Passavo i giorni tra gli indios ed ogni giorno era una scoperta. Mi resi conto presto che i libri di etnologia mi avevano ingannato: avevo calcolato che la mia permanenza tra di loro avrebbe dovuto coincidere con le loro cerimonie del peyote. Ma ora gli Huicholes non facevano più il pellegrinaggio fino al deserto di Viricota, per raccogliere il peyote, a piedi, ma ci andavano in camion, quindi tornavano un mese prima di quanto riportato dagli antropologi che avevo studiato. Quando arrivai io, già tutte le cerimonie col peyote erano terminate, ed il peyote pure. Quindi ora peyote non ce n’era, ed io vagavo da uno all’altro con la mia vana richiesta: “Ma un po’ di peyote si rimedia?” E tutti andavano sul vago: “Mah… boh…forse…chissà…” Ed io rosicavo, mentre loro si abbandonavano ai loro estatici riti alcolici.Cap.10 – SacrificioApro gli occhi, vedo la forte luce del giorno filtrare attraverso la mia finestrella e salto giù dal letto per correre incontro al destino del toro. Solito rituale della colazione con uova sode che mi impegna una buona parte della mattinata in compagnia di Estrella e Tetè, la due figlie di Angel che finalmente si sono decise a dirmi i loro nomi. Davanti ai loro occhi curiosi carico un rullino nella mia Nikon, monto un teleobiettivo e ne approfitto per fare alcuni scatti alle due graziose fanciulle che si mostrano meno riluttanti degli adulti a mettersi in posa davanti al mio obiettivo. Sorridono, fanno le vezzose, scoppiano in risolini isterici, si coprono il volto con le mani e scappano via divertite. Mi butto sulle spalle un giaccone sotto il quale nascondo la macchina fotografica e mi avvio verso il rischioso compito di documentazione etnografica. Passo attraverso i campi, defilandomi dal sentiero principale per restare più inosservato, e quando scorgo in lontananza le prime capanne… click! Il “tele” mi permette di scattare ad una certa distanza di sicurezza e manovro la camera in modo da doverla tirare fuori solo per gli istanti necessari allo scatto. Mi sento leggermente in colpa a frodare i miei amici indios di quelle immagini, ma poi penso che il compito di un antropologo è quello di documentare, costi quel che costi, e del resto la prospettiva di finire con i piedi serrati dal maledetto ceppo, invece da fungere da deterrente mi stimola l’adrenalina della creatività. Mi avvicino al villaggio e sento crescere il clamore della festa. Mi apposto dietro una capanna e faccio alcune foto al toro sacrificale, che giace sempre allo stesso posto di ieri, ma ora ha una ghirlanda di fiori sulle corna e una macchia gialla dipinta proprio nel bel mezzo della fronte. Attratto dalla musica mi avvio verso il piazzale centrale, e qui mi attende una sorpresa: un gruppo di “mariachi”, con tanto di chitarre e contrabbasso, sono arrivati a dorso di mulo fin quassù ed ora si esibiscono davanti agli indios eccitati dalla novità. Mi piazzo accanto ad un albero, tiro fuori fulmineo la camera e scatto a ripetizione. Nessuno sembra accorgersi di me, tutti presi dallo spettacolo musicale, in un fermento di attività che attraversa tutta la comunità in festa. Poi un corteo con un marakame in testa si avvia verso la vittima designata, la circonda e il toro assiste mite alla sua ultima cerimonia. Lo sciamano recita lunghe litanie carezzando la fronte dell’animale come volesse ipnotizzarlo. Le donne cantano con un lieve mormorìo e guardano quel corpo possente con un misto di ammirazione e compassione. Vengono poste altre ghirlande intorno al collo taurino, poi un assistente del marakame, con un gesto repentino e inaspettato, infila uno stiletto nella giugulare della bestia mentre questa è trattenuta da quattro robusti indios per le corna. Il sangue sgorga con fiotti potenti e gli astanti se ne bagnano eccitati le mani e se lo spruzzano felici sui volti, sulle braccia e sui vestiti. Il toro scalcia via gli ultimi attimi della