazientì prese nuovamente degli altri strumenti dalla sua borsa, guardò nuovamente con più attenzione l’occhio, chiese di chiudere nuovamente le finestre per riportare la stanza nel buio. Prese una piccola torcia elettrica per osservare nuovamente l’occhio per poi chiedere come mai se non ci vedeva spostava l’occhio in direzione dei movimenti del suo dito? E come mai quando gli puntava il dito verso la pupilla chiudeva battendola la palpebra? Il silenzio calò nella casa di Rachid, padre madre politico restarono in totale silenzio. Il dottore ripose gli strumenti nella sua borsa, tirò fuori un taccuino inizio a scriverci sopra per prescrivere delle medicine e una pomata che lo avrebbe portato in breve tempo a una totale guarigione, rammentando di cambiare una volta al giorno il cerotto e di assicurarsi che l’infezione non progredisse.
Tutto ritornò come prima, a scuola nessuno parlò mai di quanto era successo. Quando Jasmine entrò in classe tutti le offrirono il posto al loro fianco. Si diresse al suo banco si sedette e la sua schiena era dritta come un bamboo posò la cartella sul banco ne estrasse i libri e i quaderni girando leggermente la testa verso i compagni apostrofando un delicato sorriso, fece altrettanto quando poco dopo entrò Rachid. Eravamo tutti contenti del buon esito di questa storia che ci aveva fatto diventare un poco più grandi. L’anno scolastico si stava concludendo e sapevo che le vacanze avrebbero fatto dimenticare questo episodio. Pare che anche il padre di Rachid cambiò atteggiamento e che usasse di più le parole e meno le mani.
LA STRADA
L’asfalto era arrivato davanti alla nostra casa, da un lato il manto nero con quello che sarebbe stato il cambiamento. Dall’altro il nostro passato, fatto di quello che era ancora per poco una strada polverosa che per anni ci aveva uniti o divisi in base agli eventi climatici. La montagnola non c’era più ne restava un cerchio, ogni tanto un mulinello di vento alzava della polvere. In un cespuglio alcuni pezzi di carta di quello che restava del mio aquilone, raccolsi il legno che avvolgeva lo spago per gettarlo lontano. A breve la pioggia e l’erba avrebbe definitivamente cancellato quel ricordo. Avevo finito il libro e ne dedussi che i bambini desiderano le stese cose ma a volte i sogni non si riescono realizzare, avevamo perso una grande opportunità, eravamo cresciuti troppo in fretta.
I pali della luce erano legati tra di loro con dei fili di rame a loro volta portati verso le case. La sera si vedevano tanti punti luminosi. La strada sarebbe stata percorribile in tutte le stagioni, la polvere che si sollevava sarebbe stata sostituita dal rumore delle auto e dei camion. Mi sarei fermato ad osservare il passaggio da una direzione e l’altra e a contare quante ne sarebbero transitate. Mi guardai intorno alzai lo sguardo verso i fili di rame che entravano dentro casa, sentivo la voce di mio padre al telefono, mia madre e la nonna se ne stavano inchiodate davanti al televisore, ogni tanto si alzavano per mandare avanti i lavori domestici, una volta conclusi si posizionavano nuovamente davanti al televisore restando a bocca aperta, era come se avessero ospiti in casa.
La nonna aveva posizionato dei vasi di fiori intorno alla pompa dell’acqua, mio padre la voleva togliere dal momento che un motore elettrico provvedeva a portarla nella casa. Tante cose erano avvenute in poco tempo e tante altre ne sarebbero avvenute. Mi misi a pensare a tutto quello che era accaduto, l’aquilone, la montagnola la lite e il rifiuto dei miei compagni di raccontare quanto era avvenuto, la follia del padre di Rachid la strada la luce che avrebbe cambiato la nostra vita dentro e fuori della casa e chissà quanti cambiamenti avrebbero portato tutte queste novità. Il padre di Jasmine venne a salutarci per annunciarci che si sarebbe trasferito con la famiglia, aveva avuto una proposta di lavoro in una fattoria al nord. Mio padre gli disse che tutto si era risolto e non vedeva il motivo di andare via. Spiegò che era una decisione già presa e che avrebbe migliorato la sua vita e avrebbe permesso gli studi ai suoi figli. A causa di quanto era successo ne aveva rinviato la partenza, si era giustificato presso la nuova azienda chiedendo di far terminare ai suoi figli di ultimare l’anno scolastico. Ma il motivo principale era per quanto avvenuto, se fosse andato via sarebbe apparsa come una fuga. Ora che tutto si era chiarito si potevano trasferire. Ci ringrazio, se capitate al nord venite a trovarci. Jasmine mi venne a salutare, dicendomi; non mi scorderò mai di te, grazie sei stato un vero amico. Le chiesi se avrebbe fatto il medico dei bambini, mi rispose di si a qualsiasi costo.
