Uno scritto di Paolo funge da input; chissà se riesco a farmi venire in testa una formula italiana di questa parola barbarica.
Il Paci si perdeva a raccontare di un suo amico tenuto dentro la sua memoria e degno di essere ricordato da un paio di pagine amorevoli.
Ho considerato che anche io posso aprire i cassetti della memoria e far rivivere sulla tastiera immagini, voci, volti che mi sono passati accanto e hanno lasciato una traccia. Usare questo blog per far rivivere chi non c’è più.
Il senso dello humor che ci accomuna può concedere spazio a una grattatina ma anche questo fa parte del gioco.
Il post di Paolo faceva seguito ad uno mio, protagonista Dunia che qualcuno di quanti leggono hanno incontrato e ricordano, quindi seguo un filo che mi porta alle donne che nella mia vita sono passate.
Parlo di femmine. Sicuramente distinte dai tipi maschi basicamente dotati di inferiore sensibilità. Riandando indietro con la riottosa memoria mi rendo conto una volta di più che con le donne sono sempre andato d’accordo.
Paura, imbarazzo, sono sensazioni mai vissute con loro forse grazie a un’infanzia coccolata dalle numerose femmine con cui crescevo: madre, zie, nonna, sorella.
Tanto è che anche la sessualità si affermava spontanea in me. A sei anni trovavo piacevolissimo giocare al dottore con Paola, la vicina di casa più piccola di poco. Invitarla ad alzare la gonna e lasciarsi abbracciare dopo aver tolto le mutandine era un bellissimo gioco che durò però un paio di volte soltanto perché lei ne raccontò alla madre e ne venne fuori un inferno. Fortuna volle che l’intelligenza da puericultrice diplomata di mia madre venne a galla e che senza traumi né scenate mi spiegò che non era il caso di dedicarsi a quei giochi.
La mia amica e la sua famiglia cambiarono casa qualche anno dopo, non era più stata mia compagna di gioco, e verso i diciott’anni mia madre, rimasta sempre in contatto con loro, mi disse che era morta in un paio di giorni di un male inaspettato.
Gli incontri con la morte in giovane età hanno un sapore diverso da quello che offrono durante la vecchia. Non c’è alcuna sorpresa oggi quando una telefonata o un post su uno dei media che accompagnano le nostre giornate ci annuncia della scomparsa di qualcuno che conoscevamo. Può destare in noi commozione, tristezza talvolta rimpianto ma raramente sorpresa.
Nell’arco di una vita abbiamo preso coscienza che a questa è connessa la fine. Inverosimile ficcare la testa sotto la sabbia e fingere di non sapere.
Giocavo con i soldatini accucciato sotto il davanzale della finestra. Ero nella camera di mio zio e del mio nonno materno.
Era finita da non molto la seconda guerra mondiale. Io avevo cinque anni e della morte sapevo. Chiacchiere a bassa voce in famiglia e persino Achille moriva, avevo letto su “Storia delle storie del mondo”, il mio primo libro, dato che zia Tita, a quattro anni appunto, mi aveva insegnato a leggere e a scrivere.
Erano tempi in cui tutta la nazione andava ricostruendosi un’identità compresa la famiglia in cui ero nato accolto come un raggio di sole. Otto persone in tre stanze non grandi e a me se non mi portavano fuori a fare una passeggiata rimaneva di giocare seduto sul pavimento della camera dove dormivano mio nonno e lo zio Adriano, tornato dopo cinque anni di prigionia in Africa nei cosiddetti Campi Criminali Fascisti: questo perché non aveva voluto rinnegare la sua camicia nera cosa che fece fino alla fine della sua vita.
Mentre nel cono d’ombra sotto il davanzale ero impegnato coi miei soldatini, al centro della stanza tra i due letti zio Adriano era occupato a sbarbare mio nonno, ottantaduenne con un arteriosclerosi notevole, che lo portava a distinguersi dal resto della famiglia cosa d’altro canto che era già prima della malattia.
