When we were clowns

Verso la fine degli anni ottanta, mia moglie, che era infermiera in un ospedale di SF, partecipò in un workshop di gruppo, dove esploravano il presupposto della risata come medicina… e i partecipanti erano spinti a crearsi un personaggio da pagliaccio, creando un makeup e scegliendo un nome. Le venne l’idea del clown che faceva aerobica, che si allenava e si teneva in forma, creando Aerobeth. Si mise insieme un costume con l’aiuto di forme di plastica che ingrandivano seni e sedere, coperti da calzamaglia rossa con pantaloncini e camicia, rosso magenta, con delle scarpe da ginnastica rosa, molto più grandi della sua vera misura, una parrucca argentata, del bianco sul viso assieme a una stella argentata su ogni guancia. Essendo specializzata in Riabilitazione, fece delle apparse nelle corsie di pazienti, ed io la aiutai costruendole dei pesi fatti di cartone dipinto di nero…

Il suo interesse si accentuò quando venne fuori con un secondo personaggio, Zany Bethania, molto diverso dal primo, altro costume, altro trucco e altri accessori, come dei guanti-pupazzo, una tartaruga e una coccinella, con i quali raccontava delle storielle divertenti. In questa sua ultima forma, prese parte a un evento chiamato “Laughter for healing”, dove conobbe personalmente a Carl Reiner, Tim Allen, e Michael Pritchard, famosi comici.

Così a casa ci si prese la febbre, ed io e la figlia dodicenne ci divertivamo truccandoci il viso e inventandosi dei costumi, creando un personaggio proprio. Io pensavo alla Commedia dell’Arte, ai vari prototipi di clown dai vecchi circhi frequentati da giovane, e perfino Toto’… In un negozio di roba usata trovai prima una bombetta nera e poi un cappotto di lana nero con code, perfetto mi dissi, poi alla ricerca di un paio di pantaloni, e trovai dei pantaloni di una taglia enorme, grigi con delle strisce più scure, orizzontali e verticali. Avevo già una camicia rossa con pois neri, e trovai una cravatta di plastica, sproporzionata, blu con pois bianchi… Anziché la faccia bianca, mi piaceva la barba nerofumo del clown barbone, solo del bianco attorno agli occhi, e del rosso attorno alle labbra, e l’immancabile naso rosso a palla di spugna. Al cappotto aggiunsi dei bottoni rossi enormi, e delle spalline con frange dorate fatte a mano… Ecco Jobo. Coniugato dal nome proprio, con l’aggiunta della parola Hobo, per Barbone…

Comprammo dei libretti che insegnavano come creare sculture di animali fatti con palloncini gonfiabili, che piegavamo torcendoli per creare le varie forme, centinaia di palloncini sparsi per il salotto, tanti scoppiati nell’imparare questa nuova arte. Altri libretti che insegnavano vari semplici trucchi magici, e cominciammo a collezionare accessori, come scarpe enormi, ombrellini piccolissimi, e tanti pupazzi. Tanti gli oggetti, che decisi di costruire un grande cassone rettangolare di legno, che decorai come un vecchio vagone del circo, per raccoglierli tutti. L’ultimo passo, fu quello di costruire un ‘pavimento’ semicircolare, composto di quattro ‘fette’ di compensato, che si collegavano con delle strisce di velcro, e formavano una specie di piccolo palcoscenico, coperto di un linoleum a grandi scacchi bianchi e neri.

Beth tirò fuori un nuovo personaggio, Bethüzala, e si facevano tante prove tra di noi. Se veniva qualche amico in visita, lo si copriva di palloncini, facendo corone, spade, e checchessia. Ci si preparò bene, e presto avemmo la nostra prima occasione di presentarci a un pubblico.

Una delle infermiere aveva organizzato una festa per un gruppo di bambini da tenersi al Golden Gate Park, in una grande area verde circondata da alberi. Avevano decorato un tavolo da picnic e c’erano una dozzina di ragazzini dai cinque ai sei anni, e vari adulti, che spente le candeline, e mangiato il dolce, ci videro arrivare trainando il nostro baule decorato, con sopra le ‘fette’ di pizza che erano il palcoscenico, addosso a un carrello piatto con piccole ruote a cuscinetto. Bethüzala trainando davanti, Jobo spingendo dal retro, guardando in giro come alla ricerca di qualcosa… avvicinatisi al gruppo, lei tira fuori una grande X di cartone dipinta di rosso “Jobo, aiutami a trovare il posto da marcare con la X” mi dice, “Deve essere proprio qui vicino…”. Avvicinandomi alla festa, indico a lei il posto, lei tira fuori una scopa piccolissima, e fatta finta di ripulire il luogo, ci mette sopra la lettera di cartone. “Si hai ragione Jobo. Abbiamo trovato il party!” Ci s’introduce, “Ciao bambini, siamo qui per la festa anche noi!”, poi io monto il semicerchio della stage, assicurando le parti con del velcro, in ginocchio, mentre lei tira fuori una grande mosca attaccata a un filo con una bacchetta, e la fa svolazzare attorno a me, che sono indaffarato e non la vedo. Con uno scacciamosche, lei prende a colpirmi interrompendomi. “Ma cosa fai?” le chiedo, “C’era una mosca gigante che stava per morderti, e l’ho scacciata!” risponde lei nascondendo la mosca, e i piccoli cominciano a ridere… Questo si ripete mentre io finisco di montare il grande baule di legno, che, tolto il coperchio, e sollevatolo e piantatolo in cima a quattro colonne, diventa un vagone da circo, con all’interno tutti i nostri props.

