Goa 38

Bello eh? Un tatuaggio dei tempi a Mykonos quando si lavorava insieme a Gippi.

Tatuaggi e situazioni particolari favorite anche dallo stile e l’atteggiamento dei due operatori principali: tutti e due over sixties, probabilmente tra i più vecchi tatuatori italiani, ancorati alla vecchia tradizione di quando il tatuaggio non era una moda ma un simbolo di rottura e un’affermazione di personalità a cui affidavi la memoria di un passaggio o un momento.
Jacques Prevert ha scritto che la vita è un romanzo e i tatuaggi ne segnano i capitoli. Un gesto che non può essere affidato ad altri che a uno sciamano. Secondo me. Secondo Gippi: “Sbrighete a fallo. Che chiacchieri? Stai a perde’ tempo.”
Due maniere differenti di affrontare il mestiere, tutti e due però accomunati dalla concezione che sia un lavoro da artigiano: fare l’artista sulla pelle altrui non ci tentava nemmeno un po’.
Gippi mi aveva raggiunto qualche anno dopo il mio approdo nell’Egeo in quello studiolo di cui ci saremmo dovuti vergognare tanto era piccolo e scevro di immagine. Eppure lì dentro risate ce ne siamo fatte parecchie vedendo passare la fauna più disparata.
Le volte che tanto di più mi sento artigiano, semplice strumento. Senza nessunissima pretesa artistica. Forse un po’ sacerdote o stregone. Con il massimo rispetto anche per il più ovvio souvenir della indimenticabile vacanza. La stellina, la M di Mykonos.
Le scelte di un marchio che ti resta tutta la vita sono talmente personali che criticarle o condividerle è assurdo. Dietro la più ridicola minuscola stellina c’è comunque la coscienza che quel segno non si potrà togliere, a differenza di un piercing, e farà compagnia tutta la vita. Quindi massimo rispetto.
Fu quello che pensai dopo aver finito quell’introduzione al Peter Pan guardandomelo ben pulito. Una fanciulla di Piacenza o Vicenza, ormai non ricordo, venuta con questa frase ben completa. L’avevo già tatuata la medesima frase ad altre ragazze ma mai tutta intera fino all’Isola che non c’è.
Baci e abbracci finali, ringraziamenti vari, poi presi la abituale fotografia e qualche giorno dopo rollino a sviluppare, stampa nel solito negozio vicino allo studio, una rapida sbirciata alle stampe e mi prese un colpo: mancava una C. L’Isola non era la seconda a destra ma molto toscaneggiante era la “se onda” a destra. Come era potuto succedere? Avevo saltato uno spazio e ci sarebbe voluto un nulla per aggiungere la c ma né io né la ragazza ce ne eravamo accorti.
Ormai dissolta nel via vai di turisti, sceglievano quasi tutti di tatuarsi subito prima del ritorno a casa, mi tenni questa macchia nera sul carnet e andai avanti.
Ovvio che possa capitare di fare errori tatuando ma il più
delle volte puoi correggere raddrizzando una linea, rendendola più spessa, giostrando i colori fino ad arrivare all’ultima ratio della copertura. Ma un errore tanto idiota non mi ricordavo d’averlo mai fatto prima di allora.
Chissà quanti altri ce ne saranno stati senza che io ne prendessi coscienza. Ci fu una cattiveria fatta tatuando di cui portai il rimorso per anni. Era venuto a tatuarsi uno sconosciuto poco più che ventenne. All’epoca io avevo diciannove anni e tatuavo a casa amici degli amici con la mia prima preziosa macchinetta. Il cliente sconosciuto voleva un Fascio Littorio su un avambraccio e sull’altro una Svastica. Wow! Mai fatti prima. Né dopo.
Non so cosa la mia parlantina abbia messo su ma il ragazzo lasciò casa mia con Plutone Saturno e non so che segni zodiacali ben fatti e disposti in modo tale da poter dire: ”Sono tatuato.”
Era così soddisfatto che il giorno dopo si presentò con un fiasco di vino che il padre senatore del Movimento Sociale produceva. Un Sassicaia che non avevo mai sentito nominare ma che apprezzai tantissimo.
Già il giorno seguente mi ero pentito della scarna onestà che mi aveva fatto marcare la pelle di uno che a me si affidava con qualcosa di diverso da quanto costui si aspettasse.
Fu un rimorso che mi accompagnò per una ventina d’anni e che comunque non mi fece mai più incorrere nello stesso errori.
Una quindicina di anni dopo un energumeno dall’aria aggressiva mi chiese un ritratto del “Duce”, disse, e io fui tanto bravo da convincerlo che un volto così pieno e squadrato, privo di appigli per luci ed ombre non avrebbe mai reso in maniera soddisfacente e riuscii a metterlo alla porta. Il tipo uscì e il ragazzino che lavorava con me commentò: “Ho avuto paura ce smontasse lo studio.”
Quei maledetti segni zodiacali se ne stavano però annidati nella mia memoria fino al giorno che un signore in completo Carta da Zucchero mi fermò a via della Penna dicendomi: “Ma tu sei Pino Cino?”
“Si, ma scusa, io non ricordo…”
Slacciò il gemello che gli chiudeva il posino della camicia tirando su la manica e mostrando l’avambraccio coi famigerati segni astrologici.
Era lui e come disse ancora fiero dei suoi tatuaggi, i soli che avesse, e viveva a Londra dove lavorava in una banca inglese e bla bla e io sentivo la mia coscienza sgravarsi di un peso antico.
Anche quella “Se onda isola” si riscattò incontrando un cliente che un anno dopo sempre in quel di Mykonos si faceva non so che tatuaggio ed era anche lui di Piacenza o Vicenza, anche lui universitario e quando buttai lì se conoscesse la tal de’ tali, nome che adesso ho scordato, rispose di si:
“Fammi la cortesia allora tornato a casa dille che devo metterle a posto…”
“Che dici? E’ orgogliosissima del suo tatuaggio senza la C, così originale che lo fa vedere a tutti.”
E io mi misi in pace. Sono i rischi, per fortuna rari, che si corrono assumendosi responsabilità del genere marcare per sempre un altro umano.
Anche per questo motivo ho sempre voluto prima uno scambio di idee col cliente, caratteristica che faceva imbestialire Gippi: “Stai a perde’ tempo!”
Relativamente vero perché non dimentico un Albanese che voleva il ritratto dell’orrida madre e che io rifiutai di fare ma che si accollò Gippi rendendo l’Albanese felice.

