30 maggio 2020
Tutto cominciò ? 3
Il tempo a Kunduz se ne andò pigro tra l’albergo, un ristorante che era diventato il nostro preferito e soprattutto la quotidianità con i cavalli. Nessuno di noi tre ne aveva mai posseduto uno e la sola esperienza riguardo il nobile animale si rifaceva a un’ora di affitto nei maneggi di Roma o Venezia o altri luoghi in Italia.
Viverci insieme era anche foraggiarli, strigliarli, mettere coperte, selle e finimenti; ripulirli da zecche e ospiti vari, portarli fuori perché si abituassero a noi come noi dovevamo abituarci a loro. Tra la stalla dell’albergo e un parco non molto distante o dei campi sterminati e senza un albero che andavano fino al largo fiume che scorreva verso l’Amu Daria e il confine Tagiko in territorio russo.
Capitava in quei campi di assistere ad estemporanei Buskashi giocati da una ridda di cavalieri locali, quasi sempre non professionisti ma semplici appassionati, un po’ come le partite di pallone nella piazza del quartiere a casa nostra.
Due squadre o anche tutti contro tutti, in sella a cavalli particolarmente scattanti, abituati ad essere comandati con la stretta delle ginocchia o il bilanciamento del corpo del cavaliere, per arrivare a raccogliere da terra una capra morta e portarla a una meta prestabilita. Semplice in teoria, se non fosse che regole non ce n’erano e i restanti cavalieri dovevano impedire con ogni mezzo a chi per primo aveva afferrato la carcassa, di raggiungere il punto di arrivo che poteva essere un palo o un cumulo di sassi.
Impedirlo con ogni mezzo stava a significare il cavallo spinto contro l’altro cavallo, il cercare di afferrare e disarcionare l’avversario, anche colpire con pugni e calci o colpi di Kamcim, un corto frustino fatto di legno cuoio e budello, l’avversario sulle mani o sulla faccia.
Sport da signorine ma una passione irrefrenabile per gli Afghani come per i popoli di tutta quell’area.
Chiaro che vedere degli stranieri apparsi dal nulla con cavalli propri partecipare a un Buskashi sarebbe stato bellissimo per loro ma sicuramente non per noi. Nonostante gli inviti non ci sfiorò mai l’idea di buttarci nella mischia. Soltanto io mi lasciai tentare tempo dopo, quando eravamo già a Kabul, ma tutto quel che feci fu caracollare al bordo del terreno di gioco.
Il Buskashi comunque mi rivelò che non sarei mai potuto essere un foto reporter, benché avessi cominciato ai tempi della prima comunione con una Comet II Bencini per approdare poi alla mitica Nikon F.
La verità amara si mostrò assistendo al Buskashi del Re che avveniva una volta all’anno a Kabul.
Partecipavano le squadre delle varie province afghane e una folla di spettatori degna di una finale. Gli stessi spettatori delimitavano l’area sterrata e polverosa grande quanto due campi da calcio.
Le casacche variopinte dei Chapandaz, le bardature degli splendidi cavalli, le bandiere, l’eccitazione della festa: uno spettacolo grandioso.
Io avevo trovato posto su un lato corto del rettangolo di gioco, di fronte alla tenda che ospitava re e dignitari vari, così scattai le prime foto girando tra la folla prima del via e a seguire foto dei Chapandaz quando si lanciarono a raccogliere da terra la carcassa del montone.
Galoppavano ammucchiati in una marea di cavalli e cavalieri che come un’onda in burrasca si spostava da un lato all’altro del campo, scartando all’unisono improvvisamente verso una differente direzione nel tentativo del Chapandaz che guidava la corsa di sfuggire ai colpi di quanti gli erano a ridosso.
Andarono a sbattere contro una tenda limitrofa a quella reale devastandola e mentre gli spettatori cercavano scampo fuori da quella, tornarono a scorrazzare in campo aperto.
Dalla tenda semidistrutta ci fu un viavai di ambulanze, seppi il giorno appresso che c’erano stati quattro morti tra gli spettatori e non so quanti feriti, seguite da un paio di carri gru che si portarono via due cavalli.
