Goa 7

Goa 7
Inoltrandoci negli anni 70 Goa era diventata qualcosa di completamente diverso. Della colonia portoghese non c’erano tracce tranne le cattedrali bianche e sontuose sparse in giro. Anche delle vecchie facce che abitavano Calangute e magari erano stati buoni amici ne erano restate ben poche; cominciava ad essere una linea continua di boutique e locali un po’ dovunque.
Della vecchia Goa pescai casualmente un residuo lungo la strada che collegava Vagator a Panaji.
Non ricordo perché fossi stato a Vagator sulla mia meravigliosa Royal Enfield Interceptor, una moto di cui non ricordo la cilindrata ma era comunque un bestione potente che ti portava dovunque chiedendo soltanto una maggiore attenzione quando facevi le strade ricoperte dalla sabbia. Tu sedevi ben alto ma la ruota anteriore distava da te un bel po’: forcella a un chilometro.
Si noleggiavano ma io che nel frattempo spendevo come un nababbo, dopo qualche anno me ne comprai una che ripartendo affidavo a un ex pescatore mio amico. Tornato ad Anjuna dopo una assenza di un quindici di anni, andai a cercarlo ma non trovai traccia né di lui né della moto. Andata.
Con quella verso la metà dei 70 tornavo una mattina da Vagator quando in un tratto abbastanza sgombro da costruzioni mi capitò di scorgere una casa Goana caratteristica dei tempi andati ma molto ben tenuta. A due piani e con un giardino che era un trionfo di verde e di colori.
Parcheggio lì fuori, mi avanzo di qualche passo dentro quel giardino profumatissimo e dopo un po’ che stavo lì a guardarmi intorno sentii una voce interrogarmi su cosa stessi facendo lì.
Da una finestra del primo piano una signora sui cinquanta, o quaranta: con le indiane non si sa mai, mi stava osservando e si rivolgeva a me.
Le dissi che mi aveva colpito l’aspetto di quella casa e che mi sembrava molto bella e antica. Mi invitò ad entrare e visitarla.
La signora che scese ad aprirmi la porta era di un’eleganza portentosa, vestita in gonna scura e camicetta bianca, perfettamente intonata alla bellezza severa e muta di quell’ingresso piuttosto scuro.
Scuri erano i mobili imponenti che ti accoglievano e bianca era una larga scalinata ellittica alle spalle della donna. Pensai che quelle scale dovevano essere state all’avanguardia quando la casa era nata.
“Si accomodi” disse, mentre mi faceva strada su quei gradini.
Raggiungemmo un salone dove la cosa che più mi colpì fu l’arredamento in legno scuro riccamente tornito. “Mobili in ebano. Vengono da Zanzibar.”
Da subito ero stato accolto dal suono di un pianoforte piuttosto piacevole.
Passammo ad altri ambienti tutti molto belli con le tende chiare e trasparenti mosse da una brezza leggera, mentre la signora mi spiegava che era la casa della famigli di suo marito, medico all’ospedale di Panaji, così come medico ormai in pensione era il distintissimo, anziano signore che si levò dal pianoforte per stringermi la mano. Pantaloni scuri, camicia bianca, occhialini tondi cerchiati in oro.
Un cocker spaniel accanto al pianoforte.
Dove ero capitato? Quale Goa era quella?
La signora insistette che rimanessi, avrebbe fatto piacere al marito che tornò proprio allora. Presentazioni, complimenti per la magione, un breve resoconto su chi fossi io e da quale parte di Italia arrivassi. Poi declinai l’invito e tornai alla mia moto ma quello spaccato di Goa tanto lontano da turismo e luccichii, ancora mi è dentro.
Triste che anni dopo io abbia rivisto quella casa con sopra l’insegna di un albergo. Non voglio sapere

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