25 anni a Mykonos facendo tatuaggi come unico lavoro e impegno. Tralasciando i quarant’anni precedenti viene comunque fuori una vita intera alle prese con gli aghi e le più disparate epidermidi. Ho disegnato e realizzato gonnelline, camiciette, anche di peggio tipo lo chemisier a 3 maniche, e poi vetrate, cinture, borse, valigie (più o meno imbottite), riviste, articoli per riviste, cappuccini e coctails, ne ho fatte di cotte e di crude ma in numero maggiore tatuaggi.
Me ne rendo conto aprendo e subito richiudendo quei due hard disk.
Ho accennato nel precedente scritto a qualche tatuaggio particolare; cercando la foto di un altro che mi era venuto in mente ho commesso il drammatico sbaglio di aprire il baule delle foto prese non ogni volta che finivo un tatuaggio ma abbastanza spesso da colmare un paio di hard disk. Mi sono arreso. Ne farò un libro fotografico che non farei mai.
Frugando però lì dentro ho trovato un paio di temi interessanti e la spinta per tirar su dal pozzo della memoria certi aspetti del mestiere.
Ti trovi a contatto con le più differenti personalità e dando per comune a tutti quanti loro il desiderio di segnarsi la pelle con qualcosa dal preciso significato, almeno per se stessi, puoi indagare fino a un certo limite cosa ci sia dietro quella scelta: finisci per accettarlo o in qualche caso rifiutare la complicità che ti chiedono.
Quale contorsione psicologica c’era dentro la ventenne che non molti anni fa, preso appuntamento veniva a chiedermi di tatuale sulla spalla una fatina ricca di colori? Mentre cerco il disegno adatto domando se sarà il primo. “Oh no. Ne ho altri quattro.”
Le chiedo di farmeli vedere e via via li mostra: Due sono anche di pregevole fattura ma lei aggiunge che non le piacciono. “Perché?”
“E’ che proprio i tatuaggi non mi piacciono. Non so nemmeno io perché li faccio.”
La lascio a cercare di risolvere il suo problema e con cortesia la metto alla porta.
Si incontrano di continuo psicopatici di vario tipo, nel mio mestiere con maggiore frequenza, ma esserne complice cosciente in cambio di trenta danari non fa per me.
Mille e mille volte quei danari li ho accettati trovandomi di fronte casi disperatamente evidenti di sbagli di un altro tatuatore o di una scelta fatta in un momento fuori di testa.
Qualche esempio?
Ben di più e qualche volta siamo riusciti a salvare il salvabile o metterci una toppa; altre volte bandiera bianca senza però offendere il portatore di tali testimonianze.
Una delle caratteristiche dei tatuatori è la vita al margine del rischio vuoi per l’origine dell’arte del tatuaggio, almeno in occidente, vuoi per il tipo di frequentazioni a cui sono in genere obbligati. Si da per scontato che il tatuatore sia una sorta di drop-out e come tale propenso all’uso di droghe e mezzi per starsene allegro.
Mi sono visto offrire di tutto e quando l’offerta veniva fatta con simpatia, un sorriso e un’aura di complicità spesso non ho rifiutato, salvo poi buttare nel cesso, quando era roba che la mia coscienza mi diceva dannosa, oppure girare a qualche amico che si trovava a passar di lì.
Episodio carino è quello di un armadio dalla pelle scura che viene lì con uno sgorbio enorme e orrendo sul bicipite. Vuole coprirlo con un tribale che tanto va di moda.
Mentre preparo lo stencil domando dove lo abbia fatto.
“St. Quentin.”
In genere ti dicono di averli fatti sotto le armi. Questo ci va giù senza peli sulla lingua. “Seven years”. E’ un cubano di Miami mi racconta.
L’armadio si sdraia sul lettino, io mi prendo tra le mani quel braccino tipo tronco d’albero e attacco a lavorare. Ogni tanto devo scuoterlo perché si è subito addormentato e nel sonno grugnisce e tende a muoversi.
Lo sveglio quando finiamo e davanti allo specchio è tutto un “Super! Super! You did a great job, man”.
