Viva Peyote -7
Malgrado le reticenze degli Huicholes, che facevano i vaghi, non potevo rassegnarmi al fatto di essere arrivato fin lassù e non poter assaggiare il peyote. Del resto si dice che non sei te a trovare il peyote, ma è lui che trova te. E così successe. La mattina dopo la cerimonia del sacrificio del toro, al risveglio mi ritrovai chiuso a chiave nella casa di Angel, il subgovernador. Dapprima pensai che mi avessero imprigionato per essermi comportato in maniera molesta la notte prima. Ma poi, spinto soprattutto da una sete ardente,dopo aver cercato invano una sola goccia d’acqua all’interno della casa, mi apprestai… ad evadere. L’unica via di fuga era rappresentata da una finestrella che si apriva sulla parete in alto, quasi all’altezza del soffitto. Mi arrampicai su di una panca e mi infilai di testa nel pertugio, divincolandomi come una serpe per scivolare fuori. Mi lasciai quindi cadere nell’orticello sottostante rovinando a terra a faccia in giù, col rischio di spaccarmi l’osso del collo. E qui, con mia grande sorpresa, mi ritrovai faccia a faccia con una famigliola di graziosi boccioli di peyote. Immaginate la felicità con cui andai subito al villaggio a cercare Angel per dargli la notizia. Dapprima protestai con lui per l’ingiusta prigionia in cui pensavo mi avessero costretto, ma lui si scusò vivamente, facendosi pure una bella risata, per il disguido: la sua famiglia non si era accorta della mia presenza in casa, ancora addormentato, ed erano usciti tutti chiudendosi la porta dietro. A quel punto gli dissi della mia scoperta: avevo trovato il peyote. “Ah, si? E dov’è?” “Proprio sotto casa tua!” Prima fa la faccia da pesce in barile, ma infine mi da il permesso di usarlo. E’ fatta!
Cap.12 – Chiasmo (prima parte)
Con la delicatezza di un chirurgo incido il bocciolo proprio sopra la radice, a filo di terra. Ha la consistenza di un cetriolo e si stacca con grande facilità. Me lo rimiro nel palmo della mano, sgocciolante, e mi sembra più piccolo di quando si trovava nel terreno. Lo ripongo su di un fazzoletto che ho steso per terra, prendo tre frecce e le pianto nella ferita aperta della radice. Questo gesto serve come ringraziamento e ad avvertire tutti che su quel punto sboccerà un altro peyote. Ripeto lo stesso rituale per altri due cactus ed infine richiudo il fazzoletto col raccolto. Decido di andarli a mangiare in solitudine alla sorgente, dove porto anche qualche capo di biancheria da lavare. Per fortuna trovo il posto deserto. Faccio un “saluto al sole”, esercizio di yoga propiziatorio, poi mi siedo a gambe incrociate, apro il fazzoletto e comincio a tagliare il peyote. Quindi comincio a masticare il primo pezzo. Il primo impatto è piacevole: mi aspettavo il gusto insopportabilmente amaro che avevo sperimentato col peyote essiccato che già mi aveva offerto Angel, ( e che non mi aveva fatto neppure effetto), ed invece il sapore di questo è abbastanza neutro, con un retrogusto acidulo, ma senza dubbio sopportabile. Contento per l’inaspettata grazia, mi rumino in rapida successione tutti e tre i boccioli, stavolta convinto di sentirne gli effetti. Solo quando mastico l’ultimo pezzo avverto una leggera nausea, ma essendo a stomaco vuoto, non provo neppure lo stimolo a rimettere. Passo qualche tempo ad osservare il paesaggio, l’acqua che scorre tra i sassi, gli alberi secolari. Decido di lavarmi due magliette, tanto per ingannare il tempo in attesa che succeda qualcosa. Passano forse una quindicina di minuti, poi, mentre insapono su di una pietra liscia e tonda la mia maglietta bianca, ecco qualcosa che mi sorprende: mentre sfrego il sapone su e giù ritmicamente, dal candore della maglia insaponata scaturiscono lampi di colore giallo e viola. Mi blocco e tutto ritorna bianco. Riprendo il movimento ed ecco di nuovo i flash colorati scaturire come per incanto proprio dal mio gesto. Reso euforico dalla visione multicolore resto non so quanto ad insaponare la maglia, finchè quella schiuma diventa tutto un vorticare di colori elettrici che si incrociano, si suddividono, rimbalzano l’uno contro l’altro, si fondono e poi tornano a ricomporsi in schemi geometrici, come una struttura, un disegno che permea tutte le cose, anche l’aria che respiro. Distolgo finalmente lo sguardo dalla mia biancheria e mi accorgo che anche il paesaggio intorno a me è mutato: gli alberi sembrano ondeggiare con tutti i loro tronchi come spinti da un gentile ma inarrestabile vento di colori, mentre il rumore dell’acqua diventa un possente coro a bocche chiuse che accompagna i volteggi della corrente, che si contorce sinuosa e si avvita in capriole fantastiche in una danza acrobatica di spuma e vapore. Resto estasiato, più che ad osservare, a respirare quelle visioni che mi circondano, poichè l’aria stessa, diventata densa di corpuscoli simili a vorticanti elettroni, mi collega intimamente a tutti gli elementi circostanti. Sono investito di ondate di caldo e di freddo in rapida successione e comincio a sudare come in un bagno turco, provando la sensazione di espellere tossine ed impurità. Finalmente mi sposto dalla postazione in cui ormai mi sentivo fuso alla roccia sottostante e