26 maggio 2020
Tutto cominciò?
C’eravamo svegliati come tutte le mattine appena la luce aveva svelato le cose intorno. Un’altra mattina limpida di sole come soltanto in primavera a duemila metri di altitudine può essere. Le montagne spoglie erano ormai alle spalle e davanti si succedevano brevi pianure una uguale all’altra fatte di arbusti bassi e pochi radi boschi di gelsi.
Ogni tanto viaggiando incontravamo sparuti gruppi di case, le solite fatte di fango e sassi a tenere insieme pochi blocchetti e lì, in quei pomposamente detti villaggi, ci fermavamo a dormire quando imbruniva.
Quella mattina, uguale a quante si erano succedute nei giorni precedenti, avevamo sellato i cavalli, bevuto il nostro tè nell’immancabile tavernaccia, spesso accompagnandolo con una bella porzione di Kaimak, forzata su un pezzo di Nan. Forzata perché quella che doveva essere panna del latte che bolliva lento nel grande pentolone in fondo alla stanza, si presentava più grassa di un burro e compatta come un. Ottima comunque a quelle altitudini e abbastanza energetica da farci andare per quattro o cinque ore senza avvertire la voglia di mangiare.
L’aria frizzante dell’alba, il sole che si faceva via via più tiepido, le creste intorno piene di ghiaccio che si scioglieva lenti, il verde grigiastro e il bruno chiaro delle rocce e della polvere: il paesaggio intorno scorreva monotono mentre i cavalli andavano con un passo lento da escursione. Non c’era bisogno di spingerli perché nessuno ci correva dietro e la via della seta stava lì da mille e più anni: due hyppies avventurosi potevano benissimo prendersela comoda.
Che ci facevamo lì? Era nato tutto da un’idea di Roberto ed io l’avevo colta al volo visto che non avevo assolutamente idea di cosa avrei fatto della mia vita a quel punto.
Mesi e mesi a Goa dipingendo, scrivendo, incontrando gente impensabile lontana da ogni luogo; tra le palme, il rumore dell’oceano e i maccarelli cotti in ogni possibile modo, finché venne il momento di dirsi: “Che cazzo ci faccio qui? E’ ora di tornare nel mondo.”
Yoga, meditazione, I King, i libri da leggere che erano finiti da un pezzo, gli amici più vicini se ne erano andati o si preparavano a tornare in occidente: per Mykonos, Ibiza, le coste di Recife o New York che fosse. Nulla di tutto questo mi attirava e la sola certezza che mi galleggiava dentro era il senso di libertà di chi si sente assoluto padrone di sé stesso e del proprio tempo. Nessuna paura né mancanza. Soltanto, appena ogni tanto, la quotidianità di una donna, ma a quei tempi, non avendola ancora sperimentata era più un’intuizione che un bisogno.
Alle spalle c’era Roma, la musica, le facce di sempre e davanti un domani tutto da scartare come un regalo a sorpresa.
Partivo dalle palme e le sabbie di Baga, ricco di un’esperienza che sapevo non comune ai coetanei in Italia.
Da casa di mio padre e mia madre, dalle sere in discoteca, l’esperienza della comune in cui avevo vissuto, il fantasma degli studi da portare a termine, mi ero ritrovato in quel paesaggio, così diverso dalle strade romane, fatto di odori e suoni sconosciuti, gente con la pelle di un altro colore, cibo diverso, diversi i colori, le luci e le ombre differenti. L’oceano poi, e chi se lo immaginava prima? Un conto vederlo in televisione o al cinema, un altro tuffarsi dentro quelle onde torbide inarrestabili che senza sosta morivano tra i granchiolini minuscoli che scavavano la sabbia, e vedere i delfini nuotare a poca metri da te, parlargli senza mai convincerli a lasciarsi toccare, tranne l’ultimo giorno che uno mi diede una musata gentile nella schiena, e rendersi conto che la gente di lì, lontana dall’ipotesi di ogni altra possibilità di esistenza, di quell’oceano viveva da sempre.
