Arrivato insieme al padre che avevo tatuato anni addietro. Ucraino sui quarant’anni già tatuato e che tempo addietro aveva portato la figlia più grande e relativo fidanzato. Poi era stata la prima volta del ragazzino: un lupo che ululava alla luna interno avambraccio e questa volta vuole un bracciale tribale a motivi geometrici che si susseguono in una linea intorno al bicipite.
Applico lo stencil e un po’ mi incazzo mentre mi domando se ci sia una parola italiana per stencil.
Comunque glielo incollo sul braccio e in un paio di tentativi riesco a metterlo perfettamente orizzontale. Faccio sdraiare il ragazzo e spalmata di vaselina l’epidermide prendo a far scorrere l’ago sulle linee viola. Nero ovviamente sarà il tatuaggio.
E’ un gioco a cui i miei occhi sono ben abituati eppure ogni volta richiede uno sforzo di concentrazione non da poco. La punta dell’ago raggiunge appena il millimetro di diametro; ho scelto un tre aghi liner perché voglio innanzitutto fermare il disegno sulla pelle prima che la scomoda posizione del braccio glielo faccia strofinare sul lenzuolino di carta e me lo cancelli.
La pelle è ottima dal punto di vista professionale, elastica e al derma si arriva con facilità e senza traccia di sanguinamenti. Il ragazzo assolutamente non si muove. Non prova alcun fastidio o almeno non ne mostra.
Domando al padre: “Quanti anni ha?”
“Ne ha appena fatti 19.”
“Ha trovato qualche lavoro qui in Grecia?”
“Poca roba. L’ho portato con me quando ho potuto ma il fatto che non parla greco non l’aiuta di certo. Poi adesso vuole partire, domenica, e tornare in Ucraina. Ha fatto 19 anni. Appena arriva in aeroporto se lo portano a fare il militare e lì c’è la guerra. Non sono riuscito a convincerlo a non andare.”
“Cazzo…”, penso, “potrebbe lasciarci le penne il ragazzino” e il pensiero mi va a una coppia di giovani americani felicemente innamorati che tatuai qui a Mykonos. L’anno seguente tornò lei nello studio e io la riconobbi, stranamente ricordavo anche i nomi. “Hey… nice to see you. You alone? Where Bobby? Don’t tell me that great love story ended in one year?”
Due lacrime a schiarirle gli occhi celesti e mi raccontò che al ritorno dall’isoletta greca scalo e sosta a New York. La mattina mentre lei dormiva in albergo lui scelse di andare a fare una passeggiata, salì su una delle Towers e quel giorno era l’11 settembre.
Ora facevo scorrere l’ago lungo le linee di quel fottuto bracciale tribale e pensavo che quel ragazzino biondo dalla pelle bianchissima se ne sarebbe andato a sparare su qualche altro ucraino come lui oppure no: non sarebbe arrivato al fronte ma avrebbe comunque vestito una divisa e si sarebbe trasformato insieme ad altri come lui diventando un oggetto nelle mani di altri più idioti di lui e tutto per l’espansionismo dei banchieri tedeschi e di quelli americani.
“Fanculo”, pensavo mentre me ne stavo teso a seguire le curve di quel disegno e affondavo nella goccia di inchiostro nero che colava dalla punta dell’ago.
Ogni tanto questo si andava asciugando e allora ruotavo di poco il busto per allungare il braccio e intingere nel tappino ricolmo di inchiostro. Tutto molto meccanico nei gesti. Ripetuti non so quante e quante volte ma siccome ogni volta rimanevo cosciente che quei gesti andavano a marcare per la vita un altro umano, senza distrarsi, senza mollare la tensione.
C’era come sempre la musica che andava dal computer: un random in certi momenti feroce che mollava anche sconcezze come un quarto d’ora di campane tibetane: “Devo dare una ripulita, cazzo!” mi dicevo ogni volta ma poi come ogni volta me ne dimenticavo e quei 56mila pezzi di musica su un hard disk esterno mi riservavano sorprese. Comunque aiutava a lasciar fluire i pensieri mentre me ne stavo teso sulle linee ripetitive di quel tribale.
“E’ veramente una troia”, pensavo tra un blues e il ronzio della macchinetta, ”ma non la troia che era a letto e che le facevo notare per farla eccitare di più. Quella meritava stima e rispetto. La troia vera è quella che tradisce, che ti prende in giro alle spalle, mente e sa fingere.”
Riflettevo su quello che era accaduto pochi giorni prima e assorto nel lavoro andavo mettendo a fuoco quanto tempo ci avevo impiegato ad accorgermi che quei “ti amo, ti amo” erano da un bel po’ vuoti di significato.
