Sergio Baldi
22 04 2020
seconda parte!!
Così dopo un paio di giorni eccoci di nuovo in viaggio, direzione Kabul, on the way ci fermammo due giorni a Mashad, una delle città sante dell’Iran, ed in questa sosta io provai a visitare la moschea, ma tutte e quattro le entrate erano sorvegliate, per evitare l’ingresso ai non mussulmani, non so come facessero, mi coprivo col mantello, mi mettevo un copricapo comprato apposta nel bazar, ma nulla da fare, dovetti desistere.
Ripartimmo da Mashad ed dopo qualche ora eccoci al confine con l’Afganistan, arrivammo che era quasi il tramonto e gli uffici della frontiera afgana erano già chiusi, quindi non potevamo espletare le pratiche per entrare, le guardie afgane ci diedero la possibilità di usufruire di una specie di camerata adiacente agli uffici per passare la notte. L’impatto con l’Afganistan fu veramente forte, molto forte; a quei tempi l’Iran era governata dallo scià di Persia Reza Palevi filo americano, laico, molto militarizzato, poco incline alla democrazia: si sentiva il baluardo dell’occidente in Asia; dall’altra parte solo a qualche kilometro di distanza in Afganistan c’era ancora la monarchia, il re aveva studiato a Parigi, di religione mussulmana, ma molto laico, apertura alle donne che potevano frequentare l’università e se volevano potevano vestire all’occidentale soprattutto a Kabul, ma il resto del paese era poverissimo, certamente non organizzato e non scolarizzato e si respirava aria da medio evo, i soldati erano vestiti con tonalità dal celeste scuro al blu passando per tutte le sfumature possibili, le divise erano ognuna diversa dall’altra ed i soldati andava in giro tenendosi per mano, certo non davano l’impressione di essere quei grandi combattenti, che prima gli inglesi e poi i russi e gli americani sperimentarono sulla loro pelle.
Mentre ci accomodavamo per la notte uno gruppetto di ragazzetti, poco più che bambini, venne ad offrirci un po’ di hascish, il famoso afgano nero, una “tola” cioè circa dieci grammi ce la vendettero a meno di mezzo dollaro.
Quella notte dormii poco, tra i fumi dell’afgano, l’entusiasmo per essere arrivati fin lì e per il fatto che mi ritrovai a dormire affianco ad una ragazza della Nuova Zelanda che tornava a casa via terra desiderosa di affetto ed attenzioni che certo non mi rifiutai di darle, la mattina eravamo più zombi che esseri umani.
La mattina di nuovo in viaggio, la prossima sosta sarebbe stata Herat, la prima cittadina afgana, qui la sensazione di essere tornati all’ottocento si fece più forte, arrivammo a sera e ci parcheggiammo in una pizzetta dietro quello che sarebbe stato il nostro hotel per quelle notti, la strade non erano asfaltate, e non erano illuminate, agli angoli solo dei lampioni che credo fossero ad acetilene, sicuramente non elettrici, per le vie giravano solo carretti e carrozzelle tirati da cavalli tutti con pennacchi e sonagli e con i fanali accesi, qualche cjai shop ancora aperto con vecchi con barbe curatissime e una specie di turbanti di tanti colori diversi seduti sui charpoy intenti a chiacchierare sorseggiando da bicchierini piccolissimi un the scurissimo, ecco l’originale del nostro locale di Roma pensai; anche qui la sosta durò poco un giorno o due al massimo e poi ripartimmo; con la ragazza zelandese andavamo d’accordo, viaggiavamo su due bus diversi e ci incontravamo solo durante le soste, nessuno dei due aveva voglia di fare il fidanzatino.
La prossima sosta sarebbe stata Kandar, nel profondo sud del paese vicino ai confini col Pakistan, nella terra dei pastuni, i formidabili guerrieri afgani, avevo preso l’abitudine di sedermi nel sedile affianco all’autista, la ragazza americana, da li avevo una visione della strada e del panorama completa e poi mi faceva piacere conoscerla meglio, era una brava autista e soprattutto di gran resistenza. La strada da Herat a Kandar era un lungo rettilineo si dicesse fosse stata costruita con fondi americani e poi la strada da Kandar a Kabul lo stesso un rettilineo ma costruita con soldi russi. La parte sud del paese era un grande deserto piatto e con pochissimi centri abitati, ogni tanto si vedeva una piccola carovana, a volte formata anche da un solo uomo con qualche cammello, che
veniva dal nulla, attraversava la strada e si dirigeva verso il nulla. Il viaggio un po’ monotono era rallegrato da un ottima colonna sonora e da chiacchiere e risate probabilmente dovute anche da quel buonissimo afgano nero, il clima stava migliorando, il deserto era caldo e finalmente cominciavamo ad alleggerirsi, magliette e jeans.
