Goa 4
Goa ricca di sorprese e insegnamenti. Capitò che Giuliano si svegliasse una mattina ben giallo, con occhietti vitrei, diarrea e febbre. Ci risolvemmo a caricarlo sulla carriola di un vicino e raggiunta la fermata dell’autobus consegnarlo all’ospedale di Panaji. Passò un girono e la stessa alzataccia toccò a Marcellino. Stessa carriola e identica destinazione. Al pronto soccorso i medici, di scuola inglese, parlavano di epatite.
Ancora un paio di giorni e paragonabile a un cesso mi svegliai anch’io febbricitante e giallo.
Me chi mi avrebbe portato all’ospedale?
La fedele buona stella fece arrivare alla porta della mia casa Thomas, un pescatore circa della mia età, buon amico con cui dividevamo maccarelli e partite a pallone.
“Thomas help me.”
“No problem.” Fu perentorio: “Vado a chiamare il dottore.”
Scomparve e quando tornò col medico io andai nel panico.
Con lui c’era uno dei pescatori più anziani ma che non ricordavo di avere incontrato, nudo col suo perizoma e con un sacchetto di stoffa pesante a tracolla. Non parlava inglese, né portoghese o konkani, emetteva solo una sequela di “Fè, fè e fefè” accompagnati da gesti descrittivi ma inintelligibili.
“Thomas, please… take to the bus!”
Ma Thomas cercava di calmarmi e mi spiegò che il dottore mi avrebbe dato una medicina che mi avrebbe subito fatto star bene.
Si era seduto in terra. lo sciamano, e tirata a sé la larga pietra che in ogni casa goana serviva a grattugiare il cocco, prese a strofinarci sopra radici secche che tirava fuori dalla sua sacca.
Mi domandò se avessi del Kaju Feni, un liquore molto forte fatto con gli anacardi, immancabile in ogni casa goana e ne versò un po’ sopra la polvere che adesso stava sulla pietra mescolando col suo ditone nero. Poi mi fece capire di togliermi i vestiti e mettermi sul mio pagliericcio a pancia all’aria congiungendo le mani sotto l’ombelico. Mormorava tra le labbra qualcosa tra formula e preghiera e subito, intinto il dito dentro quella sostanza abbastanza liquida, mi segnò una croce al centro della fronte. Ripetè il segno sulle braccia in alto, al centro del petto, sui polsi, sopra l’ombelico, sulle ginocchia e il dorso dei piedi. Poi intrisa bene una mano in quell’intruglio me lo spruzzò in viso e su tutto il corpo. Un cucchiaino me lo mise in bocca.
Thomas annunciò che tra due ore sarebbero tornati e che la febbre per allora sarebbe passata, poi se ne andarono.
Mi sentivo veramente imbecille ma cercando di studiare come arrivare al bus, erano sei chilometri tra le palme, mi appisolai.
Mi svegliarono i due tornando dopo un paio d’ore e portandomi un maccarello bollito e dell’acqua. Non dovevo mangiare altro per due giorni; avrebbe pensato Thomas a portarmi il pesce, e Fefé, cosi lo battezzai, ripetè i segni che mi aveva fatto alla prima visita.
Mi accorsi che la febbre non c’era più e mi sentivo stranamente meglio di come stavo prima.
Fefé e Thomas si presero cura di me per un paio di giorni finché mi alzai dal letto e mi azzardai fuori casa. Ero guarito. Niente più diarrea e anche l’appetito stava tornando. Una settimana dopo giocavo nuovamente a pallone aspettando i miei amici che uscirono dall’ospedale non prima di una ventina di giorni.
Domandai a Thomas chi fosse lo sciamanno che mi aveva curato e mi disse un nome che non riuscii a capire seguito dal cognome: Trinidad. Per me lui rimase Fefè Trinidad anche se un giorno scoprii che non era muto. Parlava come tutti la sua lingua e soltanto quella ma con me, mi spiegò, era inutile tanto non la capivo.
Continuò a intercalare gesti e fe-fè anche quando divenne il mio maestro, su richiesta mia che volevo imparare l’uso delle piante che lui usava, e così divenne un buon frequentatore della mia casa. Piacevole, anche quando in piena notte veniva a tirarmi giù dal letto perché bisognava andare su una certa collina a cogliere un erba che sorgeva solo a quell’ora e proprio lì.
Tra gli amici arrivati e che che circolavano era apparsa anche Nicla che conoscevo fin da Roma, gran bella ragazza che stava spesso a casa da me, e Fefè mi spingeva ad avere rapporti con lei e di non preoccupami perché se non volevo gravidanze bastava una delle erbe che mi aveva mostrato.
Quando lasciai Goa per andarmene verso Nord furono ovviamente grandi abbracci e lui pianse domandandomi perché e tra le altre cose che ne avrei fatto della quarantina di dipinti che stavano ammucchiati in veranda; dentro il mio cuore destinati all’abbandono.
Me li chiese in regalo e si mostrò molto contento quando gli dissi di si.
