Tatuaggio. Un segno sulla pelle che richiamava subito l’immagine di carcerati o comunque mala gente che non esistendo internet pescavi talvolta in foto sbiadite, rigorosamente in bianco e nero, su qualche rivista o quotidiano sempre connesse a un qualcosa di negativo o fuorilegge. Mai che se ne scorgesse qualcuno in vista tra i passeggeri di un autobus o un qualche fortuito incontro.
Ai tempi in cui si andava chiudendo la mia fase adolescenziale tatuaggio era una parola di molto fuori dalla realtà.
Verso la metà degli anni sessanta tra le disparate letture di quel periodo capita tale Achab con relativa balena bianca. Si scopre anche un fiocinatore, personaggio positivo nel romanzo, che ha la pelle ricoperta di segni e disegni.
Il tatuaggio, questo segno sulla pelle è un’espressione di sé, mi rendo conto, tanto più intima quanto più segreta. Ma come si fa?
Di internet non si ipotizzava neppure né tra le varie letture era mai capitato qualcosa che del tatuaggio parlasse. Tranne poco tempo dopo incappare in “Papillon”, che fece traboccare il vaso della curiosità con il suo farfallone inciso sul petto.
La curiosità mi spinse a parlarne nel giro del caffè Gallico dove qualche frequentatore più vecchio era incorso nelle ire della giustizia con relativa residenza coatta; non so chi fece menzione di un vinaio di via Tuscolano, ex carcerato, che aveva dei tatuaggi e ne aveva anche fatti a qualcuno.
Mi spinsi fin là e conobbi questo omino cinquantenne che divertito mi mostrò il suo avambraccio marchiato da una scritta bluastra illeggibile. Si divertì a dare spazio alle mie domande e per molto sommi capi mi spiegò come in vacanza, diceva lui, si ingegnavano di fare i tatuaggi.
Volai a casa e in camera di mia madre mi appropriai di tre aghi da cucito e di un po’ di filo. Poi, chiuso nella mia stanza, legai a cuneo le punte degli aghi, tirai fuori la matita copiativa e tracciata una rosa con relativo bocciolo su un foglio di carta velina, con un po’ di saliva trasferii il disegno sull’interno della coscia destra che tenevo accavallata sedendo alla scrivania.
Veniva adesso la fase cruciale e dopo aver intinto la punta dei tre aghi legati stretti in una vaschetta in cui avevo versato poche gocce di inchiostro di china feci un buchino sulla linea del disegno trasferito sulla coscia.
Era lì: bello nero anche se leggerissimo. Entusiasmato, tralasciando il dolore, più un fastidio, andai avanti seguendo il disegno, un forellino appresso all’altro.
Una meraviglia mi sembrò. Ripulii la pelle con ovatta e alcool e coprii il tutto con fazzoletto e cerotto.
La mattina seguente, ma già la sera, la mia opera mi apparve meno perfetta: c’erano dei tratti dove avevo evidentemente affondato di più o di meno e qualche punto discostava dalla linea del disegno togliendo continuità. Io però ero comunque pervaso dalla sensazione di aver fatto qualcosa di proibito e rivoluzionario.
Nei giorni seguenti scelsi di migliorare l’opera aggiungendo un altro paio di boccioli. Era il mio segreto: ne ero orgoglioso.
Il segreto fu subito condiviso con Paolo e Cecco e qualche altro amico. Passarono pochi giorni e mi toccò condividere il segreto anche con mio padre che venutomi a svegliare per andare a scuola restò attonito quando dimentico uscii dal letto in mutande.
“Che cos’è quello?”
Poi partì con un lungo discorso: “Ti sei rovinato. Per sempre.”
Per mia fortuna era di carattere estremamente paziente e metteva insieme anche studi di psicologia per cui mi risparmiò botte e urli. Un’espressione di disprezzo a sottolineare la mia stupidità.
Io comunque ero ormai lanciato. Sull’altra gamba mi regalai una fenice molto stilizzata copiata da un anello che mio padre aveva portato dall’Africa e quella potei mostrarla agli amici con un po’ più soddisfazione.
