Mykonos era questo: lavoro, lavoro e lavoro. Le mattine di svago in spiaggia che essendo vicina a casa finiva per essere quasi sempre Paraga, una distesa di sabbia bianca con una spruzzata di scogli tondeggianti al centro della piccola baia, una secca a cinquanta metri dalla riva e libera da alghe e porcherie umane. Tanto piacevole in bassa stagione quanto impossibile durante il clou turistico ma bastava evitare le ore di punta. Quello era il tempo giusto per infilarsi nel ristorante dove camerieri amici trovavano sempre un tavolo. Gli amici non mancavano di certo tra quelli che abitavano lì e quelli che ci raggiungevano da Roma per la vacanza.
L’isola era gonfia di gente d’ogni tipo e nazionalità così che spaventai mia figlia una mattina di Ferragosto, dovevamo essere nel 2005, e le comunicai che non si apriva lo Studio e ce ne andavamo al mare.
“Ma sei matto? Il 15 agosto al mare con tutto il casino che ci sta?”
“Dai retta. Questa è la mia isola. Vieni con me.”
Era la mia isola, sapevo quel che facevo e nella zona delle antiche miniere, tra rari fili d’erba, sassi bianchi e sentieri invisibili arrivammo a quattro cinquecento metri di sabbia bianca coccolata da una cornice di rocce basse. Il mare era sempre quelle pennellate tra il turchese e il turchino con l’acqua calda abbastanza da dare refrigerio al Solleone che imperava. Nessuna sdraio né ombrelloni ad eccezione di quello che ci eravamo portato per tenere al riparo bottiglie d’acqua e cocomero.
La mamma del piccolo era rimasta in città a sollazzarsi nella boutique che avevo aperto per lei e i miei figli ed io ci vivemmo un Ferragosto da non poter dimenticare. Uno scorcio di Grecia tutto nostro.
Finché con il motore al minimo scivolando sulle onde dal lato opposto della piccola baia approdò un’imbarcazione greca completa di Greci.
Distava duecento metri da noi ma si erano fatte quasi le cinque così che considerammo il posto troppo affollato e saliti in macchina ce ne tornammo a casa.
Doccia, uno stuzzichino ed io via a bottega nel frattempo aperta da Gippi.
Trovai la situazione di ogni giorno: Gippi aveva già preso a tatuare, Dafne mostrava disegni e discorreva con i clienti arrivati per primi, Nenad sulla veranda era impegnato con le richieste di tatuaggi all’Henna, Dudù presa come gli altri dalle richieste per i piercing.
La ditta al completo. Una piccola impresa che macinava quanto lavoro avesse voluto, poco legata agli orari.
Raro che i clienti giungessero soli: eravamo nella stagione del pieno di turisti, l’Agosto a Mykonos, e le coppie e i gruppetti di Greci o Italiani o Australiani o che dir si voglia si appressavano su scala e veranda tenuti a stento fuori dallo Studio vero e proprio.
Spesso dovevi cedere e al momento del tatuaggio più di uno pregava per la vicinanza di una amica o del compagno.
Assistevi così agli stritolamenti stoici di mani o braccia, un paio di volte mani che si insinuavano sotto una gonna per offrire un po’ di distrazione. Ricordo un moto di rabbia dissimulato, con due americane che dovetti interrompere per girarle poi a una coppia di amici italiani che erano passati a salutarmi. A posteriori mi ringraziarono e io preferii evitare i particolari: erano proprio belle e brille il giusto.
L’atmosfera dentro quello spazio angusto era sempre positiva e allegra abbastanza da tollerare il ruotare continuo di gente e le ore di lavoro.
I tatuaggi si succedevano tra la stellina souvenir o il più grande che prendeva tutta una spalla o l’intera schiena e a questo proposito ecco la foto di un’opera con un indimenticabile antefatto.
Ero a Formello per il mio primo inverno in Italia come al solito gestito dall’usuale gioco delle coincidenze.
Mi ero appena separato, la madre del piccolo era sparita in Canada e Angelostefano ed io lasciata Mykonos ce ne eravamo andati ad Atene dove avevo affittato un bellissimo appartamento oltre che un negozio per farne un tattoo studio.