Quadri e Fefè trovarono un seguito nella storia quando tornai a Baga, la zona dove erano la mia ex casa e la sua grossa capanna, una ventina d’anni dopo e andai a cercarlo.
Mi affacciai sulla soglia e dal buio si fece avanti una ragazza che mi riconobbe, una delle sue figlie, e mi invitò a entrare per salutare il padre che stava mangiando insieme al resto della famiglia. Fefè schizzò in piedi e piangendo mi abbracciò stretto imbrattandomi bene del riso e il pesce che stava mangiando.
Volle ovviamente che mi sedessi con lui, la moglie e i vari figli offrendo il pranzo anche a mia moglie e ai miei due bambini.
Mi chiedeva di loro e di cosa io facessi in Italia con l’ausilio delle figlie che parlavano inglese, quando mi capitò lo sguardo in quella penombra su un pannello poggiato in terra accanto al muro. Era uno dei miei quadri. Ne chiesi stupito alla figlia e questa, presa una torcia tascabile, illuminò altri miei quadri, tutti in fila lungo le pareti tutto intorno. “Gli altri”, mi indicò lei, “stanno lì ma una volta al mese li cambia tutti.”
Che fine migliore avrebbero mai potuto fare le mie opere del periodo goano? Mi dissi, e ripensai a un collage che avevo fatto quando ero lì raccogliendo in giro per le case degli amici medicinali d’ogni tipo e colore e facendone un mosaico di capsule, pillole e supposte e fiale. Artistico, ma con il clima tropicale quel capolavoro dopo un po’ colava e puzzava fin da lontano.
Tornai ancora a trovare Fefè trent’anni dopo. Al posto della sua capannona c’era uno Sherato con giardino e piscina a fagiolo. Baga era irriconoscibile e incontrai soltanto il sarto in quel che era stato il mercato di Kalangute. Gli chiesi di Fefè e di Tomas: morti anni prima. Così mi disse anche di altri amici goani per cui scelsi di non indagare più. La sola domanda che non trattenni fu se morto Fefé avessero avuto un altro sciamano. Mi rispose sorpreso di si. Era ovvio, disse. Mi feci confezionare due delle sue camicie.
Camicie che erano poi un modello di Beppe, approdato a Goa nell’anno successivo.
Quell’anno erano arrivati un bel po’ di amici italiani, qualche conoscenza di Roma e altri da varie parti di italia.
Quell’anno mentre me ne stavo in veranda a dipingere passò un soggetto in perizoma, con una gamba offesa dalla polio e relativo apparecchio, claudicante con in pugno una borsa da medico che mi domandò dove abitasse un’americana mia vicina di casa. Scomparve ma si fermò sulla strada del ritorno spiegandomi tra una facezia e l’altra che era stato a far partorire la tizia. Era un medico, un leprologo per l’esattezza, divenne subito il dottore dei Freaks correndo tra un parto e una overdose; veniva da esperienze in Africa e Sud America, era fiorentino doc, faceva anche disegni e caricature da dio e divenne un ottimo amico stando a casa da me quando passava da Roma per qualche imbarco lontano. Andavamo a vodka allora e comunque il ragazzo ha un archivio delle facce freak e situazioni varie di quella Goa, non indifferente. Inchiodato in Australia dall’Oms non lo vedo più da anni. Ci teniamo in contatto tramite Face Book così che critico o approvo gli australiani che ritrae.
Delle amicizie di quella Goa ho detto. Degli episodi miliari tipo il parto di Bruna ci sarebbe da fare un racconto a parte.
In un villino bianco poco discosto dal mercato di Mapuca, una cittadina più grande di Calangute ma in quel temp non certo una città, una mattina venne alla luce Simon, il primogenito di Bruna e del Boccanera, Roberto. La voce del parto corse tra le nostre case sulla spiaggia e a vedere il pargolo ci precipitammo Pierfranco e io muniti delle nostre Nikon F.
Quei bianchi e neri ancora resistono, almeno i miei, a testimoniare di una Goa che non c’è più trasformata in un baraccone osceno dove tornandoci, l’ultima volta nel 2005, trovare un goano è una scommessa persa in partenza.
Un altro tempo. Un’altra storia. Un altro romanzo.
Ma dei pescatori che dal Kerala venivano a farsi la stagione a Goa con delle piroghe con bilanciere lunghe una decina di metri in cui sedevano uno appresso all’altro remando fino al largo e trascinando lenze con grossi uncini a cui restavano appesi squali mastodontici che poi trascinavano a riva dove io e una inglese di mezza età li aspettavamo per comprarci uno di quegli enormi fegati da trasformare in succulento patè? L’ho raccontato?
E di Geppy, di Piero, di Beppe e Roberta, e del capodanno a Goa, e del Marano, e Angela e Archimede, e quanti altri e di Peter in fuga dal Vietnam e che scappando da casa mia dove era ospite lasciava lì “Journey to the deep North and other travel’s schetces”? Ne ho parlato?
Affascinante come Goa abbia colorato i miei vent’anni e quelli di tanti altri. Che gente fortunata. Ma rientrava tutto nel patto stipulato.
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