Decamerone di Capodanno

Decamerone di Capodanno
Pandemia. Covid. Quarantena. Arresti domiciliari.
Serpeggia una paranoia diversa rispetto a quella della scorsa primavera. Quella di questa fase due mi sembra più diffusa e cosciente. Lucida, no. Non me la sento di definirla tale.
Dato di fatto è questo isolamento che ci relega dentro noi stessi a far di conto con desideri e voglie che sembravano ovvii. Un abbraccio. Una girata senza meta da una qualsiasi parte. Un autobus o un treno. Un tavolino di bar dove socializzare con un emerito ma interessante sconosciuto. Una sconosciuta, poi: ancora più intrigante e rischioso.
Quello che era semplice corollario del nostro tempo non trova più lo spazio dovutogli.
I giorni e i luoghi si sono andati colorando di giallo, arancio e rosso spinti dalle statistiche che ci hanno sciorinato.
Cupezza che non so riconoscere mia, ma concreta al fondo delle giornate. Costante e adesso esaltata da questo clima fasullo di feste, già di per sé fasulle, che ci troviamo ad affrontare.
E’ il 31 sera e lo vivrò solo, tra le mura di casa inventandomi un piatto di ravioli al burro e un bicchiere di Cabernet Franc.
Ripenso a quanti fossimo intorno al tavolo lo scorso anno: il camino acceso, le lenticchie, il cotechino, antipasti vari e l’immancabile dolce. Come tutti gli anni, passando dal desco paterno a quello con gli amici, risate e botti di capodanno.
Quest’anno no. Ma ci fu un altro capodanno di solitudine mi viene in mente.
Sarà stato il 75 o il 76 e io dovevo fare una delle mie abituali puntate in India per comprare stoffe che all’epoca importavo. Avevo pensato bene di far coincidere la partenza con la data del 31 dicembre così da risparmiarmi feste e gozzoviglie.
Partii da Fiumicino verso le 12 e constatai che avrei passato la mezzanotte in volo su qualche deserto della penisola araba.
Il solito ultimo sedile per me e giusto il tempo di un drink, andavo a Martini all’epoca, e aprii il libro che mi ero portato dietro: Russell, Storia delle idee del secolo XIX. Non propriamente un romanzetto ma ero già oltre la metà quando fui distolto da uno steward, era una compagnia del golfo, che cortesemente mi pregava di spostarmi nei sedili subito davanti. Mentre muovevo bagagli e sedere si fecero avanti una bellissima ragazza dai tratti scuri accompagnata da un grosso arabo in Djellaba da ricco.
Ridevano tra loro e lo steward si affretto a stappare una bottiglia di champagne che offrirono anche a me quasi a scusarsi del cambio di posto.
Fin qui tutto normale se non fosse stato per i tentativi reiterati dell’arabo che cercava di allungare le mani sulla fanciulla evidentemente mezza europea e piuttosto giovane. La spalliera del mio sedile era oggetti di ginocchiate e spinte che non mi lasciavano più scorrere i pensieri del filosofo inglese. Qualche accenno di rimostranza da parte mia ma poi decisi di dargliela vinta e traslocai qualche fila più avanti. La ragazza dopo un po’ fece lo stesso: champagne sprecato.
All’arrivo a Bombay la solita fila per i passaporti, qualcuno si scambiava i fatidici “Happy new year” e dietro me la ragazza del volo si guardava intorno spaesata.
“First time in Bombay” le domandai sorridendo.
“Yes.” Rispose.
Era veramente bella con grandi occhi che definirei più neri del nero, i capelli raccolti sulla nuca e uno zaino da hippie ai piedi.
“Hai riservato qualche albergo?”, domandai ancora. Scosse il capo.
“Sai già dove andare?” Al suo nuovo scuotere la testa, da educato viaggiatore di mondo le proposi di andare insieme al mio albergo che era in centro.
Quando fummo lì ci fu il divertente episodio del saluto pieno di calore del receptionist che mi conosceva da anni e che si aprì in un ampio sorriso: “Mister Cino! Well comeback!” Poi prese il mio passaporto su cui era scritto un nome diverso per via di una denuncia che in India pendeva sul mio capo e che mi aveva convinto a fare quel cambio di nome. Non batté ciglio ma poi ci comunicò che purtroppo non avrebbe potuto dare ospitalità alla signorina di cui teneva in mano il documento. Era francese. Di origine algerine scoprii più avanti.