I tatuaggi che rifiuti. “How much you want for a fly on the dick?”
Io stavo tatuando e l’americano era fermo sulla soglia e domandava.
“Four Thousand”, mi uscì detto.
“Dracme?”
“No. Dollars.”
“Wow! Expansive.”
Però entrò e si mise a sedere: io tatuavo e riflettevo se prendere in mano per la prima volta un altrui pene o rifiutare quei quattro mila dollari.
Se ne andò.
Non ebbi il medesimo dubbio quando cominciarono ad andar di moda i tatuaggi su clitoridi e grandi labbra.
Come decollino queste mode deve essere un segreto affidato a internet e alle più svariate immagini che sbocciano su computer e telefonini. Probabilmente un’idea che aveva fatto capolino tante volte ma che una prima immagine capitata su uno schermo aveva sbloccato.
Richieste per tatuaggi del genere me ne saranno capitate una quindicina e quindici ne ho fatti nonostante i preventivi avvisi circa il dolore che quelle aree avvertivano sotto il contatto dell’ago. Tre soltanto ne ho portati a termine e in due casi si trattava con evidenza di appassionate masochiste che nel piacere che le agitava dovevo esortare a star ferme.

Una delle due mi chiese un breack per donarsi un orgasmo; la terza invece che portò a termine una testa di tigre con fauci spalancate e zanne sulle Grandi Labbra è memorabile per il distacco esibito e la bruttezza. Una quarantenne talmente brutta che non presi alcuna foto. Ricordo soltanto che era la segretaria greca di un grosso uomo d’affari americano. Il mio lavoro: aspetti più o meno piacevoli ma sempre affrontati come lavoro.

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