Pittore, affrescando una chiesa all’Isola d’Elba, si era innamorato di una fanciulla di ottima famiglia e con lei era scappato a Tivoli, suo paese natale, e da lì a Buenos Aires. Racconti reticenti e confusi su quel loro soggiorno oltre mare ma di certo fu che la nonna tornò in Italia dopo di lui con una bambina di un anno e incinta di un’altra.
La famiglia aumentò ulteriormente in contemporanea all’ordine che il Fascismo dava all’Italia dell’epoca così che mia madre e i fratelli nati una volta tornata in patria crebbero Giovane Italiana e Balilla.
Nonno Amedeo, il pittore, no. Pensavano i figli a chiuderlo dentro casa quando erano previste celebrazioni e manifestazioni Fasciste che sarebbero state per lui un pretesto per indossare il suo fiocco nero da anarchico.
Con l’arteriosclerosi prese l’abitudine di rivolgersi a tutti in famiglia con un lei rispettoso e distante tranne che con me.
Memorabile che chissà che capriccio avessi fatto e mia madre in un accesso di puericultura scelse di legarmi al termosifone nella sua camera da letto. Entrò nonno con in mano una corda e accucciato accanto a me si legò anche lui. Un personaggio.
Ogni tanto spariva e per puro caso lo ritrovavano in giro per Roma sempre elegantissimo con bastone e cappello diretto a imbarcarsi per l’Argentina.
Quella mattina del dieci febbraio 1952 mentre si faceva sbarbare dal figlio e io giocavo non lontano dai suoi piedi lo udii intimare di fermarsi a suo figlio per poi esplodere una grandiosa risata. Mi voltai a guardarlo: rideva a più non posso, anche mio zio immobilizzato a fissarlo, poi si rovesciò sul pavimento con tutta la sedia: immobile con la bocca aperta.
Mentre mio zio chiamava le sorelle io fui portato in un’altra stanza: era stato il mio primo contatto reale con la morte.
Perlomeno cosciente. Due anni prima come ad ogni estate, eravamo partiti per Capoliveri, la famiglia di mia madre era originaria dell’Isola d’Elba, e come sempre mia madre pregò una qualche parente o un’amica di trovarle un appartamento in paese per quei tre quattro mesi.
Quell’anno ci toccò l’ultima casa del paese sulla strada verso la pineta e le miniere. Ci sistemammo, ci pensarono mia madre e mia nonna, io avevo tre anni e come al solito finito il pranzo venni messo a dormire.
Quando mi svegliai la prima cosa che chiesi a mia madre fu chi fosse quel signore con una luce sulla testa che mi aveva detto “Dormi…dormi”. Hai sognato mi rispose divertita mia madre. Che il giorno dopo raccontò l’episodio a Tina, l’amica che ci aveva trovato la casa che sbiancò e disse: “Bisogna andarsene da qua. In questa casa c’è morto un minatore”.
Incredibile? Avevo tre anni, ne ho 75 e ho quell’immagine ancora vivida: un uomo vestito di abiti dimessi con una lampada sopra la testa.
Cos’è la morte? Sicuramente parte della vita.
Non credo ai fantasmi né a baggianate simili. Come non ho mai dato retta a tre quattro tizi incontrati nella vita che mi hanno detto che ero un medium.
La morte lontano da religioni e infatuamenti è un punto di fine di una vita sia essa umana, animale, vegetale. Qualsiasi cosa che viva.
Io ne ebbi coscienza vedendo mio nonno spegnersi con una risata, poi ne vennero altre ovviamente con un’incidenza minore ma sempre colorate, differenti gradi di sbiadimento, via via che mi inoltravo nella vita e mi giungeva notizia che un compagno della prima media non sarebbe tornato quell’anno perché era annegato mentre era in vacanza. Poi ricordo di Fausto, un amico del Piper, di cui mi giunse notizia che era stato ammazzato da un assassino mai trovato probabilmente del giro di mala che bazzicava. Trafficava di tutto. Conosceva un mare di gente. Era sempre impicciato in qualcosa.
