Novella di Celerini e vecchi amanti

Novella di Celerini e vecchi amanti

“C’è questo stronzo del Covid19 che gira e pare ce l’abbia particolarmente con noi nati a metà dell’altro secolo o giù di lì. Ce ne stiamo rintanati, al riparo dentro le case a giocare a nascondino. Sui bollettini di guerra si legge che il virus ha fatto tana a più di uno. Triste modo di andarsene senza alcuna faccia o voce amica che ti stia accanto. Si deve pur morire ma che se ne vadano quelli nelle case di riposo, non si chiamavano anche ospizi una volta?, è ben triste: parcheggiati lì abbandonati all’attesa.

Il tempo conquistato, giorno per giorno, quindicina per quindicina, è un complice discreto, ricco di silenzi se non fosse per quella coglionata di televisione che in fondo basterebbe non accendere e nel silenzio è bello lasciare affiorare i ricordi che sono la sola cosa intatta che l’età ci lascia.

Quanto di vero poi ci sarà nei particolari che fluiscono nella memoria insieme a immagini sbiadite, a volte confuse, che pure sappiamo hanno fatto la nostra storia?”

Così pensava e scrivendo della peste del duemila si diceva che era giusto conservare i ricordi perché fossero eredità per quelli a venire.

Rifletteva che ne aveva di belli, per quanto ogni gesto, ogni atto, ogni emozione incontrata lungo la strada e restata dentro, era bella. Anche quando aveva pianto. Quando aveva avuto paura, si ricordò.

1953, Google, stava scrivendo seduto al computer, l’aveva aiutato a ritrovare la data. Manifestazione a Roma per la questione Giuliana. Trieste doveva tornare all’Italia.

Lui era a casa, un appartamento al terzo piano di un palazzo a San Giovanni. Un quartiere piccolo borghese rimescolato dal dopoguerra, poco distante da Piazza San Giovanni in Laterano dove s’erano raccolti studenti e patrioti vari per protestare contro gli inglesi e la Jugoslavia. La polizia li aveva dispersi nelle vie laterali e sotto il loro palazzo li inseguiva menando manganellate dalle jeep, gip a quei tempi, verde scuro con sopra i Celerini celati dagli elmetti.

Nel frattempo, magie del computer e di internet, Whatsapp con un beep lo avverte che c’è un messaggio. E’ un video. E’ lei che si masturba e l’omaggia della sua passera accarezzata da una mano fremente, le unghie laccate e a finire l’espressione beata del volto. Poi scrive che ha mandato il video anche al suo uomo in quarantena pure lui.

“Vuoi che te la bagni un po’? Lui lo sa che siamo in tre?”

“Non gli dico che ti invio video di questo tipo .Ma lui è comunque molto aperto, molto più di me Lui sa che ci sentiamo e che rievochiamo ricordi mai rimossi e quanto ci siamo amati. Onestamente è anche un caro amico oltre che un ottimo amante. È un ottimo compagno per me. Esalta il mio essere, non lo sopprime e non lo giudica. È un uomo molto intelligente.”

“Si, la sola volta che l’ho incontrato mi ha dato questa impressione. Mi stai facendo sorridere, e in effetti ai tempi non ti ho fatto vivere l’emozione dell’amore con due uomini insieme; anche questo è un modo e mi sento il cazzo spingere nei pantaloni.”

Avevano avuto una storia durata quattro anni verniciata da una passione costante dovuta anche alla separazione fisica che la caratterizzava.

Lui viveva in Grecia, lei in Veneto. Due attività che li impegnavano tranne i momenti delle vacanze di lei o le fughe di lui quando l’inverno spegneva la stagione turistica sull’isola dell’Egeo.

Era il 1996. Un incontro assolutamente casuale durante una breve vacanza che Marilena aveva fatto con un’amica e un’attrazione fisica potente che, segnato da quella notte insieme, una settimana dopo aveva fatto salire lui su un aereo, noleggiare una macchina a Bologna e lo aveva spedito in un paesino dalle parti di Padova per telefonarle dalla cabina all’angolo e dirle “Ti ricordi di me? Sono sotto casa tua. Scendi?”

Scesa. Spiegazione della sua presenza lì seduti in macchina fuori a un cimitero, poi cena. Lei che viveva con la madre gli aveva indicato un albergo salvo raggiungerlo sul tardi e ritrovare la stessa passione del loro primo incontro.

Adesso la quarantena da peste, questi arresti domiciliari così distanti con un Appennino di mezzo, era capitato li avessero portati pochi giorni prima a confidenze che da quando si erano lasciati non si erano mai concesse.

“Sono ingrassata. Mi sono venute due tette enormi.”

“Siamo al tempo dei selfie. Mandami una foto.”