Ancora sconfinarono, finendo addosso alla folla dal lato opposto alla mia postazione. Poi li vidi venire verso di me al galoppo tutti insieme: gli zoccoli che battevano la polvere come tamburi impazziti, la schiuma alla bocca, le urla dei cavalieri e quelle degli spettatori. Intorno a me fu un fuggi un fuggi totale ma mi resi conto che i cavalli sarebbero stati molto più veloci così me ne fregai di Nikon, obbiettivi, pellicole e borsa e mi addossai a un palo della luce lì vicino cercando di assumerne lo spessore: i cavalli evitarono il palo e mi passarono accanto in un turbinio di terriccio. Me l’ero cavata e se la cavò anche l’attrezzatura del grande fotografo pur sparsa a terra, così che ci volle qualche giorno per ripulirla.
Mi capitò qualche mese dopo di assistere alla prima di The Horsemen un film con Jack Palance e Omar Sharif, imperniato proprio sul Buskashi reale, e lo vidi al Bhaktar, il solo cinema di Kabul.
Spettacolo nello spettacolo la partecipazione emotiva del pubblico, tranne verso la fine del film quando il Chapandaz protagonista fa l’amore, omaggio hollywoodiesco, con la donna Kochis, una nomade, specie di intoccabili per gli Afghani.
Ancora prima del Buskashi, in quel di Kunduz, Geppi, Roberto ed io si aveva da combattere col nobile animale, tutto da scoprire.
Le reazioni alle voci e ai toni stessi. I gesti vicino a lui. Un movimento brusco o una carezza sul muso. Piano piano cominciammo a capirlo, questo animale tanto più grande di noi e che pure di noi ha paura se lo accostiamo nel modo sbagliato. Il cavallo ha bisogno di vederti di fianco, lì dove il suo campo visivo inquadra meglio, per cui imparammo a frequentarli evitando calci e morsi.
Fu un mese intenso completamente dedicato a quelli che sarebbero stati i nostri compagni di viaggio.
Ne avevamo comperati sei, due per uno. Due da sella, due puledri intorno ai due anni ma già domi e due strutturati da poter tirare la carrozza.
Pensavamo noi; perché uno degli intelligenti animali non tollerava di tirare in coppia con un altro suo simile così che appena ne avvertiva la presenza si buttava contro la stanga esterna, mettendosi di sbieco e finendo con l’incrociare le sue zampe con quelle dell’altro fino a inciampare.
Una, due, dieci volte.
Io l’avrei caricato di bastonate ogni volta ma Geppi era della teoria animale intelligente, così che finiva sempre in una discussione fra lui e me.
Decidemmo infine di affidarci a un istruttore di cavalli indigeno, sapevano come fare, e ne ingaggiammo uno.
L’afghano venne, si mise a cassetta accanto a noi e partimmo per un breve tour di prova.
Tutto bene finché l’immonda bestia ripeté il suo giochino e mandò in ginocchio il cavallo appaiato.
Presto risolto: l’afghano scese immediatamente, raccolse dal ciglio della strada un sasso che stava appena nel suo pugno, andò davanti al cavallo, gli disse qualcosa in tono sommesso ma veemente poi gli mollò un colpo con quel sasso sulla fronte: il cavallo piegò un attimo le ginocchia, un sottile rivolo di sangue prese a scendergli sul muso.
Ripartimmo; noi eravamo allibiti ma l’animale intelligente non ripeté più il giochino. Almeno per un po’.
Arrivò il momento della partenza. A noi si era aggiunta Nicla, vecchia amica romana che ci aveva raggiunti per fare insieme la strada verso Kabul.
Lei a cassetta sulla carrozza con Aiatolla, un ragazzino afghano con il mio Enfield appeso alla spalla per sentirsi grande e importante, che aveva espresso il desiderio di arrivare anche lui a Kabul dove aveva parenti, Geppi ed io cavalcando: io in sella ad Abrash, il mio sauro di 11 anni, e Geppi su un baio più giovane.