Quando decisi che del liceo ne avevo le palle piene mi presentò lui due fratelli che avevano un banco a via Sannio così che per un mese o due vendetti pantaloni da sci al mercato.
In qual modo si prende coscienza che esiste anche la morte? Cosa altro è se non scomparire, tacere, dissolvere?
In me non c’era spazio per credenze religiose: la cultura in cui ero cresciuto aveva lasciato il posto a conoscenze di altre religioni, filosofie differenti, nessuna superstizione che fuorviasse dalla certezza del silenzio e l’immobilità.
Questo mi accompagnò per tutto l’arco dell’esistenza: ho visto andarsene zie, nonni, genitori. Lacrime ne ricordo soltanto mentre guidavo la macchina per andare a vedere mio padre di cui una telefonata inattesa da parte della sorella mi aveva avvertito.
Mentre scrivo questi pensieri mi interrompe una telefonata: è Filippo per comunicarmi che suo padre se n’è andato questa mattina alle sette. Cristiano non c’è più.
Avevo parlato con lui una settimana fa. Stava molto male ma aveva trovato modo tra una morfina e un antidolorifico di intervenire in un post che io avevo pubblicato su Facebook.
Non potrò andare al funerale ho avvertito il figlio ma gli ho promesso di aprire una boccia insieme quando capiterà da me.
In quei cinque minuti di conversazione abbiamo accennato al fascino che il Metz aveva sulle donne e la sua difficoltà nel gestire il rapporto con loro.
Affiora il ricordo che la prima volta che lo vidi era in televisione a cantare una sua canzone. Si chiamava “Se io morissi”, ma cercata in internet non si trova poi però si è fatta viva sua cognata che tramite un annuncio su internet ha reperito un 45 giri gracchiante.
E della morte parlavo questa mattina con Gigi, passato a prendersi un caffè.
Mi hanno chiesto ridendo di lasciare il mio corpo alla scienza, i professori che al Sant’Andrea mi hanno in cura, perché il mio cancro che va avanti da dieci anni incuriosisce anche loro. Figurarsi se non da’ da pensare a me.
Con Gigi dicevamo della morte parlando di un sua amica che se ne è andata, questa fine ineluttabile dell’esistenza, e pensavamo a quanto può essere differente un cosiddetto colpo, apoplettico, d’auto, o comunque improvviso, e una morte che si annunci invece con una malattia o un lento e progressivo decadere del fisico.
Che cosa è la morte? Il vuoto, diceva lui. Il silenzio, dicevo io e rimango di questa mia opinione.
Di quanti se ne sono andati porto dentro con amore il silenzio.
La voce di Bormioli non c’è più; così come quella del Buzzurro e del Boccaccia e di Sever, Pierfranco, Arci, Giuliano. Compagni di strada per tutto il tempo che non ti saresti mai aspettato di smettere di sentire.
Quando mi fu diagnosticato questo cancro provammo subito a scherzarci su. Sever che era malato di non si sa bene che, mi chiamava un paio di volte a settimana ed esordiva regolarmente con “rottame uno a rottame due”.
Epico fu uno dei soliti incontri a casa da me per il pranzo della domenica e Paolo, il Buz, che girando intorno a una lampada: “Questa me la lasci a me, è chiaro” e mentre io accennavo scongiuri vistosi intervenne Gianni: “Fatela finita co’ ‘sta storia. Lasciaje ‘sta lampada, basta che ‘sto mobile lo lasci a me.”
Due mesi dopo quelle risate tutti e due se ne sono andati. Un breve inaspettato ospedale.
Sono le loro voci che mi mancano, i loro scherzi.
PS: visto il tema la grattatina è ammessa
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Una risposta
scorrevole e grazioso , come solo dei vecchietti che hanno vissuto l’età dell`oro di questo secolo possono cosi naturalmente esprimere .
Ma …” TE PIACE U PRESEPE ?” ( il buon Edoardo ) , e` FATALE…..hu hu hu non ricevere risposte dal resto del mondo !