8 marzo
Viva peyote-4
Quando uscii dal capannone adibito a tempio pensavo che la festa fosse finita, invece era appena cominciata: iniziò infatti una lenta processione attraverso i campi, durante la quale si sostava in particolari luoghi sacri, come un albero, un gruppo di rocce, un ruscello, e vi si deponevano candele accese, ciotole e frecce votive e bastoni ornati di penne. Ad ogni sosta suonavano il tepu, il tamburo sciamanico, e si beveva il tejuino, che in un pentolone le donne si trascinavano dietro. Erano infatti queste che lo distribuivano agli altri in coppette e a berne anche loro a volontà. E anch’io ne approfittai volentieri.
Cap.7- Confessione
Quando giungiamo finalmente al villaggio sono accaldato e, incalzato dai canti a squarciagola degli Huicholes e dalle risa e schiamazzi delle loro donne ubriache che si spintonano, ormai di villaggi ne vedo due. E siccome anche di lune ne vedo due, arrivato nel piazzale centrale, vedendo una panca mi ci getto sopra. Abbasso le palpebre cercando di fermare il giramento vorticoso della mia testa, ma è peggio. Allora riapro gli occhi, giusto in tempo per vedere il gubernador che mi si siede da un lato e il subgubernador dall’altro, e accanto a loro altri due anziani del villaggio. Con il residuo di consapevolezza che mi rimane mi rendo conto con estremo imbarazzo che mi sono seduto nel bel mezzo della panca delle autorità. Cerco di svicolare, ma un po’ le gambe non mi reggono, un po’ sono incastrato tra i due corpulenti capi, un po’ loro mi sorridono condiscendenti come a dire che ormai mi ci trovo e posso pure restare, va a finire che non mi sposto e mi rassegno ad assistere al seguito della cerimonia, stavolta da un punto di vista assolutamente centrale. Lo spettacolo che mi si presenta è straordinario, una specie di “giudizio universale”: tutti gli abitanti del villaggio sfilano ad uno ad uno davanti ai loro capi, e a me che sono nel mezzo, confessando i loro peccati e le loro manchevolezze e denunciando quelle dei loro congiunti. Soprattutto le donne sono particolarmente drammatiche e, probabilmente disinibite dall’alcool, piangono, gridano, si battono il petto e si stracciano le vesti. Per tutti il gubernador Nicolas, perfetto giudice di pace, ha una parola di comprensione e riconciliazione e, dopo qualche bonaria battuta, fa segno di proseguire. Con la fantasia eccitata dall’alcool cerco di ricostruire l’ipotetico scambio di battute che si svolge sotto i miei occhi in lingua nahuatl. Sapevo dalle mie letture che tra questi indios le maggiori cause di liti e contenziosi erano l’infedeltà coniugale e problemi di confine di proprietà, e che, quando non venivano risolti dalla bonaria intermediazione del giudice di pace, era un colpo d’arma da fuoco a porvi fine definitivamente. Ora i pianti e le lamentele si susseguivano senza fine ed io pensavo che se i questuanti non si fossero accontentati delle paroline di consolazione del gran capo, quella notte sarebbe finita in una strage. Poi, stretto su quella panca, obbligato ad assistere in presa diretta a quello spettacolo drammatico, sarà per l’alcool, sarà per lo stress accumulato negli ultimi giorni, sarà per l’emozione di trovarmi al centro di un rituale così toccante e intenso, ad un certo punto scoppio anch’io in un pianto a dirotto, con le lacrime che mi scorrono a fiumi e i singhiozzi che mi scuotono per tutto il corpo. Istintivamente poggio la testa sulla spalla di Nicolas, il gubernador, e lui, dopo un attimo di sorpresa, mi poggia paterno il suo braccio leggero a cingermi le spalle. Lo guardo tra le lacrime, scosso da singulti, e vedo nel suo sguardo tanta compassione ed accettazione che mi commuove fino in fondo all’anima. Così, davanti agli astanti bloccati dall’inconsueta scena, continuo a lacrimare, poggiato alla sua spalla come su un grembo materno e per la mente mi passano mille sensazioni liberatorie ed esaltanti. So che il cosiddetto “pianto rituale”, conseguente alla pubblica confessione dei peccati, è un momento alto della vita comunitaria degli indios, poichè rinsalda i legami di amore e fiducia reciproca. Così con quel mio pianto mi sento come se pure io, davanti a loro, avessi reso confessione: “Si, anche io, uomo bianco, ho tradito la mia donna, ho sfruttato il mio fratello e ho cercato di accaparrarmi ciò che non mi apparteneva. Ma ora me ne pento, e col mio pianto lavo quei peccati e suggello la speranza di non compierli mai più e di vivere in armonia con i miei simili e con tutto il creato.” E la sensazione di fusione con quegli uomini di cui non parlo la lingua, sulla cui terra mi trovo da meno di 24 ore, è così totale da riempirmi di felicità. Smetto di singhiozzare e li guardo grato, mentre loro riprendono lentamente a sfilare e ad esporre i loro lamentosi casi. Non so come riuscii a tornare a casa di Angel quella notte. Ricordo solo le stoppie argentate dalla luce della luna che scricchiolavano sotto i miei passi, un cane che mi abbaiava dietro, il ruscello dalla spuma fluorescente, e il buio del pagliericcio in cui infine affondai.
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impossibile dimenticare, eh?
como Mexico no hay dos!
Bella e profonda esperienza, non più turista, ma partecipe alla realtà umana.
non c’e’ altro modo
Healing process.
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