Raccolgo l’invito di Pino, ed arricchisco la mia autobiografia con un nuovo episodio.
Dopo la trilogia dedicata all’avventura indiana (pubblicata anonimamente tramite Pino) e la storia messicana, eccomi di ritorno con il racconto di ciò che successe in Israele, ovvero come riesci a metterti nei guai anche in un paese dove non sarebbe proprio il caso.
1984: sto appena uscendo da una crisi di bipolarismo che mi ha portato, per l’ennesima volta, in clinica psichiatrica. Ci sono entrato in crisi da euforia, pericoloso a me stesso e agli altri, e, per la terza volta, vengo riportato a terra attraverso la somministrazione di enormi quantità di psicofarmaci. Il problema è che poi si sconfina sempre nel “sotto terra”, nella crisi depressiva. Maledetto bipolarismo (o ciclotimia, come lo chiamavano allora)! Inoltre il mio primo matrimonio sta andando a rotoli ed ho smesso di bucare solo da pochi mesi. In altre parole…non sono proprio al mio meglio. Mia madre ha il terrrore che io ricominci a drogarmi e, non so dove, come e quando, trova per me la possibilità di andarmene dall’Italia per sei mesi: destinazione Israele e i suoi kibbutz. C’è solo da comprare il biglietto aereo, poi sul posto lavorerò come volontario in un kibbutz, avrò vitto e alloggio ed anche un po’ di pocket money tutte le settimane. Sì, è ora di togliere le tende, di allontanarmi da ciò che non mi fa bene, moglie, ero, coca…..sì, si parte!
L’organizzazione mi assegna ad un kibbutz nel sud del paese, quasi ai confini col deserto del Negev, non lontano da Ashkelon: Zikim.
Zikim è un kibbutz considerato ricco. Possiedono piantagioni di aranci e nespole ed hanno anche una fabbrichetta che produce suole in gomma per scarpe. La piccola comunità dei volontari è formata da giovani che provengono da vari paesi del mondo, soprattutto dagli Stati Uniti. Non tutti sono ebrei, me compreso. Durante i tre mesi e mezzo che sono rimasto a Zikim, ho lavorato in quasi tutti i settori: cucina, operaio in fabbrica, raccolta di arance e nespole. Lo spaccio del kibbutz vende della vodka di bassa qualità ma alta gradazione, di arance ne abbiamo sin sopra le orecchie, ne va di conseguenza che la sera è vodka and orange time, ed io da bravo ex tossicomane ne faccio un consumo esagerato. È sempre duro, ogni mattina, alzarsi ed andare a lavorare ancora coi fumi dell’alcol che ti aleggiano intorno, ma si fa. Con gli altri volontari ho un rapporto, in generale, piacevole (specialmente con gli europei): organizziamo gite al mare (che si raggiunge a piedi in 45 minuti, proprio un po’ sopra la striscia di Gaza) o piccoli viaggi alla scoperta di Isreale, aggregando due o tre giorni di riposo. Facciamo anche feste a base di vodka and orange, agli americani piacciono i nudist parties: solo tanto fumo e niente arrosto. Alloggiamo in baracche di legno niente male ed il mio compagno di baracca è un ragazzo argentino che chiameremo Leon. Anche a Leon piace esagerare col vodka and orange ed abbiamo anche la stessa reazione all’alcol, cioè andiamo fuori di testa in un modo non proprio tranquillo, ci piace spaccare le cose. Bisogna tenere presente che la mia situazione psicologica è alquanto disastrata, e Leon avrà anche lui i suoi problemi.
Una sera abbiamo veramente esagerato, distruggendo suppellettili ed infissi, prima di piombare in un sonno tombale. La mattina dopo è sabato, non si lavora, Leon ed io siamo ancora nel mondo dei sogni quando veniamo svegliati da due energumeni del kibbutz, due marcantoni che tutto fanno eccetto scherzare. Non ci fanno un lungo discorso: “se per mezzogiorno non avete raccolto le vostre cose e siete usciti dal kibbutz, vi prendiamo, vi portiamo nel Negev e vi lasciamo lì”. Chiari, concisi e convinti. Tanto convinti da convincere anche noi: cominciamo a fare le borse.
Segue, presto, nella seconda parte.
Mi piace: 12Sergio Baldi, Alessandro Antonaroli e altri 10
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E così abbiamo fatto anche una puntata nel Negev! Chi l’avesse mai detto
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