3 marzo
Viva peyote-2
Ecco il mio primo sconcertante incontro sulla Sierra Madre con la comunità Huichol di S.Andres, quella di cui avevo studiato più approfonditamente la storia, le tradizioni e lo stile di vita.
Cap.4- S.Andres
“S.Andres”, mi annuncia secco il pilota quando avvistiamo alcune capanne sparse nella boscaglia su di un altopiano. Lì accanto, tra i campi di mais, si stende la pista in terra battuta. Sudo freddo all’idea dello schianto contro i roccioni sul ciglio del “barranco”. Ma il pilota anche questa volta imbrocca la manovra e, dopo i consueti balzelloni, ci fermiamo tra i campi silenziosi. Ho un’ultima speranza e chiedo all’aviatore se scende anche lui a sgranchirsi un po’ le gambe. Ma lui me la brucia spietato: “No, signore, ora vado. Ripasso da qui la prossima settimana”. Scendo, con le ginocchia che vacillano sotto il peso del mio borsone e della mia emozione e me ne resto ad osservare sgomento l’uccello-di-ferro sollevarsi rapido e dileguarsi nel blu. Ora mi sento veramente solo. Mi guardo intorno e intravedo tetti di paglia e fili di fumo aldilà dei campi. Raccolgo tutta l’intraprendenza che mi rimane e mi ci dirigo. Il primo essere umano che incontro è una donna accovacciata sul sentiero che corre intorno al bordo di un campo di mais intenta a sbucciare alcune pannocchie. Le passo a meno di un metro e sfodero un sorriso da teleimbonitore: la reazione è di totale indifferenza, come se fossi invisibile. Anzi, si volta addirittura dall’altra parte. Cominciamo male. Proseguo sempre più impacciato verso le capanne e raggiungo quelle più periferiche, ma non vedo anima viva. Mi dirigo verso uno spiazzo che si allarga tra alcune costruzioni più ampie, che mi pare il centro del villaggio. Mentre avanzo titubante, vedo i primi indios apparentemente assorti in personali meditazioni, chi appoggiato sull’ingresso di una capanna di mattoni di fango, chi sdraiato sotto una tettoia, chi sotto un albero. Sul limitare del piazzale mi avvicino alle spalle delle due uniche figure ritte in piedi. Mi schiarisco la voce e poi domando: “Desculpa, donde estan les autoritad?” I due, uno lungo e l’altro corto, che stanno appoggiati l’uno all’altro, si girano con una lenta torsione del busto. A differenza degli altri indios che vedo intorno, tutti abbigliati con i costumi tradizionali, questi due indossano: il lungo, un giaccone alla marinara, pantaloni a saltafosso, calzini a righe, scarponi modello clown e cappelletto da baseball in testa. Il corto, più grassoccio, è tutto avvolto in un plaid a quadrettoni da cui spuntano due baffetti neri e uno sguardo vacuo, il tutto sormontato da un enorme copricapo di paglia. Il lungo, con voce impastata, risponde: “Aqui estan les autoridad: yo soy el gubernador y esto es el subgubernador!” Non mi occorre un grosso intuito per accorgermi che i due sono ubriachi fradici e non so se prestar fede alla loro dichiarazione, considerata anche la tendenza allo scherzo che mi hanno mostrato in precedenza questi indios. Ma, a scanso di equivoci, mi presento e spiego educatamente per quale motivo mi trovo lì. Dopo avermi ascoltato immobilizzati in un sorriso ebete, il lungo si riscuote e sillaba lentamente: “An-tro-po-lo-go”. Poi sussultano in una risatina asmatica come due compari avvinazzati. Osservata la mia espressione interdetta, il lungo mi dà grandi pacche sulle spalle e mi dice che sono il benvenuto e aggiunge, come a malincuore, che però dovrei passare per alcune formalità in “oficina”. Questa parola vuol dire ufficio e io mi chiedo che razza di ufficio possano avere da quelle parti. Intanto si sono avvicinati lentamente alcuni anziani del villaggio e chiedono al capo spiegazioni sulla mia presenza. Perlomeno è ciò che deduco dalle occhiate che mi lanciano, perchè naturalmente, eccetto i nomi degli dei e di qualche strumento cerimoniale, non conosco una sola parola del loro idioma “nauatl”. Prima si scambiano brevi battute, poi la discussione tra loro si fa lunga e laboriosa, e dato il fatto che nessuno più mi bada, mi viene il dubbio che abbiano cominciato a parlare di tutt’altro argomento. Mi guardo intorno smarrito e ad un tratto sbuca tra il gruppo un giovane nervoso in jeans e camicia a quadri che sembra il più sobrio nei paraggi. Pure troppo. Mi fa brusco: “Chi ti manda?” Gli nomino l’Istituto Indigenista e il Consejo dei popoli indigeni, gli uffici dove sono stato per farmi dare il visto a Città del Messico. “Allora seguimi”, mi ordina e si dirige verso una grossa capanna. Guardo interrogativo il “gubernador” che mi fa un cenno d’assenso e, a mo’ di scusa, mi bisbiglia: “Es el secretario” Seguo docile il segretario nella capanna di mattoni di fango e trovo all’interno, sul pavimento in terra battuta, nient’altro che un grosso tavolaccio di legno grezzo ed alcune panche. Ma con raccapriccio noto sul primitivo tavolo una vetusta macchina da scrivere. Il segretario si accomoda dietro la sua rustica scrivania, infila un foglio spiegazzato nella macchina da scrivere e con piglio da ispettore di dogana mi chiede di mostrargli