Il mio solito appartamento al di sotto della terrazza era stato riservato come da mio telegramma ma tutto il resto era full. Non poteva aiutarci. A meno che la signorina non avesse accettato che si mettesse un altro letto nell’ampio salone della mia suite.
Guardai interrogativamente la ragazza che si disse d’accordo.
In camera le lascia agio di usare il bagno e io feci una doccia veloce nell’altro bagno che era sul piano.
Rinfrescati e cambiati d’abito le chiesi se avesse programmi o volesse venire a cena con me.
Con un taxi ce ne andammo al Regent, saranno state le 20, e dopo una splendida cena in cui io facevo da anfitrione e lei mi raccontava di come si era organizzata quel suo viaggio in India che tanto la incuriosiva dopo aver lavorato a lungo in un grande magazzino di scarpe a Parigi, ci fu il momento di chiederle se voleva un taxi per tornare in albergo o volesse venire con me da Rashid nella mia abituale fumeria d’oppio.
“Mai fumato oppio?” No. Non lo aveva mai fatto ma l’idea le piaceva e così altro taxi e altri abbracci festosi del mio grasso amico indiana.
La frenai quando dopo le prime pipe veniva dietro al mio ritmo di affezionato degustatore di coppette calde e ben lavorate. Non era il caso strfacesse alla prima volta.
Fuori di lì si cominciava a sentire l’intensificarsi dei botti sparati nelle strade. Si avvicinava la mezzanotte e immaginavo che gli indiani avrebbero fatto una gran festa.
Una volta fuori presi una carrozza e lascia che ci portare il passo lento del cavallo tra le luci dei ristoranti, i suoni che venivano da ogni dove e i razzi che esplodevano in cielo multicolore uno dopo l’altro. Dovemmo fare una sosta perché il viso dell’algerina mi segnalava che stata avendo problemi di stomaco così le sostenni la fronte mentre con la complicità dell’oppio si liberava della cena.
Proseguimmo fino all’albergo ridendo degli indiani sbronzi come pigne che dovevamo respingere dalla nostra vettura.
Sbronzi anche noi due ma di stanchezza soprattutto così entrati in camera, io in sleep e lei in mutandine e canottiera ci infilammo nell’enorme lettone al centro della stanza crollando addormentati.
Al mattino ci svegliò la colazione su due vassoi zeppi di meraviglie e dopo una doccia e la barba si passò all’istruzione araba perché fu spontaneo trovarsi abbracciati e fare l’amore con una strana dolcezza che pervadeva il momento. La scuola araba contemplava che lei mi facesse conoscere il “Butterfly’s kiss”. Un giochino perverso che le mamme arabe fanno con i bambini sfiorandone la pelle con il battito delle ciglia.
Furono quattro o cinque giorni piacevolissimi in cui lei mi accompagnava talvolta per trattative o acquisti o si perdeva a girare Bombay.
Dovevo andare in Rajasthan per lavoro ma prima di lasciare la fanciulla, diretta a Goa, le diedi un biglietto per una mia amica italiana che viveva lì.
A Goa ci arrivai un paio di settimane dopo e subito incontrai la Nilde, la mia amica di Firenze, che mi disse: “Chi è quella che mi hai mandato a casa? Simpatica. Ma è ancora da me che ti aspetta.”
L’algerina mi accolse con un sorriso e io le diedi una blusa rajasthana che avevo portato con me ma non fui molto più espansivo: avevo tutti altri programmi che non accasarmi a Goa.
Il giorno dopo non era più lì ne l’ho mai rivista. Il nome si è perso nel tempo e la sola cosa che torna è la fuga da un capodanno poi memorabile quanto lo sarà questo del 2020 così fuori dagli schemi che avevamo sempre avuto.
PS: mai finito “Storia delle idee del secolo XIX” e adesso, mezzanotte meno 20 me ne vado a letto. Buon 2021 a tutti.

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