Viaggiammo per ore senza fermarci costeggiando il fiume Kizil il cui vero nome e’ Kizilirmak, ma tutti lo chiamavano Kizil. Una fonte di ricchezza per la regione che era totalmente agricola. Un campo coltivato dopo l’altro lungo la valle ma arido e roccioso sulle colline oltre le quali si vedevano cime innevate. Non un albero all’orizzonte se non dei pioppi intorno alle sponde del fiume. Gli ultimi boschi che avevamo visto erano quelli sui monti intorno a Istambul ed i prossimi che avremmo rivisto sarebbero stati quelli sulle montagne vicino il confine con l’Iran. Per il momento c’erano 2000 chilometri di pianura, mossa e collinosa da traversare. Eppure l’Anatolia non sempre e’ stata cosi’. Ci furono tempi in cui era coperta da foreste di alberi millenari che ospitavano e sostenevano animali e popoli autoctoni. L’espansione degli imperi fu la fine delle foreste, i Persiani ne rasero al suolo una parte per creare un vuoto fra loro e i loro nemici, Alessandro Magno le uso’ per la sua conquista della Persia e i Romani le divorarono completamente per costruire e riscaldare le citta’ del loro impero e costruire le navi commerciali e da guerra per mantenere il dominio del Mediterraneo. Il legno dell’Anatolia serviva a scaldare l’acqua delle terme di Caracalla. Le terre spoglie furono coltivate per far mangiare le citta’ e gli eserciti. Le terre alte furono lasciate agli animali, sopratutto capre e pecore che mangiarono tutto fino all’ultima radice lasciando scoperte solo rocce e pietre. Quelle rocce e pietre su cui stavamo viaggiando.La deforestazione porto’ la malaria che circolo’ velocemente per l’Impero Romano facendo stragi non solo delle popolazioni urbane ma anche di contadini e soldati sparsi per l’Impero indebolendo l’esercito e provocando una delle cause del declino dei romani. Oggigiorno le cose non vanno meglio ma peggio considerando che i Romani avevano almeno l’attenuante dell’ignoranza che noi non abbiamo.Pensavo a queste cose mentre attraversavamo Sivas, la romana Sebasteia fondata al centro della Cappadocia.Il traffico sulla strada era limitato a camion e mezzi agricoli, antichi trattori con rimorchi carichi fino all’inverosimile, raramente automobili. Ogni tanto una camionetta piena di gente, uomini vestiti di nero e donne coloratissime. Piu’ si andava verso est piu’ le donne turche erano colorate. Si sarebbe detto piu’ libere. Lungo il fiume, c’erano campi coltivati con gente al lavoro, carri e animali, cavalli, mucche, cani.Passammo la notte in un paesino lungo la strada principale. Quando arrivammo c’era ancora un po’ di luce del giorno, i negozi erano aperti e illuminati la mercanzia rivelava la natura agricola del posto: attrezzi per la terra, per gli animali, terrecotte, frutta e verdure. C’era gente per la strada, i soliti cani magrissimi un po’ di bambini. Il paese si stendeva lungo la via principale e sulla collina antistante. In mezzo c’era la moschea. Niente a che vedere con il Sultan Ahmed e l’arroganza dei suoi sei minareti. Questa era una moschea povera con un solo minareto di color della pietra locale come del resto tutto il paese. Gruppi di gente sedevano davanti alle porte delle case, gli uomini fumando le donne chiacchierando. Qualche vecchio da solo fumando il narghile’. Subito provai una istintiva simpatia per quel posto sperduto al centro dell’Anatolia.Verso la fine del paese c’era un hotel con un ristorante e prendemmo una stanza al primo piano.Dal terrazzino sulla strada, si vedeva il paese in collina, la moschea con il suo minareto in miniatura, ogni tanto passava un carro agricolo trainato da buoi, un tipo a cavallo, un vecchio con il narghile’. Era diventato buio e c’erano solo poche lampadine qua e la’ ma dai negozi e dalle case veniva luce e suoni di radio. Definitivamente piu’ andavamo avanti piu’ viaggiavamo indietro nel tempo. Istambul era modernissima e lontanissima.Sotto il mio terrazzino c’era il ristorante con un forno a legna e gli immancabili shish kebab. Ai tavoli sulla strada c’erano uomini seduti a mangiare e bere te’ e naturalmente a fumare. Capivo da dove veniva in termine “fumare come un turco”. Decidemmo di andare a cena e ci sedemmo ad un tavolo libero vicino al forno. L’uomo dei kebab era occupatissimo e un ragazzino ci porto’ una teiera con due bicchierini di vetro. Pensavo di mangiare due kebab e del riso quando l’uomo dei kebab si sposto’ verso il forno, ne tiro’ fuori una scatola rettangolare di metallo tutta affumicata e la apri’. Dentro c’erano crani di pecora ben allineati, con i denti e gli occhi che mi osservavano. L’uomo ne prese uno ancora un po’ sanguinante con una mano e lo poso’ su un tronco accanto a me e con un colpo d’ascia rapidissimo lo spacco’ in due lasciando il cervello , gli occhi, la lingua allo scoperto con del liquame marrone che usciva fuori. Ero inorridito. L’uomo rise, prese un cucchiaio, tiro’ su un pezzo di cervello e me lo offri’ dicendo qualcosa in turco , probabilmente :“ Mangia questo se sei un vero uomo”. Mi sentii svenire, piuttosto sarei morto di fame. Ricorsi al trucco della mano sul cuore e gentilmente dissi di no. Nessuna insistenza. La testa fu portata ad un tavolo dove gli amici se la mangiarono con le mani. In che epoca ci trovavamo?Durante la notte fui svegliato da un rumore continuo che veniva dalla strada. C’era una processione di carri agricoli trainati da buoi carichi di frumento che stava attraversando il paese per sparire nel buio. Li guidavano donne con grandi fazzoletti in testa, bluse e gonne coloratissime e sotto la gonna i pantaloni. Uno stile che mi piacque moltissimo. Donne contadine, forti che sapevano prendere a calci i buoi quando ce n’era bisogno. Si parlavano da un carro all’altro e ridevano. A parte le teste di pecora quel paese mi piaceva.
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Pino CinoAdmine non te sei magnato la testina? romano? ma lì non l’ho mangiata neanche io. solo kebab, pomodori e uva
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Alessandra VassalloMa non ricordi i chicharrones ed il sangue di maiale ucciso alle 3 di notte e che tu ed io abbiamo dovuto gradire come breakfast? Anche perché, Pirata e Maria non hanno voluto mangiarli!
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Paolo PaciAuthorsi ma non era la testa…ricordo anche quando mi fecero uccidere la tartaruga per mangiarsela povera bestia, ma non potevo tirarmi indietro, ma alla fine era buona..ma quello e’ un karma che mi porto dietro… ma quella e’ un’altra storiaAlessandra VassalloPaolo Paci Onnivori per gentilezza, nessun karma!
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