Mi ero impelagato già prima della separazione con questo proposito di un’attività invernale ad Atene anche per consentire a mio figlio di frequentare la scuola italiana ma mi bastarono tre giorni per rendermi conto che le distanze in una metropoli così vasta e i miei impegni di genitore solo avrebbero reso difficile se non impossibile affrontare il tutto.
Una telefonata a Roma per chiedere consiglio a una psicoterapeuta per l’infanzia che conoscevo da anni e sentirmi rispondere: “Portalo a vivere in un centro piccolo. Deve metter radici.”
Centro piccolo Atene? Avevo proposte di apertura studio a Bobay, New Delhi e Bangalore. Centri piccoli?
Atene e trovare una baby sitter che lo seguisse? Un bambino rimasto appena senza mamma?
Il tempo di cominciare a pensarci che caso vuole, ah… il caso, che squilla il telefono. Mi chiama dall’Italia qualcuno che avevo tatuato un mese prima: “Pinoooo! Quando vieni a trovarci?”
“Dove?”
“Formello”
“E dove è Formello?”
“12 chilometri da Roma.”
“Mi trovi una casa e un negozio?”
Questo il dialogò che mi cambiò la vita perché alla loro telefonata di risposta il giorno seguente, “Hai casa e negozio”, caricai la macchina e io e il piccolo ci mettemmo in viaggio.
Vita di un paesotto alle porte di Roma, iscrizione alle elementari e una mamma mi ferma fuori alla scuola poco tempo dopo: “Ingegnere mi perdoni… ho visto che il suo bambino compie gli anni lo stesso giorno del mio. Sono nella medesima classe e avrei pensato di fare insieme la festa di compleanno…”
“Signora pienamente d’accordo ma comunque non sono ingegnere…”
“Oh…. mi avevano detto… e cosa fa?”
“Il tatuatore, signora,”
“E chi cazzo te c’ha mannato?”
Aveva cambiato stile e tatuatore in un istante. Aveva già programmato un fiore su una spalla da farsi fare non so dove ma questo fortuito incontro fece si che le desiderata si trasformassero in una schiena riempita e tralascio il successivo fianco e coscia e braccia.
Gli incontri sorprendenti che il mio mestiere sempre offriva.
Lì a Mykonos poi. Tempo di turisti italiani sull’isola e in tre si affacciano sulla porta: “Tatù?” e un altro: “Giovedì”. Il terzo scoppia a ridere: “Che glielo dici in italiano?” Il primo, poliglotta, traduce: “Fraidei”.
Tre senesi di vent’anni che poi si rivelano simpatici e vogliono il souvenir della vacanza diversa. Ognuno a modo suo.
La ventiseienne saudita. Viene da un paese dove le donne possono uscire per strada solo in compagnia di un uomo, non possono guidare e in genere non possono.
Due occhi al limite del nero e un sorriso ambient nel senso che l’ambiente lo crea.
La differenza di età con suo papà era di sessantacinque anni. Lui è andato, ma era l’unica figlia di cui ricordava sempre la data di nascita. Era anche la sola occasione in cui si incontravano quando la chiamava per farle trovare una torta con le candeline e così, sulla caviglia, un cake di compleanno con un po’ di fucsia.
Pregio di quell’isola tanto turistica è il mutamento costante della fauna che la visita o per un giorno o si sofferma una settimana.
Verso la metà di luglio ad esempio ti accorgi che le giornate di vento si alternano per fortuna più spesso a quelle torride in cui il solo rifugio è la spiaggia o, per chi lavora, i fottuti condizionatori; tanto è che in città, di quartiere in quartiere, salta l’elettricità, a volte per ore.
Quello che a metà luglio drasticamente cambia è il tipo di turista.
Arrivano i “maturati”, qualità da virgolettare, soprattutto italiani e spagnoli. Regolarmente desiderosi del ricordino da mettere sulla pelle che fissi quella vacanza e quel momento.
“C’è un simbolo di Mykonos?” “C’è un simbolo greco dell’amicizia?”
Magari se disonestamente me lo inventassi frutterebbe un sacco di soldi. No. Non c’è. Tranne cose orrende come il mulino a vento o Petro, il pellicano.
