Viva peyote – 9
L’unico edificio costruito in pietra nel villaggio di S.Andres era una massiccia costruzione senza tetto: i resti di una chiesa che costruirono i Gesuiti al seguito dei conquistadores durante una loro breve permanenza su quel remoto altopiano. Tentarono di “civilizzare” gli indios, chissà con quali torture psicologiche, ma non riuscirono nel loro intento e poco dopo abbandonarono il campo e lasciarono gli indios ai loro riti ancestrali. Durante il mio soggiorno presso gli Huicholes ebbi anche la ventura di incontrare due “veri” antropologi. Erano una coppia di svizzeri che arrivarono una mattina, sbarcati dal consueto aereo dell’Istituto Indigenista, con i quali non riuscii ad instaurare che un rapporto formale e imperniato su una reciproca diffidenza.Cap.15 – FantoccioIl giorno dopo al villaggio c’è di nuovo aria di festa. Me ne accorgo già da quando scendo dal mio soppalco in mattinata e trovo la moglie di Angel tutta bardata di collane di conchiglie e perline, con un fazzolettone in testa. Anche le figlie sono parate a festa con tunichette smaglianti di ricami, collanine e, supremo lusso, un paio di sandaletti. Mi salutano con larghi sorrisi e mi comunicano che vanno all'”iglesia”. Chiedo spiegazioni ad Angel che sorseggia un infuso nel patio, mezzo assonnato. Mi spiega che oggi si festeggia un santo di importazione straniera a cui sono devote soprattutto le donne, poichè sperano elargisca beni materiali e soldi. E in quanto è straniero, ha il suo luogo di culto nella chiesa costruita dai gesuiti durante la loro breve permanenza a S.Andres. Prendo la macchina fotografica, la nascondo sotto il camicione e mi avvio. Quando sono ormai alle porte del villaggio incontro Ramon, il marakame cantore, seduto sotto una quercia. Ha in mano un pezzo di legno e lo intaglia con un coltellino con aria assorta. Mi accovaccio davanti a lui e lo saluto. Appena mi riconosce mi sorride con i suoi occhi pieni di luce e mi offre una mela che tiene nella sacca. Prendo coraggio e gli chiedo se posso fotografarlo. Mi sorprende chiedendomi se la mia è una di quelle macchinette che stampano immediatamente l’immagine ripresa. Debbo confessargli che purtroppo la mia non è una Polaroid. “Allora niente foto”. Sono rassegnato a rinunciare, quando una sua richiesta mi riapre alla speranza. “Mi offri una cerveza?” “E tu ti fai fotografare?” Fa il prezioso: “Si, ma solo una foto”. Vado alla tienda per l’acquisto e la trovo brulicante di donne tutte eccitate a fare spese. Torno da Ramon che stappa la lattina, mi ringrazia e subisce docile ripetuti scatti. “E quando me le mostrerai?” mormora. Gli prometto che gliele spedirò da Guadalajara quando le avrò fatte stampare. Poi, sempre con la macchina fotografica pronta, ma occultata sotto gli indumenti, mi addentro tra le capanne. Nel piazzale centrale un gruppo di danzatori siede in attesa accanto ai loro copricapi ornati di piume di gallo e di tacchino posati in terra. Noto i due giovani antropologi occhialuti, taccuino e penna alla mano, in fibrillazione. Per il momento mi tengo alla larga da loro e vado invece a salutare Eusebio che mi informa che tra poco porteranno il santo fuori dalla chiesa. Gruppi di donne siedono in cerchio per terra coi loro fagotti variopinti e accendono mazzi di candele votive intonando flebili cori. Infine parte la musica dei violini e delle chitarre e i danzatori, indossati i copricapi pennuti, cominciano a muoversi. Danzano dapprima in cerchio, poi in file parallele dirigendosi verso la chiesa, seguiti dalla processione delle donne. I due svizzeri gli sono addosso: lui scrive frenetico sul taccuino e lei gli comunica un flusso ininterrotto di dati. Mi avvicino alla coppia curioso del loro lavoro