Kandar era proprio in mezzo al deserto, le costruzioni era diventate basse ed aperte, tutte avevano un patio interno dove si godeva ombra e frescura, dal caldo si poteva dormire anche all’aperto, finalmente era quello che aspettavo da un po’. Il bazar di Kandar era il più bel bazar che avevo visitato a parte quello di Istambul, ma qui si potevano vedere gli artigiani afgani che con strumenti molto semplici e rudimentali riuscivano a fare qualsiasi cosa, nelle officine non c’era nulla a parte qualche martello o pinza; a Kandar notai per la prima volta come i camion fossero colorati, sembravano la versione a motore dei nostri carretti siciliani, tutte le fiancate e le parti fisse dei cassoni era pitturate di vari colori ed i disegni formavano una storia, oppure erano dipinti panorami delle zone di provenienza insomma delle vere e proprie opere d’arte, che non ti aspettavi uscire dalle mani di quegli uomini barbuti e dall’aspetto truce.
Ripartimmo da Kandar e di nuovo quei lunghi rettilinei ed io sempre seduto affianco alla bella autista; parte del viaggio la facemmo di notte ed una cosa mi colpì: quando cominciavi a vedere da lontano i rari fari di un altro mezzo, camion o bus che fosse, li vedevi crescere lentamente, quasi impercettibilmente, prima di incontrarli trascorreva un lasso di tempo inverosimile, e questo, mi fece notare la ragazza, era dovuto alla pulizia dell’aria: lì non esisteva inquinamento, non c’erano scarichi o fabbriche che potessero sporcare l’aria, al massimo il vento poteva alzare un po’ di polvere.
Lungo la strada che arrivava alla capitale si incontravano spesso dei bus dei trasporti locali, bus molto più malandati del tragic bus che avevo lascito a Teheran, erano pieni all’inverosimile, con passeggeri anche sul tetto, trasportavano di tutto, animali e casse enormi tutti issati sul tetto a forza di braccia.
La strada per Kabul cominciava a salire, Kabul è situata su di un altopiano a circa 2000 metri di altezza e così in una notte passammo dal caldo del deserto di Kandar al gelo ed alla neve di Kabul, di nuovo un freddo cane, ci fermammo per un paio di giorni in un piccolo albergo, avevamo preso una camera comune per risparmiare, al centro di questa camera c’era una specie di stufa a legna molto semplice, un bidone con un tubo di scarico, ma il combustibile non era la legna ma bensì delle piastrelle che all’inizio non capii cosa fossero, poi capii: era sterco di cammello essiccato al sole.
Kabul era affascinante, certo non come Herat, ma aveva qualcosa della capitale, la girai in lungo e largo, andai a prendere un cjai in quel Sikis che aveva ispirato il nostro locale di Roma, passeggiai per Chicken Street e curiosai in tutti i negozietti con gli oggetti di artigianato e le stoffe a fiorellini che tanto mi affascinavano. Chiaramente andai a visitare il bazar, tappa immancabile e, tra i vari giri, mi ritrovai in un cortile di un palazzo, in questo cortile c’erano una cinquantina di venditori che avevano piazzato la loro merce su tappeti dove essi stavano seduti, su ogni tappeto ci sarà stato esposto qualche migliaio di dollari in tutte le banconote del mondo. Era il bazar dei change money. Ti fermavi e chiedevi a quanto ti vendevano le rupie indiane o quelle pachistane, quanto stava lo yen cinese o la lira italiana, il marco tedesco od il rublo russo; alcuni di questi tappeti erano incustoditi, il proprietario si era allontanato per andare a bere un cjai o per concludere una contrattazione, ma nessuno si azzardava neanche minimamente a pensare di approfittare di quell’assenza, ed il tutto senza l’ombra di un poliziotto. Visto il cambio favorevole io comprai un centinaio di dollari in rupie, mi sarebbero state presto utili.
Lasciammo Kabul per dirigersi verso il Pakistan, dopo un centinaio di kilometri ci fermammo in un piccolo agglomerato di case , certo chiamarle case era un po’ ottimistico: capanne
di fango con tetti di canne, ma questo posto era un posto davvero particolare, era il villaggio dove gli afgani si rifornivano delle armi che immancabilmente ognuno di loro aveva e soprattutto si portava dietro, anche nei bus loro si portavano dietro il loro fucile; in questo piccolo villaggio gli artigiani afgani copiavano qualsiasi tipo di armi: dalle beretta italiane, alle colt americane, dai fucili inglesi della seconda guerra mondiale a quelli cinesi e russi, con un tornio ed un po’ di acciaio erano capaci di rifare qualsiasi cosa, e per poche decine di dollari chiunque, anch’io, poteva comprare un arma, questo paese era la capitale di quella zone che ora viene chiamata la tribù area, per capirci quella dove i talibani la facevano da padroni. Chiaramente non comprai nulla, ma rimasi molto affascinato da quel posto soprattutto per la bravura di quegli artigiani.
18Tu, Franca Cino, Emanuela Limiti e altri 15
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Ancora ancora
A Meshad si ruppe l’alternatore della mia 2 cavalli e rimasi bloccato quasi una settimana. Io riuscii ad entrare nella Moschea al primo tentativo, forse perché’ somigliavo a uno di loro… ma poi dentro dopo n po’ venni colto da paranoia di cosa avrebbe potuto succedermi e me ne andai furtivamente.
Ancora… il seguito…
grazie Sergio…
Bravo Sergetto !! Complimenti
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