Cantata la canzone di Buon Compleanno, si parte con il primo atto. “Bambini, voglio insegnare un gioco magico a Jobo” dice Bethüzala, “Come far sparire una bandana!”… Parlando verso di me ma guardando solo ai piccoli, mi dirige “Pendi la tua bandana dal vagone” mi dice, e mentre lei tira fuori il suo lungo fazzoletto di seta gialla, io tiro fuori una banana (vera), i piccoli scoppiano a ridere e urlare “Ha una banana!” vogliono far notare a lei, “Si, si, una bandana” risponde lei senza guardare verso di me… “OK Jobo, ora fai come faccio io e piega la tua bandana in due” dice piegando il suo fazzoletto, e io guardando un po’ stravolto, cerco di imitarla piegando la banana in due, “OK, ora piegala di nuovo in due” continua, ed io obbedisco piegando la banana ormai aperta spiaccicandomela sui i guanti bianchi, “OK, ora mettitela in tasca come faccio io” dice lei mettendosi il fazzoletto piegato in tasca, e mentre i piccoli si rotolano per terra dalle risate, io mi infilo in tasca la banana distrutta. (All’interno della tasca del cappotto, avevo messo una busta di plastica per contenerla e non rovinarmi l’indumento.) “OK Jobo, ora dai due colpi forti sulla tasca come faccio io”, io con sguardo angosciato eseguo le sue istruzioni, “Pronto? OK tira fuori la bandana!” mi dice mentre tira fuori dalla tasca ciò che diventa un mazzo di fiori di carta aprendosi, mentre io tiro fuori quel macello che è diventata la banana… “Ma cosa hai combinato?” mi rimprovera lei, continuando “Bambini, vi piacciono le favole?, a noi piacciono tantissimo! Adesso ve ne vogliamo recitare una. Che ne dite di Goldielocks e i tre orsi?” Con approvazione generale, lei comincia a raccontare… Lo chiamavamo ‘fumbled faerytales’ = favole ingarbugliate, dove si alterava il racconto con delle falsità che venivano notate dal piccolo pubblico, che interveniva per correggere… “C’era una volta una bambina che s’era persa nel bosco, era alta e grande e aveva dei bei capelli rossi” dice lei, mentre io accanto al baule, tiro fuori una parrucca rossa e la indosso. “Ma no, era bionda e piccola” reclamano loro. “Ah ecco!” so corregge lei, mentre io mi metto una parrucca bionda e mi metto in ginocchio… “Girando per il bosco trovò un grande castello”, “Ma no, era una casetta piccola solo per tre”, insomma, così fino alla fine quando io sono per terra addormentato in posizione fetale, nel lettino dell’orso più piccolo, e gli orsi (tutti i bambini invitati) rientrano a casa e mi scoprono, io mi alzai e presi a correre in giro, con tutti alla rincorsa. Regalammo a ciascuno dei piccoli palloncini già preparati in anticipo, che piegati in tre, si potevano indossare sul naso, e poi delle sculture di animali, cani, giraffe, pappagalli, farfalle, ecc., ormai facilmente eseguite velocemente, dopo ore e ore di prove, e pavimenti del salotto pieni di palloncini rotti da raccogliere, … e, fine dello show. Riempito e chiuso il baule, ci salutiamo e torniamo verso la macchina parcheggiata non distante.

 

Esorditi con successo, fummo invitati ad altre feste, in case con grandi back yard, e la figlia anche fece parte della troupe occasionalmente. Ci si divertiva facendo divertire i bambini… bambini di una certa età però, perché dai sei sette anni in su, se ne uscivano “Ma tu non sei un vero clown! C’hai pure il naso e le scarpe di gomma, ti puzza il fiato, sei finto”… Come se avessi dovuto realmente avere fette taglia extra extra large, e un naso sproporzionato e deformato, per essere ‘genuino’… E poi fumavo le sigarette, prima e dopo degli show, mai davanti ai bambini… A regazzi’, e vedi danna’ffanculo! Pensavo.

