Viva peyote – 10
Ed eccoci al finale, al naturale epilogo della mia avventura presso gli indios Huicholes, che coincide pure con la fine della mia carriera di antropologo. Quando mi presentai, per una sorta di interrogatorio, all’Istituto Indigenista di Città del Messico, l’antropologo incaricato di esaminare la mia richiesta di visitare le riserve Huichol, mi chiese qual’era il motivo e la natura della mia ricerca sul campo. Allora mi inventai, improvvisando sul momento, che ero interessato a scoprire quali elementi della cultura occidentale accettavano e quali invece rifiutavano, dato che sapevo che ormai contatti con la nostra cultura c’erano stati fin dai tempi dei Gesuiti alla fine del 1600. Ma proprio il loro ritirarsi sugli altopiani più impervi aveva creato un naturale isolamento con cui erano sopravvissuti fino ad oggi conservando inalterata la loro cultura. In realtà avrei dovuto dire che il principale motivo del mio viaggio era quello di provare il peyote, ma naturalmente non osai essere così cinicamente sincero. Ora, al termine del mio viaggio, avevo capito anche, in grandi linee, perchè rifiutavano alcuni elementi della nostra cultura e perchè ne accettavano altri così di buon grado.
Cap. 10 – Barrancos Come improvvisa e inaspettata fu la loro venuta, altrettanto lo è la loro dipartita: il giorno seguente alla cerimonia del povero Cristo, i due “boy scout” se ne vanno. In compagnia di due somarelli e di una guida che dovrebbe impedirgli di perdersi tra le montagne. “Antiamo a fisitare altre comunità huicholes”, mi informa con sussiego la portavoce del team. Il giorno prima mi hanno notato mentre scattavo le foto al cristo delle lattine e subito dopo non hanno perso l’occasione per rimbrottarmi: “A noi hanno detto proibito fare foto. Tu italiano furbo”. Gli ho risposto secco. “Io ho un permesso speciale”, senza darmi la pena di ricordargli che quel permesso si ottiene con un po’ di simpatia e una birra. Sto lì a guardarli mentre si allontanano sul sentiero polveroso e gli grido dietro: “Attenti agli scorpioni e ai serpenti velenosi!”, con la segreta speranza che decidano di cambiare presto mestiere. Mentre camminano impettiti al fianco degli asinelli, percepisco nel loro passo cadenzato la presunzione del loro razionalismo, l’importanza che attribuiscono alla loro missione scientifica… e rivedo per un attimo l’indiano di Washington Square, i suoi zigomi massicci, la bocca, un taglio, e il sibilo delle sue parole: “L’antropologia è una nuova forma di colonialismo”. Quanto a me ho già deciso: da grande non farò l’antropologo. Resto di nuovo l’unico bianco sull’altopiano di S.Andres, felice di non aver più quegli spioni tra i piedi e di poter passare quegli ultimi giorni a giocare a fare l’indiano. Raccolgo la legna, accendo il fuoco, mi lavo alla fonte, ascolto i canti sciamanici, suono il “tepu” e infilo perline. Con Estrella, la figlia maggiore di Angel, cresce la simpatia reciproca di giorno in giorno. Lei mi segue docile e silenziosa quando vado alla fonte e a far legna, e insiste per aiutarmi a portare il carico. Io l’aiuto a fabbricare collanine e l’osservo ammirato mentre esegue i suoi stupendi ricami. E quando la guardo negli occhi con tenerezza non li abbassa più timida come una bambina, ma sostiene il mio sguardo con l’intensità di cui solo una donna è capace. Ogni tanto mi proietto un bel film nella mente: io che resto a S.Andres, mi sposo Estrella, abbiamo tanti piccoli indianini, io che divento un marakame peyotero… anche io come Peter Collings… ma poi mi ricordo che debbo ancora completare la mia iniziazione a sciamano con il pellegrinaggio a Viricota… E’ Nicolas a rammentarmelo quando sta per scadere la seconda settimana della mia permanenza. E’ sera, siamo seduti davanti al fuoco, io ho offerto da bere per tutti. Sto raccontando delle mie visioni col peyote. Il gran capo mi chiede se ho intenzione di restare più a lungo tra di loro. “Non so… non ho ancora deciso. Debbo pensarci su… probabilmente deciderò solo domani, quando scenderà l’aereo dell’Istituto sulla mesa…” E lui: “Anche se decidessi di ripartire domani, ricordati di tornare a gennaio, quando faremo il pellegrinaggio a Viricota. Jiculì ti ha scelto e ti ha accettato. Chi intraprende la via del peyote non può tornare indietro. Devi venire a Viricota, diventare anche tu un marakame”. Glielo prometto, ma poi, durante la notte insonne sono assalito da mille dubbi: se partirò l’indomani, riuscirò a non perdermi per altre storie e per altre strade e a ritornare per tempo a gennaio a rispettare l’impegno con Jiculì? E dopo quella prima intensa esperienza col peyote, riuscirò ad andare oltre senza sconfinare nella follia? Riuscirò