Pescare e incontrarsi con gli altri, sposarsi, fare figli, morire. Le generazioni più giovani cominciavano a sognare un mondo diverso che le usanze dei Portoghesi, padroni di Goa fino a pochi anni prima, gli avevano fatto intuire; ma la televisione non c’era ad aprirgli finestre, il cinema era un lenzuolo bianco teso in fondo a un capannone una volta al mese. Non c’era ancora l’elettricità; tanto meno c’era coscienza di una possibilità di vita diversa.
Io, come gli altri che sarebbero arrivati dopo di me, portavo dentro l’abitudine agli scaldabagni, le cinquecento Fiat, i Vespini, le Saxon, le Clark, la metropolitana addirittura e tutto quello che lì non era proprio immaginabile.
Lume di candela o lampade ad olio, l’acqua per bere e lavarsi da tirar su dai pozzi; fornelli a cherosene, lunghe camminate tra i palmizi per andare al mercato a comprare verdure e frutti dall’aspetto strano e dal nome ancora più estraneo.
Bello tutto ciò, sempre che uno avesse lasciato da parte la paura dell’incertezza, ma si sa, “Ho vent’anni e i miei vent’anni vendo” e quella era la filosofia che ci metteva sulla strada.
C’erano già stati i tentativi di schedulare i moti di quella generazione nel cliché delle lotte di classe, ma la maggior parte di noi veniva da comode infanzie borghesi così che i bisogni proletari erano una bandiera vuota, utile solo a liberare l’individuo quando si ritrovava massa.
Per me, come per altri che avevano cercato di indagare l’esistenza e sé stessi attraverso le letture più disparate o attraverso l’esperienza con la droga, a quei tempi la droga non si associava alla parola pericolo ma significava scoperta di sé e sperimentazione, era stata una necessità tenersi lontani dalle assemblee universitarie dove quattro tizi con smanie mal celate di protagonismo cavalcavano il bisogno di non monotonia di una generazione.
So che questo è offensivo per quanti hanno creduto a quella spinta ma dovrebbe bastare la realtà che ne è risultata a far tacere chiunque.
Dunque noi, che avevamo letto Kerouac, che avevamo preso l’acido di Timothy Leary, che avevamo letto Pavese e Sartre e Aut, Aut e Nietzsche e Le mani sporche e l’autobiografia di Jung e il Tibetano dei Morti, e chi più ne ha più ne metta, nella sete di capire i perché, ci ritrovavamo sulla strada che andava a oriente dove si diceva risiedesse una verità diversa da quella ipocrita che a noi avevano tentato di propinare.
Goa era un mito che cominciava a circolare e qualcuno trovò il coraggio di mollare tutto per andare a vedere.
In effetti c’era lì una realtà differente: l’India, per citare un breve esempio, con le follie di uomini che dormivano seduti sulle punte dei chiodi o chiedevano l’elemosina sospesi a trenta centimetri dal suolo, e quella volta, eravamo al mercato di Mapuca, mi affrettai ad andargli alle spalle e passare un piede sotto i suoi indiscutibilmente sollevati dal suolo prima di lasciare una rupia nel bussolotto e squagliarmela con la testa svuotata e un sorriso ebete sul viso.
Ad ogni modo quella realtà apriva spazi nuovi di indagine; lasciava intravedere ragioni di vita altrimenti impensabili.
Così, lunghi mesi a quelle latitudini servirono a spazzare via eventuali dubbi. Non era turismo quello: era un battesimo alla vita che sarebbe stata.
Farsi curare un’epatite dallo sciamanno del villaggio, non era, di là dall’azzardo, un vezzo New Age, ma un tuffo in una conoscenza di cui fino allora non supponevi l’esistenza.