sua esistenza con spasmi poderosi, poi giace immobile. Viene legato per le zampe e trascinato di corsa con una fune per tutto il villaggio dai più giovani e robusti, seguito da una turba di bambini ed anziani festanti. Mi accodo e continuo a scattare foto, tralasciando nella foga ogni precauzione. Quindi il corpo dell’animale viene portato sul piazzale dove le donne si bagnano le dita nella ferita mortale ed aspergono i viso dei loro pargoli col sangue del sacrificio. Poi, alla presenza di tutte le autorità, due indios abili come chirurghi scuoiano e squartano in pochi attimi la bestia ancora fumante. Assisto all’implacabile lezione di anatomia, mentre la carcassa viene scarnificata con rapidi colpi e le donne protendono i bacili in cui ricevono le loro porzioni di carne. Le ossa vengono infine abbandonate ai cani e ai miei commiserevoli sguardi. Verso la sera la festa raggiunge il suo culmine, dopo che per tutta la giornata si è bevuto tejuino e birra e tutti sono ormai al massimo dell’ebbrezza. Le indie, nonostante le libagioni, sono riuscite a cucinare l’intero toro ed hanno preparato dei “tamales”, involtini di polenta e ragù di toro. I “mariachi”, tranne brevi pause in cui si sono accasciati sotto un albero a tracannare birra, hanno suonato a distesa per l’intera giornata. I bambini ed i cani che si inseguono tra la folla accrescono la generale baraonda. Ma ecco che le donne cominciano a prendersi a braccetto, formando una specie di falange, e corrono tra la gente investendo tutti, gettando a terra e calpestando chiunque venga loro a tiro, tra pazze risate. Io riesco ad evitare due o tre cariche di questo tipo solo per miracolo, quindi me ne torno velocemente a casa a posare la preziosa macchina fotografica prima che venga distrutta da quelle forsennate. Quando ritorno alla festa approfitto volentieri delle offerte di tamales e tejuino e non disdegno neppure qualche lattina di birra. Ma, a differenza degli Huicholes, che sembrano avere una resistenza illimitata all’alcool, io comincio presto a vacillare e quella folla variopinta comincia a ruotarmi attorno sempre a maggiore velocità. Passo prima attraverso una fase di ebbra euforia, in cui inseguo le falangi delle donne incitandole a gran voce, poi le vertigini cominciano ad avere il sopravvento e mi aggiro barcollante intorno entrando ora in una capanna ora in un altra. Mi ritrovo infine in un’abitazione dove si suona e si balla e, dopo aver accennato a qualche passo di danza, tra i lazzi delle indie che mi urlano addosso, mi accascio su un mucchio di coperte in un angolo, perdendo l’ultimo barlume di sentimento. Mi riscuoto dopo non so quanto, rendendomi conto che i corpi distesi intorno a me sono ora numerosi, e mi hanno pure fregato le coperte su cui mi ero gettato. Mi rialzo dalla nuda terra e con un guizzo di orgoglio mi accingo alla disperata impresa di raggiungere il mio alloggio nella foresta. Esco dalla capanna, dove la musica si è affievolita in una lamentosa nenia, e dove sono ormai pochi quelli che si reggono a stento in piedi. All’esterno la situazione è da cataclisma: corpi giacciono sparsi qui e là tra cumuli di lattine e rifiuti vari e solo i cani sembrano conservare un residuo di vitalità, impegnati in continue zuffe. Quando mi vedono passare caracollante verso i campi, le bestiacce spelacchiate si gettano al mio inseguimento, costringendomi ad afferrare un grosso bastone e a ruotarlo intorno a mo’ di clava. L’aria fresca e quell’ultimo scatto di adrenalina mi aiutano a proseguire, bastone alla mano, sguardo minaccioso, verso le lontane ombre del bosco. “Maledetti cagnacci, venite sotto se avete coraggio…” grugnisco mentre avanzo a stento, inciampando tra le stoppie argentate, e guardo la luna grassa, e mi viene voglia di ululare.
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2 risposte
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