Proprio da Sigies ci fu il fortunato incontro con l’Ingegnere, un signore afghano sempre di un’eleganza irreprensibile che aveva anche un nome, ormai perduto. Due chiacchiere come con tanti ma questo parlava uno splendido inglese e dopo qualche incontro nel locale dello scacchista, fatta amicizia, se ne venne fuori che era proprietario di un albergo, chiuso ormai, che avrebbe potuto affidare a noi, eravamo Renato ed io quella volta seduti al tavolo della colazione, dal momento che lui era di partenza diretto in Canada e non sapeva se sarebbe mai tornato a Kabul.Vero colpo di fortuna e il giorno stesso ci portò a vedere quest’edificio di due piani posto in una laterale in fondo a Chicken Street, sempre nel quartiere di Shahre Naow.Piano terra con una decina di stanze, reception, bagni e una larga cucina, più che agibile; secondo piano ingombro di letti, materassi e mobilia varia. Mi disse di farne quel che volevo e dove portare le chiavi quando avessi lasciato Kabul.Alloggio garantito per noi e chiunque amico fosse passato di là. Capitava spesso che gli ospiti fossero perfetti sconosciuti incrociati in città o bevendo un ciay in qualche locale.Si era all’inizio di giugno e la città cominciava a riempirsi di viaggiatori avventurosi che arrivavano fin lì con i mezzi più disparati. Il solo mezzo di scarso uso era l’aereo.Memorabile soltanto un trio di tedeschi che raggiunse Kabul in aereo e in aereo ripartì, o almeno tentò, dopo aver comperato un televisore, quei belli scatoloni con tubo catodico, duecento e passa chili di peso e misure tipo sei metri per sei, e averlo imbottito di hashish.Il giorno dopo tutta la città rideva di loro: come pretendessero di giustificare un acquisto del genere in Afghanistan dove di televisori in vendita ce ne saranno stati al massimo tre, era un mistero che divertiva chiunque a conoscenza della notizia.Il resto, più o meno lucidi, erano europei, americani, australiani, canadesi e un po’ tutte le razze in un’eterogenia allegra e rilassata.Gli afghani accettavano di ottimo grado la situazione rendendosi conto che i negozi di Chicken Street facevano ininterrottamente affari e così i ristoranti e gli alberghi. Proprio su Chicken Street una mattina incrociai due tizi che conoscevo di vista in compagnia di una occidentale giovane e attraente vestita di un mini abito colorato e trasparente che la lasciava praticamente nuda. Ridevano ben fumati ma io carpii gli sguardi di riprovazione degli Afghani che li incrociavano e mi intromisi nella loro allegria avvertendoli che non era il caso: se ne tornassero in albergo. Servì solo a farli ridere di più. La mattina seguente, approdato da Sigies per la colazione, il locale ancora vuoto, notai una ragazza accucciata accanto a un muro con i capelli che le coprivano il volto e la testa bassa tra le ginocchia. “Chi è?” domandai a un cameriere. “Una turista. L’hanno caricata su una macchina; portata fuori città e l’hanno fatta violentare da otto vecchi.”Riconobbi la ragazza del giorno prima. Non rideva.Questa era la Kabul dell’estate ’71, trafficata, multietnica e sostanzialmente piacevole. Non riuscivi a sentirti lontano da: anche grazie ai vent’anni eri al centro comunque.Una notte qualche mese dopo, era inverno e camminavo rasente i muri per tornare al mio albergo casa, sento della musica venire da una finestra bassa illuminata. Mi fermo attratto dalle parole cantate: “Imagine all the people, living life in peace…”Riconobbi la voce di John Lennon e mi fermai ad ascoltare tutto il nastro: era uscito un nuovo LP del Beatle e quella, nel buio e freddo fuori ad una finestra di albergo, fu la mia