Venir fuori da un primo incontro con Fefè Trinidad che ti spruzza addosso un miscuglio di radici grattugiate mischiato ad alcool di cocco dopo averti segnato col dito inumidito varie croci alla giunzione dei chakra e poi di quella stessa poltiglia te ne fa buttar giù un cucchiaino dicendo “Verrò fra tre ore e la febbre sarà passata ma tu tieni accesa una candela per San Francesco di Xavier”.
Wow. I portoghesi li avevano fatti diventare cristiani ma i loro mali se li curavano come avevano sempre fatto.
Ne risultò che una settimana dopo io giocavo di nuovo a pallone sulla spiaggia con Thomas e gli altri pescatori, mentre a Julian e Marcello, che si erano ammalati in contemporanea a me, ci vollero due settimane per fare ritorno dall’ospedale della capitale, sfatti di cortisone e di letto.
Realtà. E’ chiaro allora che non puoi che chiedere a Fefè di trasmetterti la sua conoscenza e accettare di essere svegliato alle due di notte per andare a cogliere un’erba che quando la luna è a quel punto deve essere recisa, in cima a quel cocuzzolo e solo quello, in mezzo alla foresta di palme. Ovvio che il nome di quella pianta io l’abbia oggi dimenticato visto che nella pianura Padana o ai Castelli Romani non cresce quella stessa erba; ma l’opinione di Fefè circa il creato e il nostro essere al mondo e il modo di accettarla questa esistenza, questo lo ricordo ancora. Fefè che pregava i Santi e la Madonna, perché i portoghesi erano stati lì per quattrocento anni e avevano comandato, ma la depressione derivata da un amore deluso, Fefè la curava con una musica ipnotica fatta di cembali e organetto nel cuore della notte a lume delle candele profumate.
Tutto scomparso. A Baga oggi ci sono Sheraton e Hilton vari. Fefè è morto da tanti anni.
I quadri che dipinsi in quei lunghi mesi a Goa e che mi chiese di lasciargli quando partivo, chissà dove saranno e se ancora esistono.
Fu una sorpresa meravigliosa tornando a Baga sedici anni dopo completo di moglie e due figli, rincontrare Fefè, lo sciamano. Erano già spuntati alberghi e ristoranti ma chiedendo di lui mi fu indicata una delle poche capanne rimaste sulla spiaggia: una struttura rettangolare allungata, con pareti e tetto fatti di larghe foglie di palma intrecciate.
Mi avvicinai all’ingresso e sbirciai dentro: buio totale rispetto alla luce del sole lì fuori. Stavo per andarmene quando dal buio venne avanti quasi correndo, Fefè. Invecchiato, in perizoma come da sempre, che cincischiava qualcosa e mi abbracciò piangendo. Era evidentemente a pranzo perché mi lasciò sul viso e sul petto chicchi di riso e odore di masala.
Tiratomi dentro, volle che mi sedessi intorno ai piatti da cui lui e la sua famiglia al completo stavano attingendo il cibo.
Grandi feste. Presentazioni. Scherzarono con i miei bambini spingendoli a mangiare dei dolci di cocco che io conoscevo e che sua moglie faceva buonissimi.
Girando intorno lo sguardo, abituatosi alla penombra, scorsi appoggiato a terra sulla parete di sinistra uno dei miei quadri. Sbarrai gli occhi, sorpreso. Subito mi rivolsi a una delle sue figlie, quella che meglio parlava inglese: “Che ci fa qui questo quadro?”
“Oh, c’è anche quest’altro e questo e quello”, indicava altri quadri appoggiati per terra lungo le pareti, “e dopo un po’ di giorni li cambia con gli altri che stanno dietro.”
Dire che mi sentissi lusingato è dire poco.
Erano stati il mio tempo di Goa quando nel settanta non c’era nemmeno l’elettricità, gran cosa l’elettricità, e così quel soggiorno Konkani non aveva odorato di turismo neppure alla lontana ma era stato un tuffo alle radici della vita, che se fatto a vent’anni quella vita te la stravolge alla grande.
