Viva Peyote-5
Grazie alla decisiva collaborazione del caro Pino Cino, sono riuscito a recuperare alcune delle diapositive che avevo scattato presso gli Huicholes, tanto più preziose in quanto le scattai a rischio di venir messo ai ceppi. Infatti quando mi diedero il permesso di restare nel loro villaggio per un po’ di tempo, mi avevano però proibito di scattare foto. Col passare dei giorni vidi che non erano poi così rigidi rispetto a questa norma, soprattutto i ragazzini e gli anziani. Questi ultimi si mostrarono facilmente corruttibili: al vecchio “marakame” (sciamano) nella foto qui sotto, mi bastò promettere una “cerveza”, una birra, per fargli un intero servizio fotografico. Poi, ogni volta che lo incontravo, me ne batteva un’altra. “Por favor, una cerveza mas!”
Cap.8 –
Peyote
Mi sveglio con la bocca impastata e, appena metto a fuoco il luogo in cui mi trovo, il ricordo degli eventi della sera prima mi attraversa la mente come un flusso dirompente, lasciandomi disorientato e confuso. Provo vergogna e imbarazzo per l’ubriacatura presa e per aver perso il controllo ed essermi messo a piangere davanti a tutti come un vitello. D’altra parte mi sento anche orgoglioso per essere riuscito a farmi accettare dalla gente del villaggio e per aver partecipato in maniera così intensa alla loro cerimonia. Alla fine della breve meditazione mattutina una sola sensazione rimane più viva ed impellente delle altre: fame! Il giorno prima ho mangiato delle gallette che mi ero portato da Guadalajara, ed ora nella scatola ne sono rimaste solo le briciole. Scendo dal soppalco alla ricerca di acqua e cibo. In casa non c’è nessuno, ma nel patio incontro le figlie di Angel, l’una intenta ad infilare perline in una lunga collana, l’altra ad eseguire un minuzioso ricamo. Le saluto e loro sorridono timide. Poi con gesti eloquenti faccio loro capire che ho fame e sete. Si consultano rapide con lo sguardo, poi la maggiore si alza, prende un secchio e mi fa cenno di seguirla. Mi avvio dietro di lei che procede scalza e sicura sullo stretto sentiero che si snoda tra pietraie e boschi di conifere. Arriviamo dopo una decina di minuti di silenzioso cammino ad un rigagnolo che forma alcune pozze d’acqua tra i sassi, lo risaliamo per un altro breve tratto e, giunti infine ad una fonte che sgorga tra le rocce, ci fermiamo. Ci sono alcune donne con fazzoletti colorati legati sulla testa, alcune delle quali lavano i panni nella grande pozza che si è formata proprio sotto la sorgente, mentre altre sono in attesa che si riempiano delle grosse taniche di plastica sotto il getto della fonte. La ragazzina mi passa brusca il secchio e mi fa segno di riempirlo mentre le donne mi guardano curiose con un sorriso di scherno. Mi dispongo all’attesa, mentre nelle taniche è più l’acqua che cade fuori di quella che s’infila dentro. Osservo le donne, vestite con lunghe gonne fiorate, che si scambiano rapide battute e sogghignano con aria sarcastica. Finalmente la tanica si riempie e loro mi fanno cenno che posso mettere sotto il mio secchio. Altri scoppi di risa mentre bevo avidamente e mi sciacquo la faccia e la testa sotto il getto fresco, poi raccolgo il mio secchio e finalmente posso allontanarmi da quelle megere, preceduto dalla mia esile guida. Osservo la ragazzina mentre con passo leggero procede flessuosa sull’accidentato sentiero. Provo a chiederle in spagnolo come si chiama ma lei procede dritta come un fuso, come se fosse sorda. Rinuncio a disturbare ulteriormente il quieto cammino accompagnato solo dallo sciabordio del secchio e le arranco dietro piegato dal peso dell’acqua. Arrivati nel patio e posato il secchio, lei fa cenno alla sorella e ambedue si dirigono verso il bosco invitandomi con gesti a seguirle. Sotto i primi alberi cominciano a raccogliere rami secchi ed io le imito. Quando ne abbiamo ognuno una bella fascina, torniamo nel patio dove mi indicano un focolare di mattoni e pietre. Mi accingo ad accendere il fuoco e rivolgo alla piccola la stessa domanda già fatta alla sorella maggiore: “Como te llama?” Le due si guardano e scoppiano in una graziosa risata. Allora chiedo loro quanti anni hanno. Stessa reazione. Non saranno sordomute? Quando il fuoco scoppietta mi porgono un pentolino annerito, poi la piccola entra in cucina e ne riesce con un’offerta per me: il gesto con cui mi porge due candide uova è così dolce che mi profondo in mille inchini e sorrisi di ringraziamento. Che lusso: colazione con uova bollite. Le due mi osservano divertite mentre le sbuccio ustionandomi le dita ed esagero in smorfie di dolore per suscitare la loro ilarità. Quando sono al massimo delle risa ritornano i genitori dai campi, carichi di fagotti, e loro, rifattesi serie, schizzano veloci in cucina. La madre le segue mentre Angel si siede accanto a me davanti al fuoco dopo avermi salutato con grandi pacche sulle spalle. Gli chiedo se ho fatto una pessima figura la sera prima, ma lui mi assicura che, al contrario, il gubernador è molto contento di me per come ho affrontato quella mia prima esperienza nel loro mondo. Mi chiede se ho bisogno di qualcosa ma lo rassicuro che le sue gentili figlie hanno già provveduto a farmi fare colazione. “A proposito” gli faccio, “come mai non mi rispondono mai quando rivolgo loro la parola?” Mi risponde che parlano poco lo spagnolo e si vergognano ancor più di me perchè sono uno straniero. Poi m’informa che se ho bisogno di fare la spesa, al villaggio c’è una “tienda”, una specie d’emporio dove posso trovare di tutto, dalla zappa alla Coca-cola. E per i prezzi Angel non ha dubbi, mi assicura che è tutto “muy barrato”, molto a buon mercato. Gli prometto che andrò presto a sincerarmene. Poi rinnovo la richiesta di peyote. Allora mi fa tutto un discorso che il peyote è un dono degli Dei per il popolo Huichol e che gli stranieri, eccetto poche eccezioni, non possono usarne, perchè non si rendono conto che il sacro cactus è carne di Dio e a prenderne senza un’adeguata preparazione si rischia pure d’impazzire. Gli rispondo che sono cosciente di tutto ciò, e non solo per averlo studiato sui libri. Gli racconto che in passato ho già sperimentato sostanze simili al peyote, chiamate L.S.D. e psilocibina, e che ho pure provato gli effetti dei “funghi magici”, che altri indios usano per raggiungere stati di estasi mistica. Sembra convinto dal mio discorso ma prova ancora ad obiettare che prima di prendere il divino cactus bisogna purificarsi il cuore. Gli assicuro che la notte prima, sulla panca delle autoridad, mi sono sentito lavare via tutti i peccati dalla coscienza e che mi sento puro come un agnello.
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0