Mai arrivata a Roma.Una gabbia per uccelli in ottone. Bellissima, con una lavorazione ricercata e eleganye nei particolari. Un pezzo sicuramente unico a cui era impossibile attribuire una data di creazione, indiana anche considerando che me la trovai davanti agli occhi in uno scuro negozietto vicino al Bhindi Baazar della fu Bombay.Irresistibile e la contrattazione fu rapida vista l’esperienza che avevo nel trattare con gli Indiani. Né mi arrestò il pensiero che sarei partito la sera successiva per Roma.Così il viaggiatore elegante, c’erano dogane da passare, completo di cravatta e ventiquattrore in pitone, che salì la scaletta del 747 Alitalia, con una mano reggeva questa impalcatura in ottone brillante di una trentina di chili, alta un cinquanta centimetri e larga una trentina. Un mamozio che solo il check-in indiano di quei tempi poteva lasciar salire a bordo.Penultimo posto in fondo al bestione come da mia abitudine e una rilassata occhiata ai compagni di viaggio. Perlopiù emigranti italiani provenienti dall’Australia e italiani si fa per dire visto che parlavano tra loro in slang mescolati con calabro o siculo.Decollo e scambio di sorrisi con le hostess che si fermano ad ammirare il mio gabbione infilato a stento vicino ai miei piedi. Le ultime file di sedili erano abbondantemente vuote.Siamo in volo da quasi un’ora quando vedo le hostess venire con passo affrettato lungo il corridoio di destra e sporgersi ad abbassare le tende di tutti i finestrini.“Strano”, mi dico, ”lo fanno in genere quando devono proiettare un film, ma siamo appena partiti e fuori è notte.”Le ragazze vanno avanti e indietro un paio di volte poi vengono a sedersi alle mie spalle. Si allacciano le cinture. Tutte e due pallide. Una piange.“C’è qualcosa che non va?” domando voltandomi verso le due.“No. No. Tutto bene.” Fa una, ma proprio in quel momento arriva trafelato uno steward: “Le torce di emergenza. Dove sono?”Le ragazze si alzano ma gli strani movimenti sono stati osservati anche da altri passeggeri e qualcuno solleva una tendina.Da uno dei motori di destra si levano violente fiamme con una luce accecante nel cielo nero.Wow! Che sta per dire che cosa non è potuto succedere in quell’Jumbo.Quasi tutti in piedi; richiami tra i passeggeri e domande ansiose alle hostess e gli stewards che si affannano intorno. Lamenti, pianti e qualche scena pregevole di uomini e donne in ginocchio tra le fila ansiosi a far segni della croce e mormorare o cantilenare preghiere. Qualcuno si abbracciava.Dagli altoparlanti il comandante, pare che dopo l’accaduto abbia chiesto il trasferimento su una linea di pullman, comunicò in tono stentoreo un ipocrita “Causa guasto tecnico stiamo rientrando all’aeroporto di Bombay. Rimanete ai vostri posti e allacciate le cinture”.Ai vostri posti? Regnava il caos più totale. Lamenti e chiacchierio superavano il rumore dei motori tranne quello sulla destra che sembrava divertirsi a fare un frastuono indicibile. Credo di essere stato il solo a non essersi mosso dal posto e guardavo quella bolgia intorno a me con tutto il fatalismo napoletano di cui le origini paterne mi avevano dotato ben in vista nel taschino della giacca come un foulard colorato e nei miei occhi colmi innanzitutto di ironia.Non avevo mai avuto paura di viaggiare in aereo. Avevo sempre pensato che l’incidente era un rischio definitivo, meglio di un incidente di macchina con relativa possibilità di fratture o ospedali successivi. Precipitare con un aereo era semplicemente uno dei modi di andarsene e accettato questo restavo assorbito dalle immagini che i miei colleghi di dipartita elargivano. Non avevo ancora visto il meglio.La voce del comandante al di là della porta della cabina che vedevo assediata, tornò a farsi sentire: “Tra circa venti minuti atterreremo all’aeroporto di Bombay. Verranno calati gli scivoli laterali e si abbandonerà l’aereo dalle uscite di emergenza poste sui due fianchi. Si prega di togliersi le scarpe e abbandonare ogni bagaglio che verrà recuperato in seguito. Lasciate la precedenza ad anziani e bambini.”Nel buio apparve la pista illuminata sinistramente dal lampeggiare delle luci blu di pompieri e ambulanze. L’apparecchio toccò docilmente terra e mentre eseguiva una curva di arresto, i miei colleghi di tragedia mancata si fecero vicini ai portelloni.Qui assistetti al cruento prendere la vecchina tremebonda e tirarla indietro per essere il primo a lanciarsi sullo scivolo gonfiabile che si era aperto nell’oscurità. Allucinante.I più baldi giovani si guadagnarono i primi posti a forza di spinte e improperi. Bambini e anziani: non ci risulta.Si vuotò in un istante e quando fu deserto mi alzai dal sedile e mi avviai alla porta anteriore a cui avevano accostato la scaletta, stringevo gabbia d’ottone e ventiquattrore come trofei, scambiai un sorriso con le hostess ancora pallidine e il comandante, e mi avviai sulla pista verso i pullman in attesa.I pompieri si affannavano intorno all’ala del jet che aveva smesso di sputar fiamme come un drago.La mia stanza in albergo non era più disponibile così accettai l’offerta Alitalia che mise tutti i passeggeri al Taj Mahal, il più elegante hotel di Bombay, proprio di fronte al Gate of India. Due giorni in attesa di un volo da Bangkok che ci avrebbe raccolti.Un episodio divertente fu arrivare ad un ascensore e trovare un vecchio emigrante che in un suo italiano raffazzonato parlava con la sua immagine riflessa nello specchio su fondo della cabina domandandogli dove fosse la sua “rum”. Siccome ci avevano raccolti tutti sul medesimo piano, entrai e me lo tirai dietro.Due giorni senza far nulla e al Taj incontrai un romano che conoscevo e trafficava in antichità indiane. Poiché avevo considerato che mi sarebbe toccato nuovamente passare un check-in con la mia ingombrante gabbia, lo invitai a vederla e anche a lui piacque molto. Affare fatto e il secondo viaggio di ritorno fu di molto assai più tranquillo ma non indimenticabile come il primo.
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