Sono entrati altri clienti e mentre parlo con loro, l’armadio cubano che ha già saldato ed è scomparso nel bagno, mi passa accanto e mi infila qualcosa nel taschino della camicia sussurrando: ”Pure Colombian.”
E’ il mio turno di recarmi in bagno e pescare fuori un sasso bianco che quando più tardi lo peserò farà segnare 2 grammi e mezzo al bilancino.
Quello non finì nel cesso. Gli Americani hanno l’usanza di aggiungere una mancia e mi sono ritrovato con bottiglie di Punt e Mes o Lacrima Cristi dal momento che ero italiano. Quella volta rimase memorabile anche perché il giorno dopo l’isola era invasa di poliziotti e cameraman: avevamo pescato uno yacht con mezza tonnellata a bordo. Nelle riprese televisive c’erano gli arrestati ma nessuna traccia del mio cubano.
Ho sempre usato la Coca come lenitivo alla stanchezza e nient’altro, per cui quando nel mio mestiere capitavano tirate impreviste di molto oltre gli orari civili c’era la mia scorta costantemente rinnovata da anime gentili disponibile per ritirami un istante in bagno e ripartire.
Eroina, Ecstasy e pastigliume dai nomi più strani finivano buttati via, tranne una volta che decisi di tenere quella pillola che “E’ un acido stupendo” mi disse chi me la regalò e io, che non prendevo LSD da un a trentina di anni me ne andai una notte in discoteca, una delle tante di Mykonos, mi buttai giù la pasticchetta per accorgermi dopo cinque minuti che non era il mio Sunshine ma un concentrato di anfetamine che mi tenne su ad agitami per una notte intera. Il donatore lo rincontrai qualche giorno dopo e mi scrutò con un sorriso complice ed amichevole avendo di ritorno un vaffa.
Ecco che il lavoro fatto al Cubano era di quelli di recupero porcate sulla pelle e sicuramente ne ho una foto da qualche parte.
Ne capitavano di continuo e un pomeriggio mi avvicinò una ragazza che mi chiese se io potessi sistemarle un largo Fiore di Loto, secondo moda tribalizzato, che aveva sopra l’osso sacro e che era visibilmente fuori asse rispetto alla colonna vertebrale.
Me lo guardai e conclusi lapidario: “Do not worry. Quando avrai sessant’anni si raddrizzerà naturalmente.”
Tornò il giorno dopo e chiese un tatuaggio sulla spalla che le feci. Avrei dovuto insospettirmi perché avevo capito da tempo che una donna che fa un qualsiasi tatuaggio sulla spalla, braccio o caviglia che sia e torna il giorno seguente per un altro, spesso su pube o seni, è lì con ben altre intenzioni e di norma si finisce a letto. Ma era bella; feci senza molte domande il pupazzo, mi sembra si chiamasse Spyro, che chiedeva e diversi mesi dopo la giovane Serba mi rese padre per la terza volta.
Un maschietto che mi salvò la vita: mi vidi obbligato a rinunciare alle mie 15 tequile serali.
Non ero alcoolizzato, era soltanto che pino in greco vuol dire bere e visto che i barman dell’isola li avevo tatuati tutti, quando lasciavo lo studio vedendomi passare…
Ci vollero un paio di anni per trovare una soluzione che raddrizzasse quel Fior di Loto; poi proseguì fin sulla spalla e si arricchì di colori.
I lavori che ti regalavano gratitudine eterna erano gli interventi sulle vecchie cicatrici. Il tatuaggio era spesso la sola soluzione. Piaghe da decubito e giù la storia dell’incidente di macchina col padre alla guida fatto di eroina e la figlia dodicenne per un anno in coma.
Un’appendicite:
Un cesareo:
Una romana tirata fuori dall’auto in fiamme con fratture alle gambe e ampie cicatrici da coprire in qualche modo:
Un asiatico con segni strani sugli stinchi a causa del lavoro durato anni con la bicicletta:
Aspetti particolari del mio lavoro.
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
- 0
6 risposte
grazie per la dritta, ho capito come spostare le date e metterle in ordine cronologico … e anche come inserire le foto negli articoli della dimensione voluta.