Viva peyote – 8
Cap.12 – Chiasmo (seconda parte)
Stendo le mie magliette al sole, candide come vele, e appese ai rami, leggermente scosse dalla brezza, mi appaiono come bandiere della purificazione. Cammino svelto e talvolta abbandono il sentiero per addentrarmi tra gli alberi, in una esplorazione via via più introspettiva. Noto come i miei pensieri, che all’inizio erano come scossi, agitati da un incontenibile vortice, ore tendono a regolarizzarsi, a fluire più ritmicamente. Camminando mi sembra di sbrogliare una matassa, passo dopo passo mi sbuccio avvicinandomi sempre più al mio centro. Penetro all’interno del villaggio attraverso le prime capanne. Le facce degli indios sono maschere grottesche di spesso cuoio bruno e i colori dei loro costumi vi si riflettono creandovi effetti caleidoscopici. Sui muri delle capanne le macchie di fuliggine e di grasso si animano, si colorano e si compongono in figure geometriche cangianti, osservando le quali immediatamente comprendo da cosa traggono ispirazione gli Huicholes per i disegni sui loro tessuti e ricami: zig-zag multicolori procedono a onde e si inseguono lungo il muro, fino a sparire proprio sotto il tetto. Riesco a conservarmi abbastanza padrone di me malgrado l’intensità delle visioni sia nuovamente aumentata, così da poter procedere senza suscitare troppa curiosità tra gli indios. Mi siedo sotto una tettoia, appartato, e cerco di essere un testimone occulto. Immobile studio i gesti, i volti, le espressioni, i suoni che mi giungono. La facoltà di percezione e di analisi è così acutizzata e mi rende così sensibile che ad un tratto, sopraffatto dalle sensazioni e dalle emozioni, convinto che tutti mi possano vedere dentro, mi alzo e mi dirigo di nuovo verso l’esterno, verso la natura e gli spazi aperti. Subito fuori dal villaggio, sulla mia strada incontro i ragazzini al campetto di calcio. Resto ad una certa distanza ad osservare immobile il gioco che si svolge dinanzi ai miei occhi: ogni singolo gesto, ogni scatto, ogni pedata sembra potermi svelare la personalità del suo esecutore. I ragazzi corrono dietro al malconcio pallone come una mandria sbandata, ma nel gruppo mi è facile distinguere i singoli caratteri: il prepotente, il timido, il gentile, il leader, l’indifeso… Mi avvicino lentamente ai bordi del campo e rimango come invisibile per alcuni minuti. Poi l’azione si sviluppa nella mia direzione, il gruppo galoppa verso di me e, quando mi sono a pochi passi, il capo branco che spinge innanzi a tutti la palla mi nota, si ferma, stoppa il gioco. Restano tutti immobili e ansimanti ad osservarmi con occhi dilatati. Poi il capo gruppo, con una luce invitante nello sguardo, mi passa la palla. Questa rotola fin sotto i miei piedi. Con gesto automatico la sollevo in palleggio, piede, ginocchio, testa, stupendomi io stesso della mia abilità da foca ammaestrata. Sento l’attenzione intorno a me farsi sempre più viva e penetrante e, come in un lampo, mi attraversa la mente la visione della antiche sfide alla “pelota” degli indios precolombiani, gare in cui la posta finale era la vita o la morte. Anch’io per un attimo sento quel palleggio che sto eseguendo come vitale, come se una mia mossa maldestra potesse compromettere l’assetto stesso dell’universo. Il panico di poter commettere un errore cosmico mi assale all’improvviso. Con uno sforzo più mentale che fisico riesco a toccare in acrobazia per altre due o tre volte lo scalcinato pallone ed infine gli scarico contro il mio sinistro micidiale facendolo volare alto nel cielo. La parabola termina davanti alla linea della porta e la palla, rimbalzando, rotola tra i pali. “Goooal!” gridano festanti i ragazzini, mentre io gioisco come se avessi segnato il goal decisivo del campionato del mondo. Divertito da questa inaspettata esibizione in cui mi sono prodotto, mi allontano chiedendomi se mi avranno preso per un pazzo, o un saltimbanco… e perchè no? Mi addentro nella foresta e mi siedo su di una pietra piatta, a schiena dritta e occhi chiusi, cercando di calmare la mia eccitazione. Mi viene in mente di combinare gli effetti dell’allucinogeno con alcuni esercizi di respirazione yoga che conosco. Inizio adoperando il pollice e l’anulare della mano destra per chiudere e aprire le narici: lascio entrare lentamente l’aria attraverso la narice