Me lo ha sbattuto in faccia scegliendo di allontanarsi; dicendo no quando le mie mani correvano sulla sua pelle, dicendomi: “Mi sento in imbarazzo”.
Imbarazzo di che? Per due anni ne abbiamo fatto di cotte e di crude, più cotte vista la sua facilità di arrivare a un orgasmo dopo l’altro con espressioni vocali di musicalità sopraffina e sguardi perduti nel nulla, labbra mollate nell’estasi.
Che poi era quello che amavo di lei: quella capacità di lasciarsi andare.
Ce l’avevo dovuta portare scalzando dentro di lei blocchi antichi. Veniva da un archivio di amanti post divorzio squallidissimo.
Andava in analisi a quel tempo e avere affrontato insieme tutta una serie di faccende che venivano pesanti da infanzia e adolescenza, l’aveva aiutata a sbloccarsi.
Facevamo l’amore insieme al professore di matematica che quando era bambina nei pomeriggi estivi la riceveva nella sua casa per le ripetizioni e le toccavano la passerina e le facevano vedere l’uccelli gonfi fino a sborrare lì accanto a lei. E i giochi con le altre bambine l’avevo portata a ricordare e con il fratellino e poi quel fratello cresciuto che pretendeva di farla vedere nuda dagli amici.
Digressioni nel suo passato che la aiutavano tacitamente a indagare su quel vuoto che si portava dentro più concrete delle ore con la terapeuta.
Tornavano così le prime volte a far l’amore, delusa ma orgogliosa del suo potere e del piacere che dopo poteva darsi da sola.
Mamma e papà che non si accorgono di niente e che addirittura rifiutano quando è lei ad accennarne.
Mentre cambio ago per cominciare a riempire gli spazi col nero, dico al ragazzo di accendersi una sigaretta. Anch’io recupero il sigaro che avevo lasciato spegnere e mi viene in mente che Bunuel di un personaggio come lei ne avrebbe fatto l’effige di una borghesia piccola che più piccola non si può.
Tempo di rimettersi sotto. Non ce ne resta molto. E’ un’ora che sto tatuando e fra due ore devo essere da mio figlio per l’ultimo giorno scolastico.
Ho montato un ago magnum da 15, tanto ho visto che il ragazzo tiene benissimo il dolore, così farò prima a riempire e mi torna in mente il tatuatore francese con la bellissima moglie incinta, che diceva: “Me ne frego io. Metto sotto un magnum e vado come un treno. Cerchi e cerchietti inclinati e in un attimo è finito il loro tribale”.
Sfido a trovare un tatuatore che abbia amato i tribali soprattutto quando andavano di moda. Forse Zulueta, che col pretesto dei maori se li era inventati.
Li chiedevano tutti, anche quelli col braccetto sifolo ma che volevano un’impronta sulla pelle da vero macho.
Al cinema uscì “Dal tramonto all’alba” con un Clooney tatuato dal collo al polso e lo stesso tatuaggio me lo sentii chiedere per diverse volte.
In qualche caso mi riuscì di dirottare i clienti verso qualcosa che salvasse il collo ma una volta mi toccò farlo. Fu tra l’altro uno dei miei primi tatuaggi sul collo: non andavano di moda come adesso.
Riempire con un magnum da 15 aghi gli spazi tra le linee tracciate prima non mi ha preso molto tempo. Una colorata grossolana evitando di accostarsi troppo ai bordi del tatuaggio: sarei passato poi a un 9 per rifinire meglio il tutto.
Il padre dell’ucraino nel frattempo aveva scoperto il mio albero di cachi nel giardino prima della spiaggia e così su mio invito è andato a coglierne un po’ da portarsi via.
Meglio. Ogni tanto parlava e devo dire che non era la più interessante delle conversazioni anche per la sua pretesa di parlare italiano. Il tema erano sempre i soldi che non aveva, il lavoro che non c’era, la macchina da aggiustare.
Aveva premesso appena arrivato che non poteva pagato il tatuaggio ma che avrebbe provveduto sabato quando avesse preso la settimana. Operaio saltuariamente in un paio di stabilimenti balneari, bagnino, in genere giardiniere quando qualcuno lo chiamava per potare o tagliare erba. Ovviamente uno dei miei prezzi speciali.
Sempre appena arrivato quella mattina, visto un occhio cerchiato di viola, “L’hai preso un cazzotto, eh?”, gli avevo fatto.
“No. E’ stato il ramo di un albero.”
Ho lasciato cadere.