e, quando sono loro accanto, lei mi chiede concitata: “Scusa, quante folte il primo di fila ha saltato su piete sinistro?” “Saltato su piete sinistro? Mah… sette volte… anzi forse cinque?” Insoddisfatta della mia sommaria collaborazione si concentra di nuovo sullo schema dei passi, mentre io mi allontano pensieroso. Ecco, loro sono veri antropologi: meticolosi, precisi, si annotano tutti i dati etnografici… mentre io gironzolo, vago, al massimo scribacchio qualche nota di colore sul mio diariuccio… Però tutte le biblioteche traboccano di dati etnografici su tutti i popoli della terra, ma non basta questo a salvarli dall’oblio, dall’acculturazione, dalla distruzione e dalla scomparsa. In fondo non è importante riportare se durante la danza il povero indio ha saltato sul piede sinistro una volta o due o dieci o mille, fino a farselo diventare gonfio come una zampogna. Ciò che mi interessa è comprendere per quanto tempo ancora potranno danzare, e con quali motivazioni, e se si sentiranno liberi di farlo anche con degli idioti attorno che con una mano gli vendono la Coca-cola e con l’altra si annotano maniaci tutti i passi delle loro coreografie. Giunto nello spiazzo antistante la chiesa mi fermo ad osservarla: il parallelepipedo si alza massiccio e tetro, contrastando col resto delle abitazioni. E’ costruito con larghe pietre squadrate ed è l’unico mancante del tetto. Sul piazzale proseguono per un bel po’ le danze e i canti. All’improvviso, come ad un segnale convenuto, tutto si blocca, un momento di pausa carico di tensione, poi dal portale di granito cominciano ad uscire alcuni officianti. Dietro di loro, sostenuta da un robusto marakame, ecco finalmente spuntare una grossa croce. Aguzzo la vista, poichè appeso alla croce intravedo una specie di fantoccio deforme di cui non decifro la natura. Attendo impietrito dalla sorpresa che la processione mi sfiori per poter osservare più da vicino quell’oggetto misterioso. Ed eccolo, a pochi passi da me, l’orribile grottesco clown, un fantoccio costruito con stracci, pannocchie e vettovaglie varie che mi ricorda uno di quei quadri di Arcimboldo in cui le figure umane sono formate da composizioni di frutta e selvaggina, nature morte che simulano esseri viventi. Dal ventre sformato dell’incongruo pupazzo penzolano lattine di birra, Coca-cola, scatole di biscotti e di sardine… Il sacro che si legge sui volti delle donne, che tendono devote i mazzi delle loro candele accese, stride con quel Cristo profano che avanza solenne ricoperto, quasi soffocato, da quei banali prodotti di consumo, stolido profeta della civiltà dei bianchi. Scatto in disparte qualche foto con lo zoom e mi chiedo se non sia quello il cavallo di Troia con cui gli stranieri sono penetrati fin dentro l’animo religioso di quegli indios, il grimaldello con cui saranno presto scardinate le loro ancestrali tradizioni e le loro secolari credenze. La società dei consumi penetra attraverso mille rivoli, anche i più subdoli, anche attraverso la devozione e i miti gesti di quelle indie che accendono candele e mormorano sommesse litanie. Quando il “santo” viene poggiato in terra le donne si affannano a ricoprirlo di offerte e di candele e restano quindi sedute tutte intorno ad osservare in silenzio quel dio straniero magico e misterioso, signore dell'”uccello-di-ferro” e padrone dell'”acqua nera che frizza”. Con tutte quelle bollicine…!
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i conquistadores. che parola oscena e non posso scordare che quella terra è intrisa di questa parola. i sopraffattori.
Mi piace molto come scrivi.
Complimenti
Stupendo
Cavallo di Troia indeed!
troppo
divertente
…santa coca cola!
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