Parecchi si arrendono a una M maiuscola, una data, una parola in greco, ma a tutti viene l’idea di ricordare il momento con il primo o anche il secondo o terzo tatuaggio. Una vacanza da non dimenticare.
Così per me gli incontri si fanno meno vari; l’età media dei miei clienti cala e la conversazione verte sul voto preso agli esami e le prospettive di futuro. Pochi sembrano avere le idee chiare o un sogno da inseguire nell’immediato, ma questo è normale. I più tristi sono quelli condizionati dalle professioni dei padri: avvocati, medici, farmacisti, notai.
Aneliti di libertà e affrancamento se ne scorgono pochi. La scelta di una vacanza su quest’isola piuttosto che su un’altra isola greca è d’altro canto figlia di un desiderio di stordimento che sia continuazione dei sabato sera in discoteca.
Identiche province quelle emiliane, piemontesi, campane o pugliesi. Cambiano gli accenti ma il vuoto sembra essere lo stesso. E’ l’ennesima generazione educata dalla Tv berluscoreganiana, il che può sembrare detto e ridetto ma è comunque una verità.
Ci sono volte in cui quasi mi diverte affondare il coltello. La ragazza che si sente bella e in realtà è soltanto fresca, 63 alla maturità classica, forse giurisprudenza, non sa bene… e…
“Una notte ad Arcore?”
“Di corsa!!”
C’è anche di meglio, ma purtroppo la media è questa. Iphone, facebook, borsone da spiaggia, grandi mise per l’uscita serale e piccola riserva economica per i regalini souvenir dell’ultimo giorno.
Telefono casa non manca mai, magari subito dopo il tattoo. Nel frattempo si va avanti mangiando Ghiro Pita per risparmiare e avere abbastanza per i drink al Tropicana o l’ingresso a Cavo Paradiso.
Passata l’ondata dei diciottenni maturati e’ il momento delle venticinquenni cerettate, come anche dei coetanei maschi regolarmente lisci e depilati. Belle, setose, abbronzate, le fanciulle; sicure di sé al punto che ti verrebbe voglia di chiedergli se sometime could be possibile to jump on their leopard skin pilo box hat.
Un po’ fanno tenerezze tanto sono giovani e un po’ rabbia considerando che la maggior parte di loro figlierà senza avere imparato nulla da poter trasmettere tranne quello che le loro mamme, i loro papà e dio gossip hanno trasmesso loro.
Li tatuo comunque con amore buddista e se possibile con rispetto. Anche la stellina la M più idiota nascondono la valenza psicologica del “sarà per sempre”.
Dopo tanti anni però, vivo ancora il tatuaggio come un gesto radicalmente carmico. “Sciamanico”, dice sempre Gippi il pragmatico.
Resto convinto che l’amore che ci metto mi tornerà indietro.
Ovvio che talvolta tutto ciò sia perfino ridicolo con certi clienti, e ne capitano, fatti, strafatti, alla ricerca del marchio che li faccia somigliare almeno un po’ ad Angelina Jolie o Rihanna o Beckam. La maggior parte fortunatamente cerca un simbolo che li identifichi o che rappresenti ciò che amano. Il tatuaggio inteso come abbellimento di certe aree del corpo è più raro.
Me ne portano di belli da fare: Sigma sta per “scoppiati”. Trovata di quattro romani. Forse i più spiritosi.
Altri due si fanno una mano che alza un calice: uno sulla chiappa destra, l’altro sulla sinistra così quando si danno una culata sarà come brindare.
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3 risposte
mai fatto ne’ pensato di fare un tatuaggio. Mi piacciono, mi intrigano, li fotografo… ma non sulla mia di pelle. Peccato non essere passato per Mikonos quando c’era l’opportunità’…
Bravo Pino! Vi immagino (Tu e Gippi) al lavoro insieme, nel tattoo shop in Mykonos,
lavoro e divertimento… e la marea di clienti internazionali villeggianti in questo posto
che mi pento di non aver mai visitato…
Bella composizione sulla schiena della tizia!
ribadisco che la curiosità di un tatuaggio te la potresti anche togliere: gambe accavallate e sulla coscia…