Quindi che andasse per cachi mi lasciava più libero tra l’inchiostro e la musica. Concentrandomi sulla punta del 9 che richiedeva maggiore attenzione mi è venuto addirittura in mente come si traduce stencil in italiano: stampino. Dicevamo così in un tempo remoto quando dovevamo trasferire sulla pelle il ricalco fatto con la matita copiativa. “Stampino”, mi sono ripetuto orgoglioso di averlo ritrovato.
Subito però ho pensato: “Troia. Perché troia non è una donna che si da’ a destra e a manca per danaro, troia è una donna che lo fa di nascosto mentendo al suo uomo, cosa che ero convinto di essere per lei, invece di rafforzare una complicità vitale alla coppia.”
Chiacchiere e dichiarazioni d’amore ne aveva fatte a bizzeffe anche nei tempi prima della “trasformazione”, così aveva etichettato la scelta fatta, firmando anche bugie scritte su whatsap e email varie.
Che si regalasse un intercorso sessuale con un amica o un paio di tizi capitati era già accaduto, ma, visto che il nostro rapporto si era da subito arricchito con un excursus nella sua storia di donna dalla sessualità ricca ma frustrata da un’educazione ipocrita, ecco che i suoi incontri col vecchio amico, conoscenza ritrovata di vecchie comitive comuni, o il collega del padre o i giochi con un’amica erano carburante per i nostri momenti nel buio del letto.
La gelosia per il sottoscritto era una parola cancellata qualche vita prima e piuttosto con lei avevo sognato di incontrare quella complicità che vedevo come unico supporto al post passione.
Si era da poco trasferita in una nuova casa nei pressi di una spiaggia dove stava lo stesso tipo di cui si era invaghita l’anno precedente.
Ai tempi la scopava nel retro bottega quando i clienti non c’erano sbandierando il “mi sto separando” dei mariti quarantenni e non trovando il modo di darle qualcosa in più, neppure gratificandola di un’uscita insieme o andando a scoparsela come lei chiedeva a casa di lei che all’epoca era vuota.
Evidentemente la classica donna di scorta.
Dal momento che la signora aveva perso la testa attratta dall’idea di una storia che promettesse un futuro con un coetaneo, piuttosto che con un vecchio come me, avevo scelto di lasciarla andare a quello strapiombo chiudendo il rapporto con me.
Tornata dopo breve tempo in gramaglie eravamo ripartiti aggiungendo soltanto un’altra esperienza alla nostra storia.
Rapporto con il tizio da considerare chiuso perché si era rivelato per quello che era. Non lo si nominava nemmeno più nei nostri scambi di fantasie o di ricordi quando eravamo nel letto.
Con l’amica capitava che si ripetessero i momenti di intimità, così col collega del padre o con un amico pittore che le aveva fatto un ritratto. Sesso. Niente altro.
Finché da un po’ di tempo la rarefazione delle sue visite mi ha messo sul chi va là.
Era sempre dolcissima, dedicata, anche a parole i “ti amo” non li lesinava.
Un paio di settimane fa mi ha gratificato di una carica sessuale oltre le aspettative, finché una domenica recente liberi di svegliarci insieme, caffè, cornetto, dopo il suo secondo o terzo orgasmo ho tirato fuori: “Ma il cartolaio? Come si chiama? Ti capita di vederlo ora che siete vicini di casa? Il fumo lo compri sempre da lui?”
Non l’avessi mai detto: la reazione è stata tanto immediata quanto confusa e infastidita: “Non ne voglio parlare. Con te godo, con lui no!”
Non ho raccolto e ho sorvolato anche quando più tardi ha preso a parlare della diversità del nostro modo di vivere il sesso.
Quindi il cartolaio c’era, eccome.
Gli impegni lontani da me, l’assiduità con l’amica del cuore, la stessa con cui si scambiavano confidenze e vibratori, non erano altro che paraventi per i momenti che dedicava al tizio che sicuramente era stato ben felice di ritrovarsela senza mutande tra penne e quaderni.
Nel frattempo io mi ritrovavo con pensieri di questo tipo in testa a dieci centimetri dalla pelle di un ragazzino ucraino così stupido da rischiare di andare a morire da qui a poco. Cretino e cretino io. Ma il non essere stato avvertito con onestà che la sua storia con me era finita, avermelo tenuto nascosto per tutto questo tempo mi faceva sentire un animale ferito. Preso in giro. Brutto scoprire di essere stato preso in giro da qualcuno di cui ti fidi.
Ma ora dovevo procedere. Rifinire quelle linee. Con il 9 avevo riempito gli spazi, ora con un 7 da linea non restava che dare la giusta rotondità alle curve esterne e ammorbidire quelle interne del disegno.
