Goa 33
In quella seconda stagione trovai il modo di farmi raggiungere dalla mia bambina e sua madre oltre che dalla fidanzata sarda sbagliando da emerito cretino i tempi.
Il mio splendore Sassarese era lì già da più di una settimana quando arrivò la mia piccola, aveva 10 anni, con sua mamma un po’ sulle sue quest’ultima come da carattere. Mancava il figlio maschio in vacanza non so dove e io presi per loro un appartamento in affitto.
La prima cena insieme fu un disastro con le due primedonne che apparivano molto fredde e scostanti.
Spedii Veronica a prendersi un gelato al chiosco poco distante e spiegai alle signore che io ero lì a lavorare, non avevo energie da dedicare alle loro tensioni e che la sola donna che contava era quella cosa piccola col gelato in mano.
Laura che era stata mia moglie per dieci anni afferrò al volo e da quel momento fu un’amica ospite e contenta di godersi quella vacanza anche se capivo benissimo cosa covasse; l’altra si dichiarò malata e il giorno dopo mi chiese di trovarle un medico e che parlasse italiano.
La accompagnai da un gentiluomo che sentiti i sintomi, dopo una visita accurata diagnosticò un latente nervosismo che le dava quel malessere.
“Questo non capisce nulla.” Fu la conclusione della mia bella. Bella lo era veramente: modella fotografica, talvolta indossatrice, cucinava come un Dio sarddoe a letto era fantasiosa e appassionata. Ma per la prima volta in vita mia lasciai una donna in maniera brutale.
La mattina dopo accompagnata la signora su una spiaggia me ne andai a lavorare rimuginando l’accaduto e le prospettive.
Terminato il turno mattutino passai da un’agenzia di viaggi dove le comperai un biglietto aereo per il tardo pomeriggio e andai a portarglielo. Mi tolse il saluto e rivedendola a Roma l’autunno successivo mi chiese spiegazioni ma io confessai che ero innamorato come una pigna di una incontrata dopo di lei.
Ci ha impiegato, giustamente devo ammettere, vent’anni per rivolgermi di nuovo una parola e un sorriso ma quando la avevo lasciata vivevo in un turbine l’atmosfera di Mykonos e l’attività che mi assorbiva.
Le notti, finito di tatuare e dopo la cena e il gelato in famiglia finché madre e figlia furono ospiti, riprendevo il mio giro dei bar.
Il Monna Lisa dei miei amici fiorentini non aveva più le entreneuses balcaniche imbalsamate ma una folla che straripava fino nelle vie adiacenti finché un’invidia di vicinato li costrinse a trasferirsi rilevando un ristorante.
Era una mia meta abituale del dopo lavoro anche se ci arrivavo stanco e alticcio.
Raccoglievo così compagnia per lo più alticcia quanto me.
Ne venivano fuori storie di cui non avevo memoria il giorno appresso.
Poi capitano a tatuarsi due ragazze romagnole e con una delle due finisco a letto un paio di giorni dopo incontrandola all’Angolo Bar.
Una canna e si fa l’amore in albergo da lei fino all’alba quando deve chiudere il bagaglio e ripartire per l’Italia.
Tutto normale, come d’abitudine ma quella ragazzina lì che mi aveva combinato?
Più o giorni passavano e più me la trovavo dentro: sorrisi, risate, quell’accento diverso, e la sua pelle. Non me la levavo dalla testa.
Una storia d’amore a Mykonos?
Ma mi faccia il piacere! Detto proprio alla Totò con il medesimo sarcasmo e la certezza che un abbaglio va affidato al tempo perché passi.
Ne avevo viste talmente tante di storie d’amore li su quello scoglio da ritenermi immune ed ero il prodotto di una cultura mai cieca o pressapochista. Le storie d’amore da me vissute erano sempre state, due volte era successo, frutto di quella malia arcana che è l’innamoramento ma ben radicate nella realtà.
Ero tra l’altro lo sciamano che le storie d’amore le suggellava con un segno indelebile. Fatto insieme a una lei o un lui allo stesso modo in cui immortalavo, con maggiore prospettiva di durata quest’ultime, trovandomi di fronte i protagonisti più inattesi.
In genere nomi ma nel caso di lui e lei raramente portando l’esempio di mie storie d’amore ormai passate sono riuscito a farli desistere. “L’amore passa ma il tatuaggio resta.”
Una delle frasi ripetuta cento volte ma ne ricordo pochi che abbiano fatto dietro front specie quando mi arrivavano in coppia con gli occhi sognanti.
Tre anni dopo mi arriva invece in studio una smentita eclatante alla mia saggezza.
Una greca sui trentacinque che in compagnia di un uomo si affaccia aldilà del paravento che separa la zona operativa e fa: “Ciao. Hai visto che ti eri sbagliato? Dicevi che l’amore è una malattia che passa, invece…”
“Scusa ma questa non l’ho capita…” Fa il tatuatore, sorpreso.
“Aiutami a ricordare”.
E la giovane donna da’ un’occhiata in giro e assicuratasi che nessun altro possa vedere, solleva la gonna mostrando il pube depilato dove campeggia una scritta in elegante calligrafico: “Dimitri’s property”.
Il tatuatore riconosce un suo lavoro e ride. Si ricorda di quando Irini era entrata chiedendo quel tatuaggio e lui aveva spinto perché non lo facesse.
“Il tatuaggio resta e l’amore passa. Te lo faccio solo se lo fa anche lui.” Le aveva detto indicato il tizio seduto li accanto e in attesa. Questi aveva fatto una smorfia ironica e di negazione. Poi però Irini aveva insistito e, preso atto della maggiore età, il tatuatore si era risolto a farle quella scritta.
Adesso, tre anni dopo, Irini sorrideva soddisfatta e alle sue spalle Dimitri appariva più soddisfatto di lei.
Il primo tatuaggio lo feci da solo con aghi e china che avevo 14 anni e nel tempo ne seguirono altri ma fin da subito mi resi conto che la mia espressione artistica affidata a un supporto tanto suscettibile di cambiamenti era affidata al tempo ancor prima che alla mia perizia. Una coscienza questa che ha animato ogni momento della mia vita di tatuatore.
mantenere una riga di contorno ben sottile perché domani non sia troppo spessa ed evitare le tanto richieste sfumature perchè io so già che col passare degli anni sbiadiranno appiattendosi. Inutili creme e protezioni solari: è pelle umana. Si trasforma e cambia. Sempre e comunque.
Non so quanti dei miei clienti ne avessero coscienza ma talvolta provavo a farli ragionare su certe richieste pittoriche sature di rischio.
Ho riprodotto una volta un particolare della Cappella Sistina, lavoro di cui mi sentii soddisfatto, ma ho rifiutato una volta un Caravaggio da dieci centimetri di grandezza.
Mi piace: 16Alessandro Antonaroli, John Flores e altri 14
Commenti: 9
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Pino,e il peperoncino che rimandava alla suddetta sul pube di chi sai chi?non credo di avere la foto ma sarebbe grazioso ne raccontassi te
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vedrai che sarà un modo per farla passareappena scritto primo capitolo
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non mollare
e perché noappena mi passa la depressioneLatente nervosismo… che diagnosi letteraria! -
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