– E te? Vuoi sempre fare l’ingegnere aereonautico.
– Non lo so forse resterò, se sono qui è grazie a mio padre e mia madre. Jasmine mi si avvicinò e mi dette un bacio su una guancia, restai impietrito credo che il mio volto si colorò di rosso, il cuore mi battè forte. Ciao fu l’unica parola che mi riuscì di dirle, prima di salire si girò e mi salutò nuovamente.
L’auto partì senza alzare nessuna polvere, la segui pedalando sulla mia bicicletta per un breve tratto riuscii a seguirla fino a quando non ebbi più fiato e l’auto scomparve dietro la prima curva. Restai alcuni attimi accasciato sul manubrio respirando a bocca aperta, non avevo più fiato. Alzai lo sguardo e davanti a me c’era solo l’asfalto .
Mi diressi verso la moto, misi dell’acqua con del detersivo nella vaschetta e con una spugna iniziai a pulirla, passai della pasta speciale sulle cromature che con i raggi del sole spendevano che era una bellezza, ti ci potevi specchiare. Aprii la tasca laterale, al suo interno c’erano dei ferri, la richiusi e aprii l’altra dove ne tirai fuori una guida stradale che mi aveva fatto vedere mio padre, c’era anche un libretto con al suo interno degli appunti e tante date. Inizia a leggerlo e ad ogni capitolo c’era il nome di una città, non mi fu difficile ricostruire il percorso che aveva effettuato quella moto perché anche sulla guida stradale c’erano dei segni e una linea che congiungeva la città di partenza a quella di arrivo e sottolineate le varie soste che aveva fatto. Nel libro diario c’era scritto il resto, cosa avevano visitato come era stato il tempo e le varie problematiche che avevano dovuto affrontare, veramente poche, quella moto era stata sempre perfetta non li aveva mai abbandonati. Ci salii sopra, mi infilai gli occhiali quelli speciali da moto che ti permettono di proteggerli e vederci anche di lato.
Afferrai il manubrio, lo strinsi fortemente con le mie dita e inizia a dare gas.
Con le labbra imitavo rumore del motore, mi spinsi in avanti come voler sentire il vento che mi attraversava i capelli e il volto, mi inclinavo ora da un lato ora dall’altro come se affrontassi delle curve, il mio sguardo disegnava la strada davanti ai miei occhi quando, sentii la voce di mia nonna che mi chiamava.
Correvo sempre quando mi chiamava, le sue carezze mi aiutavano a crescere.
Mi sfilai gli occhiali, con una mano accarezzai il serbatoio, lascia le dita scivolare sulla scritta Royal Enfield . Prima di scendere provai ad appoggiare i piedi in terra, mi accorsi che con le punte la toccavo.
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3 risposte
bel racconto, ti prende e vuoi sapere come finira’. hai descritto la famiglia ideale tutto comprensione e amore di fronte ad mondo di menzogne e soprusi. Per fortuna il bene trionfa!
Grazie Paolo per averlo letto, i miei racconti sono pura fantasia, sono brevi perchè li scrivo come se fossero delle sceneggiature. Il mio sogno è sempre stato di fare il regista e fare film di pensiero dove non c’erano botti o inutili effetti speciali. La vita la quotidianità. Questa storia non poteva essere ambientata ovunque. L’elemento principale è la moto e una moto in particolare. E il nostro protagonista che non vede il momento di crescere per poterla guidare. Un adulto maturo .
Mi piaccione le tue foto, più che osservarle le leggo.
ciao eddi
Wow!
Che dire?
Che mi ha fatto piangere? L’ho letto tutto di un fiato, all’inizio non capendo che si trattasse
di un racconto non autobiografico… Molto ben fatto! Complimenti, scrivi che é un piacere leggerti…
Nessuna foto della motocicletta? Che modello?…