Il padre era tornato con noi e se ne usciva con: “Il prossimo che accompagno qui da te a tatuarsi, mi faccio pagare per il tempo che devo aspettare.”
Io pensavo: “Che troia. Se non è tradimento questo. Preso in giro come un idiota. La cosa migliore è aspettare, tanto si impiccherà da sola o la impiccheranno i suoi figli crescendo.”
Ma la voglia di vendicarsi…. Si. Quella la sentivo da giorni.
Un animale ferito, pensavo di me. La voglia di vendicare la delusione che mi è salita in gola quando per l’ultima volta, venti, dieci giorni fa l’ho portata con me in camera, l’ho toccata sotto il vestito leggero, elegantissimo, nero e lei ha lasciato fare come un pezzo di ghiaccio, improvvisamente estranea, dicendo più tardi: “Mi sentivo in imbarazzo”. Imbarazzo di che? Che per due anni ho giocato con la tua fica; per due anni mi hai succhiato il cazzo e leccato le labbra. Ci sono migliaia di foto di te nell’arco di due anni con il culo aperto, legata, bendata, zuppa di umori, con tre dita o il mio cazzo su per la tua fregna, come ti piace chiamarla; cetrioli, vibratori, zucchine, fiori su dentro i tuoi buchi, e un infinità di foto con il viso trasformato da un godimento copioso e profondo. Profondo.
Ma poi a te basta un cazzo nuovo l’ipotesi di una rapporto che prometta stabilità… come diceva l’amica che ti conosce bene.
Pensieri che non riuscivo a levarmi dalla mente anche mentre stavo facendo un tatuaggio: preso in giro.
La notte quando vai a dormire e la mattina quando apri gli occhi o mentre in acqua ti lasci andare con le braccia aperte mosso appena dalle onde. Galleggiare è veramente un gesto immobile che riempi con la prima cosa che ti passa in mente. Guarda caso da un bel po’ di giorni ormai è il pensiero di quella troia che ritorna fisso. Capita anche tatuando.
Ormai l’orrido tribale era finito. L’ho pulito, me lo sono riguardato ben bene nel caso ci fossero dei ritocchi da fare, ho dispensato le solite raccomandazioni sull’uso a posteriori della crema.
Il ragazzo era felice e mi guardava come un dio in terra. Ne ho approfittato per dirgli di non essere stupido e di rimanere in Grecia, di non partire per l’Ucraina. “Impara il greco; cerca un lavoro.”
“Io capisci”, mi ha risposto nell’italiano del padre.
Ho preso una fotografia ricordo del tatuaggio e della sua faccia di bambino pensando già di metterla a suggello di queste pagine per rendere più reale il tutto.
A posteriori ho saputo che il ragazzo si è convinto a non tornare in Ukraina e io ho lasciato che queste pagine fossero solo un’occhiata a uno spazio di vita.
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4 risposte
I Trigoria Boys un pugno di allegria e di simpatia quando capitarono nel mio studio di Mykonos.
Poi il contatto-commento di Max e da lì le mie indagini con Matteo e Paolo.
Spero vada bene la tua vita, Max e che i “pasicci” su pelle procedano.
Beccati un abbraccio e un ciao,
Pinp
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Mistero come abbia fatto a cambiare la foto. Questi sono i Trigoria Boys. Io avevo messo la foto dell’ucrano. Dovrò chiedere
Retoricamente mi chiedo quante ne avresti da raccontare…e contestualmente mi rispondo che passerei ore ad ascoltare i tuoi racconti e gli spaccati di una vita lunga ed intensa come la tua. Pioniere; è questa forse la parola che più ti identifica nella mia testa, mentre cerco di immedesimarmi in te alle prese con la tua prima macchinetta da tatuaggio, mentre saldi aghi a “scopa di saggina” o mentre ammalii una bella turista che, inevitabilmente, terminerà la sua giornata svestita, nel letto greco di un tatuatore romano.
Maestro, d’arte e di vita…seppure ho avuto il piacere di “viverti” per poco tempo è questa l’altra parola che mi viene in mente quando parlo di te, perché solo a guardarti trasmetti esperienza e la consapevolezza che un tipo come te deve saperne per forza.
Chissà se fu proprio il nostro incontro a Mikonos ad indirizzare la mia vita, chissà se sarei diventato lo stesso un pasticciatore di pelli o avrei perseguito altre strade, quello che so è che amo il mio lavoro e non dimenticherò mai il primo studio di tatuaggi in cui sono entrato come cliente: il tuo.
Buona vita Pino, con tanto affetto
Max dei Trigoria boys