Portai i miei trofei dal vinaio di via Tuscolana che commentò con un “belli” e mi invitò a tornare da lui una settimana dopo.
Lì ci fu la mia investitura ufficiale perché mi fece trovare uno strano aggeggio che mi spiegò essere una macchinetta per tatuaggi che loro usavano in collegio. Un motorino di lettore per cassette A4 su cui era saldato l’involucro in plastica di una penna Bic dentro cui, agganciata al motorino, scorreva una sottile asta di ferro in cima alla quale erano fissati tre aghi.
La punta degli aghi entrava e usciva da quel tubicino di plastica al ritmo del motore elettrico attaccato a una presa di corrente.
Dire grazie fu un attimo e corso a casa aggiunsi una chiave di violino, pessima, a boccioli e rosa.
Ero ufficialmente un tatuatore consacrato dai primi clienti che si erano fatti avanti con richieste varie. Non ho ricordi di cosa artistico io abbia creato in quei primi anni; un cliente del tempo mi è apparso su Facebook completo di foto della splendida ancora che gli avevo fatto, e qui l’ironia eccelle.
Un ricordo prezioso è il tatuaggio che mi venne a domandare un coetaneo che non conoscevo e che non so chi aveva portato a casa mia. La richiesta erano un fascio littorio e una svastica sull’interno avambraccio.
Senza molto pensarci sù attaccai a parlare e lo convinsi, vista la sua passione per l’astrologia oltre che un padre senatore del MSI, a farsi piuttosto il suo segno zodiacale e il suo pianeta ascendente. Detto fatto se ne andò dopo aver pagato e tornò il giorno dopo con un fiasco del vino che suo padre produceva. Lo accettai senza particolare gratitudine: era un’etichetta mai sentita, “Sassicaia”.
La sera dopo la bevuta fu indimenticabile ma nel frattempo, e ancora più negli anni seguenti, crebbe il rimorso per aver segnato sulla pelle di qualcuno non quanto desiderava ma qualcos’altro di mia iniziativa. Era per me quasi un incubo, ripensandoci continuavo a vergognarmene. E’ un gesto che non ho mai più ripetuto: preferivo rifiutare il lavoro nonostante il rifiuto contemplasse talvolta reazioni scomode.
Nel solo studio di tatuaggi che ho avuto in Italia, nel meraviglioso Salento dei primi anni novanta, entrò un pomeriggio una bestia evidentemente palestrata che dopo un saluto educato chiese se fosse stato possibile tatuare un ritratto. Non amavo farli ma dissi comunque di si.
Si aprì la camicia su di un petto muscoloso e depilato: “Allora fammi la faccia del Duce qui, grande, al centro del petto.”
“Alt!”, risposi immediato. “Una foto si può anche fare ma quella di Mussolini non è possibile. Viene male. E’ un viso glabro, troppo liscio, troppo spianato, privo di ombre. Avesse che so… i baffi. Troppo liscio… verrebbe una porcheria.”
La mia serietà e la parlantina del sottoscritto lo convinsero a portar via la sua richiesta.
Matteo, il figlio di Paolo, che era lì a farmi da assistente e che se ne era rimasto defilato in un angolo, ”Me pensavo che ce smontava lo studio”, commentò.
Ma indimenticabile fu la scoperta del Sassicaia e fortunatamente altrettanto indimenticabile fu una ventina d’anni dopo incontrare in una traversa di via della Croce un quarantenne in abito di lino celestino che arrivato alla mia altezza si blocca e fa: “Ma tu non sei Pino Cino?”
“Si… ma tu?”
Mi tende la mano sorridendo e dice: “Tu mi hai fatto un tatuaggio venti anni fa. Non ne ho fatti altri. E’ l’unico che ho. E’ ancora bellissimo.”
“Non mi ricordo proprio”, gli dico.
Sorride, tira su la manica della giacca, sgancia un gemello e sollevata la camicia mi mostra un segno zodiacale e un pianeta messi lì, ancora neri.
Wow! Che liberazione. Grazie sempre alla mia fortuna e la strana coincidenza che ci aveva portati entrambi alla stessa ora in quella traversa di via della Croce.
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