provo a sgranchire gli arti intorpiditi. Dopo alcune respirazioni profonde riacquisto la completa padronanza dei miei movimenti, anzi mi sembra che la coordinazione dei miei gesti sia divenuta armonica come quella di un mimo o di un danzatore. Prendo così a saltare in punta di piedi da un masso all’altro, muovendo le braccia come fossero lunghe ali per attutire gli atterraggi. Ridiscendo il ruscello per qualche centinaia di metri in un paesaggio che mi appare come quello di un cartone animato, gommoso e brillante di colori. Scorgo in lontananza alcune donne tra le rocce in mezzo alla corrente, ma pur aguzzando la vista non riesco a mettere a fuoco chi siano e cosa facciano. Avanzo impacciato, con la consapevolezza di essere a mia volta osservato, e man mano che mi avvicino al gruppo la scena cambia sotto ai miei occhi: dapprima mi sembra che stiano lavando i loro panni, poi mi appaiono seminude, come se stessero facendo le abluzioni personali, e assumono le movenze sensuali e provocanti di splendide ninfe indie. Affascinato mi avvicino sempre più, ma ora gli sguardi e i loro volti sembrano indurirsi ed invecchiarsi, e le vedo di nuovo vestite di tutto punto mentre lavano pigramente e corrucciate i loro panni variopinti. Passo loro accanto abbozzando un sorriso, che deve apparire più una smorfia, dato che i miei muscoli facciali sono tirati come corde. E infatti ne ricevo in cambio il solito sguardo indifferente che stavolta mi ferisce ancora di più. Vorrei fermarmi a spiegare loro che ho mangiato “Jiculì” , il Dio peyote, per questo motivo le guardo con quello sguardo allucinato, ma non saprei come comunicarglielo e proseguo tra i massi tondeggianti simili a teste di giganti addormentati. Mi addentro nel bosco, tra gli alberi che sembrano respirare, sussurrare, invitarmi tra loro, Giungo in una radura al centro della quale si erge isolata una maestosa quercia. Sembra che sieda su di un trono, questa regina delle piante. Tanta regalità si trasforma ai miei occhi in un atto di umiltà: questo splendido esemplare se ne sta lì, nascosto nella boscaglia, senza richiedere onori, unicamente intento al suo atto d’amore: trasforma l’inorganico in organico, senza chiedere nulla in cambio, generosità pura, a favore di tutti gli esseri della terra. La linfa vitale scorre su dalle radici e, attraverso il tronco e i capillari dei suoi rami, la sua energia si propaga per lo spazio attraverso milioni di foglie vibranti. Osservo il tronco attraversato da queste linee di energia che vi si disegnano come grosse arterie e si tramutano nei capillari dei rami, pulsanti mille sfumature di colori allo stesso ritmo del battito del mio cuore. E’ tutto un dare, dare, dare senza aspettarsi nulla in cambio, dare per dare, dare tutto e con tutte le forze. Commosso dalla visione di questo vegetale atto d’amore, saluto devoto la quercia carezzandole lieve la corteccia e poggiando la fronte sul suo tronco a lungo. Mi stacco infine da quella maestra di saggezza e continuo per un po’ a vagare ai margini del bosco, sino a quando, sbollita la prima ondata allucinatoria, torno sui miei passi a cercare di nuovo la sorgente. Quando riesco a ritrovarla mi pare di aver scoperto un luogo mitico: quel getto d’acqua che sgorga dalla roccia mi appare come una vera e propria sorgente di luce e di vita. Mi accosto riverente e, dopo essere rimasto come ipnotizzato ad osservare a lungo il fiotto scintillante, mi abbevero ad occhi chiusi, voluttuosamente. Ciò che mi pervade istantaneamente non è acqua, ma un’essenza taumaturgica di consapevolezza. Riapro gli occhi quasi spaventato da quell’effetto estatico, ma la dolcezza della natura circostante mi rassicura. Mi siedo, guardo verso il sole e rido. E’ un riso quasi isterico di felicità: mi vedo, come se la mia immagine fosse proiettata sullo schermo del cielo. Separato da il mio corpo, mi osservo fluttuare tra le nuvole leggero come un gas. Vedo ondeggiare i miei lunghi capelli simili ad un’aureola sbrindellata, mentre i raggi del sole mi penetrano nella cavità orale facendo scintillare i miei denti come pietre preziose. Mi sento ricco, ricco del mio corpo, della mia giovinezza, della mia forza, della mia risata che rotola pazza verso il sole. Il mormorio della sorgente si trasforma in una sinfonia stellare, ed io me ne resto a lungo in uno stato di arrendevole beatitudine, lasciandomi penetrare da ondate di calore e di estasi. Ed è proprio la resa totale a quelle visioni e sensazioni che me ne fa apprezzare ancora di più l’effetto. Decido infine di tornare verso il villaggio, a sperimentare se quell’autocontrollo, quella padronanza che ormai mi sembra di potere esercitare su di me e su Jiculì, reggerà al cospetto dei marakame del peyote.
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Commenti: 6
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bella foto
Hermosa experiencia, llena de Luz!
in alcuni punti mi sembra il mio primo trip di lsd…Il respirare armonico degli alberi… solo che i miei alberi erano quelli del Gianicolo…bel racconto aspetto come va a finire…
che trip!!!!
bellissimo trip. e poi?
seguita
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