Non fu la sola sorpresa legata alle mie opere di 16 anni prima.
Andai apposta al Gregory’s Restaurant che era sempre su quella spiaggia che tanto tempo prima era stata la mia casa.
Cercavo il proprietario che poteva forse avere il mio set di scacchi. Mio. Scolpito da me con delle sgorbie di fortuna, dipinto pezzo per pezzo in verde e in giallo e usato per giocare lunghe partite seduti nella veranda della mia casa a Sauntavaddò, non lontano dal ristorante.
Entrammo e sedemmo a un tavolo nella sala interna e mentre stavamo mangiando, mi cadde l’occhio su una bacheca protetta da un vetro, in alto dietro alla cassa. I miei scacchi! In fila, uno accanto all’altro. I gialli e i verdi.
Mi avvicinai a Gregory che sedeva alla cassa, non eravamo stati particolarmente amici sedici anni prima ma l’avevo facilmente riconosciuto.
“Quegli scacchi sono miei.” Gli dissi.
Mi guardò, poco interessato, forse vedendomi come uno dei tanti fuori di testa che giravano su quelle spiagge: “No. Sono miei.” Quel che si dice, lapidario.
“Adesso ti spiego: li ho fatti io sedici anni fa e quando partii da Baga li lasciai a un amico che me li doveva riportare. Per conferma ti dico che se prendi il pedone dei verdi, quello un po’ più piccolo, vedi? Sotto c’è scritto il mio nome.”
Volto il pedone, lesse Cino mentre io gli avevo aperto davanti la pagina del passaporto.
Rimettendo a posto lo scacco disse: “Si. Ti credo. Ma questi me li ha lasciati un caro amico, tanto tempo fa.”
“Certo: Julian. Però adesso vorrei riaverli: sono miei.”
“Impossibile.”
Non ci pensai che un momento: “Ti do cinquanta dollari per quegli scacchi.”
“No.”
“Te ne do cento.”
“No. Sono miei.”
Alzai l’offerta fino a centocinquanta. Un pranzo allora costava sui tre, quattro dollari. Non mollò e mollai io, pensando che anche gli scacchi come i quadri nella capanna di Fefè erano ben salvi.
Il mio impegno artistico nei mesi a Goa quando ero più giovane e pensavo che avrei potuto fare il pittore.
Sono ripassato da lì venti anni dopo ed era ancor più il tempo degli Sheraton: il ristorante di Gregory rifulgeva di luci stroboscopiche e grossi amplificatori.
Lui era morto, mi dissero, ma il figlio aveva preso il suo posto. Trovatolo, gli domandai degli scacchi che il padre conservava in bacheca: non sapeva di cosa stessi parlando, mi rispose ed io lasciai perdere.
Così fu per Fefè. Vado e mi accorgo che
la sua capanna non esiste più: c’è un grande stabilimento balneare con sdraio e ombrelloni.
Soltanto il sarto del villaggio, uno dei più anziani, che riconobbi anche se erano trascorsi trenta anni, quando gli domandai se qualcuno avesse preso il posto del vecchio sciamano, e intorno alla bottega di sartoria scorrevano autobus e taxi e turisti di ogni nazionalità, sorrise sorpreso e piegando un poco la testa, strinse gli occhi e mi chiese: “Tu chi sei? Come lo sai? Certo che qualcuno ha preso il suo posto”.
Tanto è che quando Roberto ti chiede “Perché non vieni anche tu? Ci facciamo il viaggio di Marco Polo al contrario. A cavallo fino a Venezia.”
Perché no? diventa la risposta più ovvia.
25 Mi piace Sergio Baldi, Franca Cino e altri 23
Commenti: 4
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Sergio Baldi
bello Pino, proprio bello!! bella analisi di quegli anni e racconto scritto bene!!
Paolo Paci
forte!
Sandro Ludovisi
bravo, bello…
Stefano E. Stef
Belle storie che ogni volta mi fanno sentire la fortuna che abbiamo avuto
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