E la foto era arrivata.

Una grossa differenza di età fra loro e due attività distanti e irrinunciabili li avevano separati. Poi figli per tutti e due, relative separazioni dai coniugi.

Anni dopo si erano regalati un breve week end nella casa di lui. Poi anni di silenzio e ora questi arresti domiciliari e Whatsapp e un paio di telefonate.

Capita che tra le scemenze divertenti del social lei peschi e gli mandi una barzelletta abbastanza insulsa di un lui che una donna vuole assolutamente prenderla da dietro.

Le scrive: “Barzellettina assai fine e, conoscendoti immagino che non ti ricorderai, ma ripensavo a una volta in Grecia, pomeriggio, sole e caldo, dopo la spiaggia, tu ed io sul letto, ti dissi di andare a chiudere la porta e quando tornasti sul letto ti feci sedere su di me e ti infilai il cazzo dentro il tuo meraviglioso culo. Non finimmo perché non avevi chiuso a chiave la porta e arrivò mio figlio. Spero non ti dispiaccia se ho anche questi ricordi. E’ mai possibile che dopo così tanto tempo tu significhi ancora desiderio?”

Poi pescò nell’archivio foto del computer una primo piano del viso di lei

al momento di un orgasmo scattata tanti anni prima e gliela mandò.

“Grazie..”

“Per quel momento?”

“Perché mi hai conservato in questi anni in queste immagini, perché ancora dopo tutto sei ancora così dolce con me.”

“Mari’, arriverai a cento anni, il padre dei tuoi figli, i Paolo e quanti altri ma io resterò la storia più folle che abbia dato un colore diverso alla tua vita. Io ho tirato fuori di te quelle espressioni, una ouverture del tuo piacere più fondo. Ogni volta immacolato eppure travolgente. Era questo che amavo, lo sai. Sei rimasta tatuata sulla mia pelle e sono felice di questo regalo che la vita mi ha fatto.”

“L’ultima volta che abbiamo fatto l’amore ero venuta a casa tua a Roma è stato a primavera del 2009, dopo 10 anni è stato bellissimo ritrovarci ti ho desiderata con tutto il mio essere e ho goduto provando un senso di liberazione: finalmente avevo ritrovato me stessa e la mia parte più vera. Ho sempre voluto rinnegarti dentro di me ma non ti eri mosso di un millimetro da li. Quando sono ripartita l’eccitazione ormai si era liberata e mi sono accarezzata in macchina fermandomi per poter raggiungere l’orgasmo per poi rimettermi alla guida e una volta arrivata appena ho potuto mi sono chiusa in camera e ho continuato a masturbarmi instancabilmente come una ragazzina che aveva scoperto il piacere. E io invece lo avevo riscoperto. Il desiderio vero e puro. Ma le cose erano molto diverse, le nostre vite erano ancora più distanti. È stata l’ultima volta che ci siamo amati fisicamente.”

“Semaforo fuori la galleria della Futa, credo. Tu ed io, chiusi dentro la macchina ad inseguire il piacere che sapevamo dare l’uno all’altra senza finirla mai. Quanto siamo stati lì? Ti ricordi? Nel pieno della notte sotto una bufera di neve col semaforo che ci faceva compagnia e ci illuminava di verde, giallo, rosso. Quel guardone.”

“Furlo. Passo del Furlo”

“Allora? Peschi anche tu un ricordo erotico nella memoria? E mi piacerebbe di moltissimo assai guardarti mentre ti tocchi o perlomeno sapere che lo fai.”

Appunto, magie del computer perché sullo schermo una risposta di lei non arrivò. Sapeva di conoscerla bene: ci sarebbe voluto tempo.

Restò lì a riflettere sulla memoria e le pieghe di questa. I segreti e le sorprese. Ciò di cui siamo realmente padroni a dispetto degli anni che passano o delle pandemie.

I ricordi. E tornò a quando lui stava in ginocchio su una sedia a guardare quel che succedeva giù nella strada.

Le camionette rombavano salendo sui marciapiedi, le frenate, le sgassate altrettanto brusche, i celerini che si sbracciavano menando manganellate a quanti gli capitavano a tiro.

Dalle finestre tutte aperte e affollate la gente urlava. Qualche donna tirò per strada delle pentole. “Riparatevi!”, gridavano ai manifestanti. C’erano le sirene della polizia, le voci concitate della madre, la nonna e due zie che si sbracciavano dal davanzale stringendolo. Lui, sei anni, lo avevano messo affacciato in prima fila ma la situazione a lui non piaceva. Chiedeva il perché di tutto quello e scoppiando a piangere implorava di dare Trieste agli Inglesi purché tutto ciò avesse termine.

 

3Paola Ant, Guerrino Zorzit e 1 altra persona

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