il passaporto e tutta la documentazione in mio possesso. Obbedisco paziente e sconcertato per aver pizzicato il più burocrate tra tutti gli indios del Messico. Comincia a scrivere, con due dita ma con una notevole velocità. Intanto il gruppetto che si era formato fuori si affaccia lentamente all’ingresso e qualcuno entra per gettarsi stancamente su di una panca. Quando il segretario prende ad esaminare il documento del Consejo ha un sussulto, salta in piedi e comincia a sbraitare contro il capo indio di cui ha visto la firma. “Està loco. Maurilio de la Cruz està loco!” Mi guardo intorno e vedo le facce degli altri che si son fatte improvvisamente serie. Incrocio lo sguardo del gubernador e anche lui, assentendo col capo, mormora: “Està loco…” Loco vuol dire pazzo ed io sento che la situazione sta prendendo una brutta piega. Il segretario, sempre più agitato, asserisce che Maurilio de la Cruz è di S.Sebastian, villaggio con cui hanno avuto da sempre rapporti non idilliaci, e pertanto non ha nessun diritto ad autorizzare visite a S.Andres. “Perchè non ti ha invitato al suo villaggio?” chiede acido. Intuisco che le assicurazioni di riappacificazione tra le due comunità sono state a Città del Messico una diplomatica bugia per liberarsi della mia petulanza. I miei testi, almeno in questo, non erravano: evidentemente le antiche diatribe per questioni di terra e di donne ancora non erano state risolte. L’adrenalina della disperazione mi fiotta nel cervello, m’alzo anch’io in piedi e, con una foga inaspettata, rosso in volto, gli faccio questa veemente perorazione: “E’ vero, Maurilio està loco, muy loco, muchissimo loco! Io avevo chiesto un visto per venire a visitare voi, e invece lui, invidioso, voleva costringermi ad andare a S.Sebastian, perchè diceva che voi siete un branco di selvaggi incivili e invece al suo villaggio avrei trovato gente cordiale e generosa. Ma io invece no, gli ho risposto che non era vero che voi siete incivili, perchè ho letto tanti libri su di voi e conosco la vostra storia e so che siete molto meglio di loro, anche se non sopportate i gringos e i mestizos che cercano di sfruttarvi, mentre io son venuto qui tra voi in pace e in amore, perchè voglio conoscervi meglio, imparare le storie di Bisnonno coda-di-daino, Nonno Fuoco e conoscere Jiculì, il sacro cactus, e vivere tra voi per un po’ di tempo, perchè sono venuto solo e indifeso tra voi e voi potreste fare di me quel che volete, anche mettermi al “zeppo”. Ma io mi fido di voi, perchè so che siete bravissima gente e non è assolutamente vero ciò che dice quel “pendeco” di Maurilio de la Cruz da S.Sebastian!” Mi fermo ansimante e noto con piacere che aver sentito dare del “pendeco”, più o meno imbecille, al gran capo Maurilio da parte di uno straniero, provoca un effetto esilarante sugli astanti: i volti degli anziani si distendono in sorrisi sdentati e il gubernador sussulta nella sua classica risatina asmatica. Anche il segretario appare un po’ più rilassato e, con un gesto inatteso, mi stringe brusco la mano: “Bienvenudo”. Vorrei saltare dalla gioia, li ho convinti, ce l’ho fatta!
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FANTASTICO….!!
grazie!
le avventure di un giovane antropologo nelle terre dei Huicholes… quando e’ uscito il libro? si trova in commercio?
per chi non sapesse chi sono i Huicholes…
Paolo Paci questi dipinti li realizzano con dei fili di lana pressati su tavolette ricoperte di cera. Un lavoro da sciamani!
ne fotografai parecchi anni fa…sono stupendi
È uscito nel 2000 ma purtroppo le 4000 copie sono andate esaurite in un paio d’anni e quegli stronzi non l’hanno voluto ristampare!
conosci la antropologa fotografa collezionista austriaca/mexicana Ruth Lechuga? E’ morta qualche anno fa lasciando una collezione interessantissima. Ho filmato la sua casa museo a Mexico City anni fa, ora non esiste piu’ e la sua collezione fa parte del museo Franz Mayer. https://www.youtube.com/watch?v=GPPWNv-f3ng
YOUTUBE.COM
A VISIT TO THE RUTH LECHUGA COLLECTION
A VISIT TO THE RUTH LECHUGA COLLECTION
no, non la conoscevo. So diverse sto
Storie di antropologi che hanno commercianti con gli oggetti di artigianato huichol, come Peter Furst
Io, a mio rischio e pericolo ho fatto diverse foto in diapositive, ma le migliori me le ha fregate un dannato Direttore all’Europeo. Quelle rimaste vorrei pubblicarle sul Decameron ma non so qual’e’ la migliore maniera. Dovrei farmele stampare su carta e poi rifotografarle? Dammi un consiglio.
gli editori sempre ladri… anche a me hanno fregato molte foto. Il modo piu’ semplice e’ mettere le diapositive su un vetro bianco latte con una luce sotto e poi fotografarle in macro, se hai una macchinetta con il macro, ma anche col telefonino va bene. Se hai un iPhone meglio che sono molto precisi. Poi le aggiusti sul computer. E’ il metodo piu’ veloce, e se una foto non e’ venuta bene… la rifai.
la prossima volta che vieni ti presto l’attrezzo adatto
Sempre bravo!
bella presenza di spirito!!! bravo!
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