Paesaggio monotono ma piacevole con le montagne ancora innevate sullo sfondo e ogni tanto i boschetti di gelsi che Abrash mi fece scoprire, io romano di città, impuntandosi lì dentro a voler mangiare quelle grosse bacche bianche. Una meraviglia.
Acqua da filtrare tra le dita, quella stessa che irrigava gli scarsi campi. Una quiete assoluta e notti nei sacchi a pelo.
Viaggiando così con i cavalli al passo, cominciavano le prime salite e proprio su una delle prime, carrozza davanti, Geppi a seguire e per ultimi, un po’ discosti, Roberto e io su Abrash sentimmo Geppi urlare: “Nicla buttete! Buttete!” e vedemmo la berlina inclinarsi su un fianco giù per una breve discesa fuori dalla strada.
L’animale intelligente aveva deciso di riprendere il vizio di buttarsi sulla stanga esterna trascinando l’altro cavallo e la carrozza di sotto. Non precipitò più di tanto ma finì rivoltata su un fianco sfasciando alcune parti della struttura di legno.
Nicla rotolò per alcuni metri e dovemmo poi dedicarci a rimuoverle da dosso spini vari. A me, che mi aveva preso bene, venne l’idea di prendere arco e frecce e tirarne qualcuna sulla diligenza attaccata dai pellerossa.
Dai pullman che sopraggiungevano scendevano gente e consigli sul da farsi; arrivò anche la polizia e la soluzione migliore sembrò quella di caricare il leso pezzo da museo su un camion che trasportava macigni di sale e portarlo a Kabul per le riparazioni.
Toccò a me e Nicla che ne approfittò per non perdere il volo di ritorno a Roma. Appoggiati a un macigno meno scomodo di altri nel cassone del rumorosissimo camion viaggiamo finché non si fece scuro poi l’autista accostò, scese, ci fece un cenno e si allontanò lungo la strada.
Aspettammo di vederlo tornare ma niente. Passate un paio d’ore, io, cavaliere generoso, offersi a Nicla il mio sacco a pelo tipo mummia e ci disponemmo così a trascorrere la notte.
Ancora qualche ora e il cavaliere generoso svegliò Nicla e le disse: “Oh, me devi fa’ posto anche a me.” Eravamo oltre i duemila metri e il freddo della notte era micidiale.
All’alba vedemmo arrivare bello rilassato il camionista. Un po’ alterato gli domandai dove fosse finito. “A dormire”, mi rispose. “Ciay shop”. Che era subito dopo la curva. Appunto: bella gente gli Afghani.
Lo obbligai a fermarsi per prendere anche noi un ciay col nan e prima di sera arrivammo a Kabul.
Paolo Paci
Una carrozza? certo di matti ne ho visti in giro ma in carrozza mai
Pino Cino
avrei voluto inserire le due foto lungo il testo. no way. copiato e incollato il testo giusto. grazie
Paolo Paci
Pino Cino
il racconto è bello, mi piace come parli dei cavalli
Matteo Tinti
Pino stupendo il racconto ….. da farne un film dopo il libro
Pino Cino
l’ho mandati a tuo padre via wa
Matteo Tinti
Pino Cino
abbiamo parlato di voi e dei vostri viaggi wild tutta la sera grazie dello spunto …… mi è piaciuta quella della carabina in ambasciata pakistana
Pino Cino
Matteo Tinti
carabina? dovrò chiamare tuo padre perché questa non me la ricordo
Matteo Tinti
Pino Cino
la pistola in frontiera che avete dovuto dichiarare chiamalo sarà contento
Pino Cino
ah… la mia Mark a tamburo. pistola che poi mi fu rubata da due bambini
Matteo Tinti
Pino Cino
esatto non sapevo del furto
Gippi Rondinella
too much..!
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2 risposte
fantastico! a cavallo ! e in carrozza tipo diligenza ! mitici👏🏻❤️avrei voluto esserci anch’io!
presa da Alberto? ??? che vuol dire?