anteprima.Tra gli ospiti anche Humberto, uno spagnolo conosciuto a Goa nei mesi precedenti. Simpatico e amichevole finché all’orizzonte apparve Vivien, detta “Coscia lunga”.Il soprannome indirizza all’immagine della fanciulla olandese, indossatrice per non so che firma, che sulla via del ritorno ad Ovest si era fermata a far tappa a Kabul.Humberto, il sottoscritto e sicuramente qualcun altro, tutti ventenni e sangue caldo, avevamo drizzato le antenne e io e lo spagnolo eravamo quelli più attenti tanto che il nostro rapporto tese ad incrinarsi.Una sera che nello stanzone cucina dell’albergo sedevamo a bere e fumare, qualcuno prese su una chitarra e attaccò a suonare. “Bella,” disse lo spagnolo. “Spegni la luce,” esortò il cameriere.“No.” Dissi io che seduto a un tavolo giocavo a tresette con Renato e non so chi altro.“Spegni.”“No.”E Humberto andò alla porta di ingresso e spinse l’interruttore ma nel buio improvviso la sua silhouette si stagliava nel riquadro della porta aperta. Presi su una bottiglia vuota e gliela tirai addosso. Tempo un istante e a luce tornata, lui mi era addosso e cominciavamo una rissa a due che come premio, chissà dove, aveva la coscia lunga dell’olandese. Il locale si svuotò in un fuggi fuggi generale mentre volavano tavolini e sgabelli e Renato, il solo rimasto nella stanza, seduto sul bancone, ripeteva calmo: “Boni… boni…”Fondo di bottiglia infranto appoggiato alla mia gola, chiodoni di zampa di tavolino sulla sua tempia, ci fermammo, occhi negli occhi con l’affanno che ci sopraffaceva e buttammo per terra le armi.Risultato per me furono tre giorni sul letto con un ginocchio tipo melone e una fascia sullo stesso dove qualcosa mi aveva ferito la pelle e la mia attonita domanda: “Ma lui sta in giro? Non s’è fatto proprio nulla?”Tormentavo il buon Gianni che dormiva in camera con me e che un giorno mi procurò una divertente sorpresa.Si era creata una bella amicizia con Franceschinis, cancelliere dell’ambasciata italiana dove, prima di doverli vendere, portavamo spesso i cavalli a pascolare nei verdi e curati giardini del Ministero degli Esteri.Quella volta, trafelato, entrò nella mia camera Augusto, il nuovo cancelliere da poco arrivato a Kabul.“Cino. Mi devi aiutare. Hanno telefonato da Roma. Andreotti. Incazzatissimo. Qui a Kabul c’è il figlio del sottosegretario B. e noi non sappiamo nulla. Aiutami a trovarlo.”“Calmo Augu’. E’ questo sull’altro letto.” Che nel frattempo faceva ciao con la manina.A Kabul insomma non ci si annoiava e si facevano conoscenze sempre diverse. Un romano, ma proveniente da Amsterdam, finì anche lui ospite della maison, non ricordo se con donna o senza.Se l’era fatta anche lui via terra su una 2CV, ma una volta lì era senza più soldi, come il 95 per cento del resto, e una fottuta febbre epatica, forse epatite. Mi era simpatico e mi facevo regalare da lui tutti i disegni fuori di testa che faceva. Li ho conservati per cento traslochi e sono ancora con me.Quando la febbre si fece più brutta, mi decisi ad andare all’ambasciata e chiesi ad Augusto di rimpatriarlo a spese del governo. “Non è epatite. Si chiama hippite.”Fu la prima risposta ma rideva solo lui e io mi inalberai un pochino e siccome ogni tanto il cancelliere o il prete avevano bisogno di traduzioni o mediazioni con gli Afghani più tosti, mollò il colpo e organizzò il rimpatrio.Paolo, il disegnatore romano, stava messo così male che al momento di accompagnarlo in aeroporto insieme a Renato, gli regalai una camicia perché fosse un po’ più presentabile. Mai riavuta indietro. Ma ho i suoi disegni.
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