28 febbraio
Viva Peyote -1
Era il marzo del 1980 quando presentai la mia tesi sui riti e sui miti degli indios Huicholes del Messico ed ottenni la sospirata laurea in Lettere all’Università “La Sapienza” di Roma. Un mese dopo volavo verso New York e, dopo un avventuroso soggiorno negli States, che doveva durare per ben 4 anni, finalmente nell’ ’83 decidevo di partire per la ricerca etnologica che mi aveva spinto a partire per le Americhe. Una ricerca proprio presso quella popolazione che tanto mi aveva affascinato per i suoi rituali esoterici centrati sull’uso di un cactus allucinogeno di cui avevo sentito parlare inizialmente sui libri di Carlos Castaneda: il Peyote. Gli Huicholes erano gli ultimi indios che conservavano i costumi ancestrali basati sull’uso del “sacro cactus” e che, grazie all’isolamento dei loro territori, avevano mantenuto queste tradizioni intatte.Tornato in Italia, solo nel ’94, spinto da alcuni amici, tra cui per prima la cara amica Dunia, scomparsa di recente, mi decisi a scrivere questo racconto di cui voglio condividere con voi, amici del Decameron, una riduzione che pubblicherò qui a puntate, sperando di essere conciso e di non annoiarvi. Il racconto, col titolo “Viva peyote – Un antropologo pentito nella terra degli Huicholes” (sottotitolo che trova una sua giustificazione nel capitolo che vi allego oggi) fu pubblicato solo nel 2000 da “Stampalternativa” e stampato in 4000 copie che purtroppo sono già da tempo esaurite.
Cap.3- Guadalajara
…Poco dopo arriva l’ingegnere che ci carica tutti su un camion. Mi invita a sedermi con lui nella cabina di pilotaggio ma cedo il posto ad una india con tre bambini e a una vecchia secca, e me ne sto dietro all’aperto con gli altri indios in piedi, con la speranza di familiarizzare un po’ con questi prima di essere catapultato nel loro territorio. Infatti poco dopo, tra un sobbalzo e l’altro, mi chiedono da dove vengo. “Dall’Italia” rispondo. E subito uno di rimando:”E perchè non hai portato un’italiana?” Ilarità generale. Anch’io rido e prometto che la prossima volta ne porterò un paio, così potrò prestargliene una. “Y donde vas?” “A S.Andres” Quando sentono il nome del villaggio dove sono diretto mi mettono in guardia avvertendomi che a S.Andres non li vogliono i gringos, li sbattono allo “zeppo”. Mi spiegano che “lo zeppo” sono due tavole entro cui vengono serrati i piedi del malcapitato prigioniero, una variante dei nostri “ceppi” medievali. Protesto facendo di nuovo presente che sono italiano e non un “gringo”, termine con cui indicano gli odiati statunitensi. “Ma anche gli italiani non li vogliono, perchè hanno ammazzato un mucchio di messicani durante la guerra”, mi fa uno con convinzione. Mi sforzo di capire a quale episodio bellico si riferisca, ma poi mi rendo conto dalle loro risa che hanno solo voglia di scherzare e mettermi in mezzo. Arriviamo all’aeroporto e vi troviamo un bel velivolo da dieci posti messo a disposizione dall’Istituto Nazionale Indigenista”. L’ingegnere fa una rapida selezione ed alcuni, a cui promette di tornare a prenderli presto, si accovacciano tra i loro fagotti ai bordi della pista, nel loro consueto atteggiamento senza fretta e senza tempo. Io salgo a bordo con i rimanenti e durante il volo sono il più agitato: dopo il decollo mi sposto da un finestrino all’altro per osservare meglio il paesaggio e scatto foto a ripetizione. Gli indios invece siedono compassati come se stessero in metropolitana e mi guardano divertiti, invece di lasciarsi sedurre dallo spettacolo delle “mesas” e dei canyons che si inseguono vertiginosi sotto di noi. Sfioriamo gli altopiani desertici sui quali macchie di conifere si diradano fino ad estinguersi nelle pietraie e nel salto profondo dei “barrancos”, i burroni in fondo ai quali brilla la serpentina di luccicanti corsi d’acqua. Finalmente su di un altopiano appaiono alcune casupole e, a poca distanza, una pista sterrata che termina a pochi passi dal precipizio: è S.Caterina, uno dei villaggi huicholes. Confido nell’abilità del pilota, ma non posso mascherare un certo nervosismo osservando, appiccicato al finestrino, le fasi finali dell’ardito atterraggio, mentre gli Huicholes siedono imperturbabili. Il pilota fa bene il suo dovere e, malgrado i sobbalzi sulle asperità del terreno, riusciamo a fermarci a distanza di sicurezza dal temuto salto nel vuoto. Immediatamente tutti gli indios si animano, raccolgono i loro pacchi e fagotti e se ne scendono ciarlieri e contenti. Anche l’ingegnere, che speravo mi accompagnasse a S.Andres per presentarmi alle autorità locali, mi dice che ha degli affari da sbrigare a S.Caterina e scende mollandomi con un frettoloso commiato. Faccio appena in tempo a dirgli di salutarmi Josè Lopez, l’indio conosciuto a Tepic, poi ripartiamo, solo io e il pilota. Mi siedo accanto a lui e scatto qualche altra foto, ma sento pian piano salire l’ansia. Non so che accoglienza mi aspetta a S.Andres, così, senza nessuna presentazione, in una delle più isolate comunità indie del Messico. Si, io conosco tutti i loro riti e miti, i loro costumi, e perfino i nomi dei loro sciamani più famosi. So che potrò comunicare con loro in spagnolo, che hanno appreso per poter commerciare con i “mestizos”, i meticci che gli vendono utensili e sale. Ma come sarò considerato da loro? Come un intruso, un “gringo”, un nemico, un rompiballe? Mi viene in mente il mio primo incontro con un indiano d’America, avvenuto qualche tempo prima a New York. Mi trovavo a Washington Square e mi godevo lo spettacolo di tutte quelle razze diverse che interagivano sul palcoscenico del più fantastico villaggio globale della terra. E tra musicisti, mimi, giocolieri e ballerini, bianchi, neri e gialli, notai quell’omone dai capelli neri e lisci raccolti in due lunghe trecce. Osservava la scena attraverso le sottili fessure che gli tagliavano la faccia sopra gli zigomi massicci, e se ne stava immobile e solenne come un monumento. Mi avvicinai emozionato e gli feci: “Io antropologo, italiano. Tu indiano?” E lui :”Io antropologo americano, tu italiano?” Lo guardai interdetto, non c’eravamo capiti? E invece mi spiegò che era si, indiano, ma aveva studiato antropologia alla Columbia University. Si era iscritto a quella facoltà soprattutto spinto dalla curiosità di conoscere in che maniera i bianchi cercavano di interpretare la sua cultura. Mi divertì questa immagine degli “studiati” che diventano “studiosi” di chi li studia, e finii per chiedergli se questo corso di studi l’avesse soddisfatto. Storse la bocca e mi disse che l’unica frase sensata che aveva sentito in quegli anni di studio era stata: “L’antropologia è una nuova forma di colonialismo”. Proferì quelle parole come se volesse scolpirle nella pietra. “L’antropologia è una nuova forma di colonialismo”. In un soffio tagliente.
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Commenti: 5
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sempre piacevole leggerti
cominci bene…sono d’accordo con l’indiano di Washington Square a proposito dell’antropologia
Confermo la piacevolezza aggiungendo un particolare interesse al vissuto del primo contatto….. ANTROPOLOGO IO ITALIANO MEZZO SANGUE !
Molto interessante!
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