Per qualche anno facemmo delle apparizioni alla Haight Ashbury Streetfair, con la quale eravamo coinvolti da tanti anni, ma alterando e minimizzando lo show e orientandolo verso un pubblico di amici adulti. Avevamo un biglietto da visita che ci annunciava come: Ambasciatori dell’Allegria, e avevo creato dei piccoli quadernetti di poche pagine, con disegni da colorare, che davamo in regalo.

 

Tutto sommato, un lavoro d’amore, gratificante, ma con tante ore di duro lavoro in preparazione per pochi minuti di soddisfazione…

L’ultima volta che ci esibimmo fu nel 2001, con l’aggiunta del nostro primo cagnolino, un piccolo Griffon Bruxelloise, o come dicono qui, Brussels Griffon, un cagnetto piccolino, black and tan, nero con dei marchi marroni al petto e alle zampette. Adottato ai tre mesi, dopo la morte della mia prima gatta Shwartz che visse fino ai ventuno anni, e dopo l’undici settembre, era poco più grande delle mie mani accoppiate. Lo chiamammo Waldo the Magnificent, e mia moglie prese presto a insegnargli tanti trucchi, che lui crescendo andava imparando. Una stazione radio locale aveva organizzato un evento nel parco chiamato “Pet Pride Day”, dove il pubblico era invitato a mettere in mostra il loro pet. Usando solo il coperchio del baule come base, costruii un float sul carrello a cuscinetti, montando due delle colonne per sostenere un cartello tridimensionale costruito di cartone con la sua immagine e nome. Un trono rialzato costruito di cartone e ricoperto di stoffe, sul quale sedeva il minuscolo batuffolo peloso, coperto da una cappa con collo rialzato dorata… Salimmo sul palco e passeggiammo davanti ai giudici che se la spazzavano assieme al pubblico. Questa volta, io ero Salomoni, con una parrucca rossa e pantaloni e camicia dorata, mentre lei era Bethalina, anche vestita d’oro e di rosso. Li ingaggiammo a cantare con noi (alla musica di: “We love you Beatles, oh yes we do)

“We love you Waldo, oh yes we do, you are magnificent, it’s true, when you’re not with us, we’re blue, oh Waldo we love you”.

Non vincemmo, ma fu una bella esperienza, e da li in poi, con l’aggiunta di due altre cagnette della stessa razza, e con la dedicazione di mia moglie che passava le ore insegnandogli obbedienza e ricompensa, con tanti croccantini, piccole mosse che assumevano un nome, come: alza la zampa, alza tutt’e due le zampe, alzati, siedi, rotolati, prega, o, fai la nanna, o balla… e al suono di certe canzoni le faceva saltellare e ballare da soli o in coppia o a tre, o a inseguirsi passandole tra le gambe mentre lei si spostava. Piccole coreografie divertenti… Poi c’erano i costumi, naturalmente, di ogni colore per ogni occasione, infine Waldo prese a portare un piccolissimo traino a rotelle attaccato al petto con una cinta speciale, leggerissimo, una specie di carro alla romana, fatto di legno, con grandi ruote di gomma. L’oggetto gli venne introdotto gradualmente, dapprima facendoglielo imprimere nella mente come un oggetto non ostile, vicino al quale gli venivano offerti tanti croccantini gratis, o al comando di avvicinarsi, o di sedersi davanti nel mezzo delle due braccia che estendevano, appoggiate al suolo. Poi venne introdotta la cinta attorno al petto, e imparata quella, finalmente si collegò la cinta al carretto e prese a muoversi con il traino, dapprima incerto ma, incitato dai nostri salti e applausi e dai tanti croccantini ricevuti, cominciò a muoversi lentamente, “Ferma. Siedi. Alzati, cammina, a sinistra, a destra…” Per poterlo allenare su un terreno più piano e più lungo del nostro salotto, prese a portarselo per strada e sul marciapiede lo portava a spasso brevemente facendolo abituare all’idea. Alle due femminucce venne insegnato ad affiancarlo, percorrendo coreografie, e prese a portarseli all’ospedale per eventi speciali, sia per i pazienti, che per il personale, facendoli divertire con delle piccole performance di qualche minuto. I tre assieme divennero: “The Precious Ones”… Io mi ritirai come performer, ma sostenevo alla moglie con ogni supporto possibile, dedicandomi a fare training assieme a lei, creando oggetti svariati su richiesta, o anche spontaneamente da me proposti, e dedicai perfino qualche pagina a loro sul mio sito web. Poi, Beth volle approfondire il suo insegnamento ai tre, prendendo classi di Agility, nel quale insegni ai tuoi cani come percorrere un determinato percorso, cosparso da ostacoli di vario genere, dei salti, delle passerelle, al tubo tunnel. Guarda caso, anni dopo, SweetPea è campionessa nazionale per tre anni di seguito, ma quella è tutta un’altra storia…

 

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6 risposte

  1. mi ricordo la palestra per i cani nel tuo giardino a Pacifica con un mini percorso anche un tubo tunnel…

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