E’ bello sapere che Paolo, il disegnatore romano, ricorda più o meno il contrario: sarebbe stato lui a dare a me una camicia a pallini.Ho scritto un po’ più in là di quattro amici arrivati a Kabul da Roma su una 500 Fiat rossa. Qualcuno mi rinfresca che arrivarono in autobus. E’ vero: furono altri quattro ad arrivare con quella 500.Buffa la memoria. In quale paiolo rimescola e di cosa non è capace?Per andarsene a zonzo tra i ricordi è bene indossare un mantello di ironia colorata e tanto amore per la vita, evitando la trappola delle scommesse. Mezzo secolo del resto è una bella cristallizzazione: non c’è surgelatore che tenga.Da qualche parte dicevo che Henry Miller in un libro incontrato proprio a Kabul mi convinceva che lo scrivere era una perdita di tempo.Riflettevo al tempo, quante cose passano fuori dalla porta mentre te ne stai a scrivere della vita e delle cose che nel frattempo sono passate? Questo era quanto mi fermò dal diventare uno scrittore quando ero giovane. Adesso poco è cambiato perché con la vita che sto facendo a settanta anni non è diversa la faccenda. La vita, se me ne sto sull’uscio e lo lascio aperto, continua a portar situazioni e sensazioni che ben valgono la pena e la gioia di essere assaporate.Quello stronzo di Miller si riaffaccia nella mia strada mentre riprendo a sfogliare quei libri che avevo letto cinquant’anni fa e mi soffermo a leggere un’epigrafe nel Tropico del Cancro di Ralph Waldo Emerson:“E poi, a poco a poco, i romanzi cederanno il passo ai diari, alle autobiografie; i libri avvincenti, purché chi li scrive sappia scegliere fra ciò che egli chiama le sue esperienze, quella che davvero è esperienza e il modo per raccontare veramente la verità.”Gran figlio di puttana, l’amico Miller.Le esperienze e quel che lasciano nella memoria.A vent’anni volevo vivere assaporando i momenti: sulla strada c’ero.Mi mancava solo il Corriere dello Sport mentre a Goa gozzovigliavo tra l’oceano, i miei quadri, amici splendidi.Ci mancavano soltanto notizie della Fiorentina, dell’Inter e della Juventus, rispettivamente a me, Giuliano e Marcello. Fu così che il mio fervido ingegno mi fece prender su un areogramma e una penna e scrivere una lettera capolavoro indirizzata a: Direttore Corriere dello Sport. Roma.Null’altro, salvo una presentazione di noi tre, ricordo ancora alcuni passaggi: siamo tre hippies come i tre moschettieri o i tre porcellini arrivati fin qua in due mesi di viaggio via terra. Abbiamo questo e quello e quell’altro, con relative descrizioni.La sola cosa che manca è sapere qualcosa delle nostre tre squadre.Il tutto intriso di divertimento, concludendo con un: “Ma il Corriere, deh!, mandacelo!”Firma, due risate con i miei amici e tempo una quindicina di giorni al Post Office mi dicono c’è una lettera per me.Qualche impiegato romano intraprendente aveva fatto arrivare la mia lettera al recapito del giornale e il direttore, certo Antonio Ghirelli, mi rispondeva che si, avrebbe provveduto a farci arrivare il Corriere del lunedì, quello completo di risultati e classifiche, ma scriveva anche di aver apprezzato il mio modo di scrivere e voleva che gli facessi un racconto del viaggio e relativo soggiorno in India.Figurarsi se non fu una sorpresa e una festa. Il giornale arrivava il giovedì mattina e quello era il giorno in cui facevano a gara Marcello, Giuliano e Pierfranco a chi si alzava prima per correre all’ufficio postale.Di scrivere per Ghirelli nemmeno il pensiero, anche se arrivò un’altra lettera di esortazione.“Scegliere fra ciò che egli chiama le sue esperienze, quella che davvero è esperienza e il modo per raccontare veramente la verità.”Così il fatto che cinquant’anni dopo qualcuno ancora sopravviva mi mette davanti al fatto che la 500 rossa portava altri quattro romani a Kabul. Non furono miei ospiti nell’albergo di Shahre Naow, ma li conobbi e ci rimasi di merda quando tempo dopo seppi che uno solo di loro era ripartito in macchina incappando però in un incidente mortale in Iran.Fottuti stronzi. Gli iraniani dello Shah in combutta con la Dea americana, avevano trovato il modo di non affollare le loro splendide prigioni e ogni tanto, beccato qualcuno con relativo carico di hash afghano, lo facevano fuori inscenando un incidente di macchina poco dopo il confine.Una coppia di olandesi, un lui e una lei che avevano comprato una mia valigia ma che poi, anche se sconsigliati, avevano fatto fare un doppio fondo alla Citroen DS, ebbero la stessa sorte. Con loro morirono anche i due setter inglesi che si portavano dietro dall’Europa. Particolare fu andare insieme a comprare il polline dalle parti di Jalalabad da un rivenditore Hazero.Strana gente questa: i paria dell’Afghanistan che già si distinguevano per i caratteri somatici spiccatamente mongoli e per giunta durante la terza guerra Anglo-Afghana, avevano avuto la brillante idea di tradire e aprire le porte agli Inglesi. Vinta la guerra gli Afghani avevano pensato bene di mettere su un bel genocidio e negli anni 70 gli Hazeri superstiti pagavano ancora dazio.Si distinguevano dai tratti mongoli, la religione sciita, i mestieri più umili e le loro usanze.Cena a casa del boss dopo trattativa e susseguente fornitura. Grandioso vassoio, come piatto principale insieme al riso, ricolmo di pezzi di carne affogati nello yogurt e colorati di salsa di peperoncino.Prendendo su il quarto pezzo dico al padrone di casa che non avevo mai mangiato il montone fatto a quel modo e che mi piaceva molto. “Non è montone”, mi risponde indifferente, “E’ sagas.”Sagas in Farsi o Dari vuol dire cane e quel genio di Renato che parlava anche lui la lingua, in italiano mi fa: “Ma che ha detto? Cane?”Io che mi ero fermato con le dita della destra sospese sul vassoio rifletto che tre pezzi mi erano piaciuti molto e quindi senza farmi inibire dalla cultura tiro su il quarto. La coppia di olandesi che l’italiano lo capivano invece si inalberano. In macchina nel cortile avevano i loro due Setter.Cominciano a urlare. Si alzano ed escono. Renato ed io cerchiamo di calmare la situazione col padron di casa che non capisce cosa sia accaduto e con calma molliamo gli ormeggi.Dei due poveri olandesi qualcuno che arrivava a Kabul disse di aver visto la macchina bruciata sulla strada per Mashad.
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