a sfondare lo specchio in cui mi sono riflesso, estremo limite delle mie visioni, e a passare dall’altra parte? Arriverò a divenire io stesso Nonno Fuoco, ad entrare nel ciclo delle trasformazioni, trasmutarmi in Bisnonno Coda di Daino e sbocciare tra le sue corna in mille piccoli fiori bisbiglianti? E soprattutto riuscirò ad integrarmi tra gli Huicholes senza scombinargli l’esistenza? E loro riusciranno ad accettarmi, così diverso, così alieno quanto il loro santo fantoccio delle lattine? E’ proprio il ricordo di quel mostro ibrido a pesare sulla mia decisione finale: non voglio, con la mia presenza, diventare responsabile della nascita di altre creature caricaturali e grottesche. A volte la commistione tra diverse culture può condurre all’armonia, a volte il sincretismo genera mostri. L’indomani mattina raccolgo tutte le mie cose nel borsone e mi avvio assorto verso la pista di terra battuta distesa silenziosa tra i campi di mais. Quando saluto e ringrazio dell’ospitalità la famiglia di Angel, Estrella sceglie una delle più belle collanine che abbiamo fatto insieme e me la regala, senza dire una parola, ma con un gesto così tenero e dolce che debbo scappar via per non finire di nuovo in lacrime. Sulla pista mi raggiungono Nicolas, Eusebio e gli altri amici che mi sono fatto in pochi giorni tra questi “impenetrabili” indios. Se ne restano lì, in silenzio, sotto il sole, accovacciati ai margini dei campi. Poi un ronzio lontano annuncia l’imminente arrivo del biplano. Quando l’aereo si arresta a pochi passi da noi, in una nuvola di polvere, raccolgo le mie cose, abbraccio gli amici e salto su. Un rapido scambio di battute con il pilota: “Que onda, hombre?” “Buena onda”, rispondo. Faccio in tempo a sentire per l’ultima volta Nicolas che si raccomanda: “Ricorda… a gennaio”, e mi punta l’indice. Gli rispondo con lo stesso gesto ed un sorriso. Un ultimo sguardo ad Estrella, bambina già donna, che osserva immobile al bordo della pista, poi l’aereo riprende la corsa sobbalzante. Uno stacco e via, siamo nel cielo. Osservo S.Andres dall’alto: un pugno di capanne di fango e paglia che si perdono nella boscaglia dell’altopiano. E tutto intorno, a difesa di quella umanità eremita, profondi barrancos. Erosi canyons, scavati sui fianchi delle montagne da millenni, hanno protetto finchè hanno potuto quel gruppo di uomini. Ma oggi non sono più un invalicabile baluardo. Osservo i sottili nastri d’acqua snodarsi in una serpentina argentea in fondo a quei burroni. Le gole, le anse scavate nella roccia, sembrano ricalcare le circonvoluzioni di un pensiero divino pietrificatosi nelle mille sfumature ocra di un maestoso bassorilievo. Perchè gli Huicholes hanno accettato la Coca-cola, la birra, l’aereo e il calcio? E perchè rifiutano il trattore, le baracche di lamiera, la macchina fotografica? A queste domande avrebbe dovuto dare una risposta la mia ricerca antropologica. Ma le risposte che mi vengono fuori, saranno pure banali e superficiali, non sono altro che queste: la Coca- cola piace perchè è buona e disseta, la birra inebria dolcemente, l’aereo è più veloce del mulo, il calcio è divertente. E invece il trattore fa fumo, rumore e puzza, nelle baracche di lamiera si muore di caldo e di freddo e la macchina fotografica non lascia vedere nulla a chi si trova davanti all’obbiettivo… ma già con una Polaroid il discorso è diverso… “Spiriti dei barrancos, proteggete i miei amici Huicholes, donate loro sempre pace e armonia… e preservateli dagli antropologi”, mormoro in un sussurro mentre volo via. Fine (segue a breve un post scriptum)
Mi piace: 17Tu, John Flores, Claudio Bucci e altri 14
Commenti: 11
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bello,
divertente
e romantico…Sei un vero antropologo, non un osservatore. Il trattore costa troppo e la benzina pure, le capanne di adobe non costa niente farle mentre la lamiera e’ cara e pesante da trasportare (oltre che ovviamente calda, e la macchina se e’ polaroid va benissimo infatti. Il calcio non costa niente… insomma la faccio breve, spesso le scelte sono economiche…
il villaggio di san andres… no scherzo.
Buena onda…
quel gennaio è mai arrivato? post scriptum. grazie
Tutto questo in sole due settimane ? Come cambia il tempo e la sua percezione quando ci troviamo in una situazione altra…..
Il tempo è un elastico
ma perche’ 2 settimane sole?
questo era il patto con l’Istituto Indigenista. Ed io i patti li rispetto.
sono ,molto gelosi dei “loro indios”
nel post scriptum darò ulteriori dettagli.
Alessandro Antonaroli bello… anch’io come te avevo un gennaio che poi non ho rispettato… chissà che fine hanno fatto i miei indios…
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