destra, trattengo per alcuni attimi il respiro, poi svuoto completamente i polmoni attraverso la narice opposta. Quando inspiro, l’aria mi riempie dalle unghie dei piedi alla punta dei capelli e, attraverso il naso, entrano nella mia mente visioni vorticose multicolorate, simili a quelle viste sui tessuti huichol e sui muri delle capanne. Un sottile filo, che è poi il respiro stesso, collega il mio interno all’esterno e ogni volta che inspiro mi pare di riempirmi di materia cosmica, mentre quando espiro ho la sensazione di emettere qualcosa di opposto. E’ come se vivessi in due universi paralleli, simili ma opposti, che si intersecano attraverso il mio respiro. Ecco, divento il confine, ma anche il passaggio, tra materia e antimateria… come un chiasmo, la strettoia della clessidra che lascia fluire il futuro nel passato… Alterno a questo esercizio un’altra tecnica che consiste nell’espirare a scatti l’aria con rapide e ritmiche contrazioni del diaframma. “Kapalabhati” si chiama in sanscrito: purificazione del cranio. Man mano che questa respirazione a mantice cresce, le visioni caleidoscopiche permeano il mio corpo fino all’ultima cellula e mi sento come se dovessi scoppiare da un momento all’altro in mille colori ed espandermi nell’universo fino ai suoi più remoti angoli. Rallento allora il ritmo ed ecco che le visioni prendono forma di cerchi concentrici di gradazioni sempre più intense che ruotano lentamente, non permettendomi però, col loro movimento circolare, di mettere a fuoco il loro profondo centro. E’ come se avessi una micro videocamera installata sotto al cervelletto, all’altezza delle cervicali, e cercassi di inquadrare il canale che attraversa la spina dorsale. Con lievi movimenti del dorso allineo più che posso le vertebre, intensificando il respiro, ed ecco che dal fondo, dal coccige, che riesco per un attimo finalmente ad intravvedere, parte una luce tremenda, accompagnata da un rombo vibrante, che mi sale attraverso il midollo spinale come un fiume in piena, e poi mi esplode nel cervello inondandolo con una corrente di volti e di corpi, come se tutta l’umanità mi scorresse in pochi attimi sotto gli occhi, un’umanità vorticante, fluttuante come un infinito affresco michelangiolesco. Sono sopraffatto da sensazioni di commozione e compassione, poichè sento, in ogni singolo volto di quella corrente che mi attraversa la mente, i dolori e gli affanni di un’intera vita. Sento le lacrime sgorgare dalle mie palpebre socchiuse e rigarmi il volto, e lascio ancora scorrere a lungo quel tormentato fiume di immagini. Poi, all’improvviso, senza che io abbia cambiato posizione o aperto gli occhi, ecco che la scena si trasmuta in un’alta visione: mi ritrovo all’interno di un cristallo, un gioco di specchi crea una rifrazione che moltiplica all’infinito la mia immagine, ed io mi appaio nudo come un verme, peloso, col pisello di fuori, un animale scimmiesco… un uomo. Scoppio a ridere fragorosamente: è questo ciò che mi attende al fondo della mia ricerca, del mio viaggio, della mia avventura mentale? Io che mi specchio in me stesso? E così… nudo… peloso… indifeso? Rido per quanto mi appaio ridicolo e grottesco, ma in questo riso c’è anche accettazione, compassione: si, son fatto così, mi ritrovo così, frutto di Madre Natura. E come avrei dovuto essere, altrimenti? Sono ciò che sono… un peloso chiasmo vivente… carne di cactus, cactus di carne. Riapro gli occhi mentre le convulsioni del riso lentamente si placano. Il paesaggio intorno a me è sempre dolcissimo e rassicurante e si muove leggermente al ritmo del mio respiro. Le tinte del tramonto stanno ormai dorando gli alberi, le rocce, le nuvole… ed io mi accetto.
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w il peyote!!!!
Meraviglioso !
possiamo definirlo un bel trip! ti parlerò in futuro dei funghi magici delle Ande… cugini del Peyote
li ho trovati e sperimentati a Pokara, in Nepal, e a Ko Samui in Thailandia. Confermo che sono ottimi, anche se a S.Francisco mi fecero fare uno dei peggiori bad trip della mia vita. Ce ne abbiamo ancora di cose da raccontare!
e` invidiabile la padronanza descrittiva e la meticolosa traccia impressa nei tuoi ricordi che crea uno scritto tanto piacevolmente scoppiettante…….
certi trip non si dimenticano
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