14 giugno 2020
Tutto cominciò ? 7
La stanchezza dopo l’arrampicata sul Salang Pass si faceva sentire, tanto che decidemmo di riconsiderare il consiglio che ci aveva dato quell’uomo a Kunduz. “Sarà dura”, aveva detto. “Fermatevi qualche giorno a riposare nel mio villaggio.”
Le spiegazioni che ci aveva date su come trovarlo sembravano semplici. Il suo nome e: “Alle prime case del villaggio chiedete di me e vi indicheranno”.
Fu così che scendendo più a valle stanchissimi, i cavalli più di noi, arrivati a quello che era uno dei primi cosiddetti villaggi, il solito gruppo di case più o meno squadrate fatte di fango pressato e poche pietre, facemmo il suo nome e subito ci fu indicato un muro più vasto in fondo a una strada.
Prima che arrivassimo lì qualcuno aveva aperto un ampio portone di legno. Ci venne incontro un uomo anziano che con grandi sorrisi ci disse che ci aspettava come il padrone aveva avvertito.
Entrati ci portarono subito a una grossa stalla coperta dove liberammo i cavalli dalle varie some, li facemmo bere per poi legarli davanti a mangiatoie ben cariche di fieno e biada. Noi fummo accompagnati ad un pozzo davanti alla stalla dove ci levammo un po’ di polvere da viso e mani, poi dentro la casa stessa in un ambiente vasto con varie porte e parecchi tappeti a terra e mentre il vecchio ci invitava a sederci fecero il loro ingresso delle donne con tegami e vassoi.
Non avevamo bisogno degli odori che si levavano dai piatti per accorgerci che avevamo fame così che facemmo onore ai cuochi in un battibaleno. Carne speziata sdraiata su un letto di riso, uva passa e carote alla julienne a formare un cocuzzolo dolce al centro: scoprimmo in seguito che era un Kabouli Pulao, il principe della cucina afghana con variazioni sul tema legate alle zone. Altra carne tipo spezzatino affogata in uno yogurt, speziato anche questo, piccante e circondato di chicchi di melograno grossi come uova di quaglia. Il nan non faceva in tempo a finire che ne arrivava altro caldo e profumato. Ciay che ci riempiva i bicchierini di vetro sottile e arabescato senza sosta. Non so cos’altro arrivasse nei piatti ma ricordo che Lucullo si alzò e scappò via vergognoso.
Il dialogo durante la cena non fu granché ma fu comunque ricco di gentilezza, sorrisi e tra noi di risate rilassate.
Riuscimmo a capire che il nostro ospite aveva dovuto trattenersi a Kunduz per non so quali affari ma aveva fatto arrivare ordini precisi circa l’ospitalità da offrirci.
Cadere preda dell’ospitalità e della compita cortesia orientale era un trip sperimentato fin dai primi contatti con quei selvaggi.
Al passaggio a Istanbul sulla via per l’India circa un anno prima, indimenticabili furono quattro studenti su per giù della nostra età, incontrati a Sultanahmet, che dopo uno scambio per conoscersi un minimo ci invitarono tutti e sette, quanti eravamo a inizio viaggio, ad andare a pranzo a casa loro. Avevano comprato da qualche parte lungo la strada il tradizionale pane speziato turco, il Baziama, che avevano farcito con kebab e pomodorini. Un cibo non da banchetto ma offerto col cuore, seduti sui tappeti nella stanza colma di libri, scrivanie e i loro letti. Quattro sconosciuti che accoglievano dei viaggiatori offrendo quel che avevano come la loro scarsa civiltà insegnava. Una lezione, e fu la prima.
Un banchetto ci sembrò invece quello di Jabal-os-Sarāj, se non sbaglio il nome del villaggio che avevamo raggiunto, ma il nome del posto non è molto importante quando finalmente hai un pasto caldo e il calore di un’accoglienza squisita.
La parte migliore di quella tappa doveva ancora venire perché non avrei mai immaginato di trovare lì la camera da letto più bella cha avrei avuto nella mia vita.
Ci portarono in una stanza dove erano pronti tre caratteristici letti afghani ricoperti con dei tappeti, poi in un’altra stanza adiacente anche questa con un paio di letti facendoci intendere che potevamo scegliere l’una o l’altra. Da questo secondo ambiente, lungo la parete si arrampicava una breve scala in muratura che spariva nel buio di un piano superiore. Non so che curiosità mi spinse a salire e subito uno degli abitanti della casa che ci aveva accompagnato mi fece strada con un lume a petrolio in mano.
Esisteva un piano di sopra, un’altana spaziosa che distingueva la casa da tutte le altre del villaggio scoprii in seguito.
Una stanza rettangolare con tre finestre chiuse da vetri e una quarta finestra da cui penetrava all’interno un ricchissimo tralcio di vite che si snodava lungo le travi del soffitto e che pur alla luce scarsa della lampada vidi colmo di grappoli bianchi ed enormi.
“Dormo qui.” Dissi, credo in italiano, e tornai giù a recuperare il mio sacco a pelo.
Ho dormito in suite e camere all’Hilton, al Prince Edward, al Taj Mahal, Sheraton e non so quanti altri alberghi e case, mie o che mi ospitavano, ma svegliarsi la mattina dopo, forse le otto, con quei grappoli d’uva dorata dal primo sole e odorosa che mi pendevano sopra il naso non l’ho mai più avuto.
Mettersi in bocca quei chicchi e sentirli esplodere in una colata di succo dolce e fresco.
Che cosa è un re?
Scendendo poco più tardi per un ciay e del nan appena fatto realizzai che tutto intorno alla casa non c’era un cortile polveroso o il solito orticello ma un paradiso colmo di ciliegi e melograni in fiore, meli e uva rossa e bianca. Pomodori, insalate e altre verdure mai viste che ricordavano cetrioli, zucchine e sicuramente ladyfingers.
Il paradiso terrestre con canaletti d’acqua che scorrevano lungo i perimetri delle varie aiuole con un fruscio discreto e suadente.
Alzando la testa vedevo la mia camera da letto dentro la cui finestra si perdevano i tralci della mia colazione.
Trascorremmo una mattinata pigra che ci allontanò dall’aridità del passo di montagna che avevamo lasciato alle spalle.
Dopo pranzo, anche quello più che soddisfacente, l’idea di una passeggiata nei dintorni. In sella e via al passo verso alcuni boschi che scorgevamo ai limiti del villaggio.
Piacevole quell’ombra, qualche gelso da piluccare e ci accorgemmo che si stava facendo tardi: il sole già non si vedeva più e lo scarso chiarore non ci faceva riconoscere la strada fatta per arrivare lì.
Ero io in testa e gli altri mi seguivano con calma. Si era fatto buio quando realizzai che avevo sbagliato strada e chissà dove stavamo andando. Mi arrabattai a pensarne di tutte ma la sola cosa erano i rami che dentro quel bosco mi sbattevano sulla testa e sul viso.
Tra le varie pensate arrivò quella giusta: riflettei che i cavalli come noi avevano fame e memore della capacità dell’occhio del cavallo che vede nel buio, mollai le redini sul collo di Abrash, io mi dedicai soltanto a evitare i rami in faccia e lo lasciai pensare lui alla strada da fare. Una mezzoretta e ci portò davanti al muro della casa.
Quello si, Abrash, un animale intelligente.
Il verde nei giardini in Afghanistan è più verde
che meraviglia
Niente di meglio di un RINFRESCANTE racconto mattutino per ben cominciare una settimana mediterranea ….BUONA GIORNATA Pinù !
Una specie di “società de’ magnaccioni” in trasferta in Afghanistan?
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